Fidia mostra i fregi del Partenone ai suoi amici (Lawrence Alma-Tadema, 1868)
Storia di un “danno collaterale”
di Giorgio Masiero
330 anni fa una bomba intelligente distruggeva il monumento più insigne dell’antichità classica, il Partenone di Atene
Metà dei paesi del Veneto hanno una via Morosini, ho scoperto con gli anni spostandomi nella mia regione, ma prima d’indagare chi fosse il titolare del toponimo, non m’immaginavo cotanto eroe di cotali imprese. Che queste siano memorabili, lo intuisce già ogni turista a Venezia che passi per campo S. Stefano ed entri nell’omonima chiesa: varcato il magnifico portale sovrastato da una lunetta in stile gotico fiammeggiante, non potrà non notare l’imponente lastra tombale che copre le spoglie del doge Francesco Morosini, il Peloponnesiaco, né potrà resistere di camminarvi intorno, lentamente, rimirando in religioso rapimento il racconto scolpito delle peloponnesiache imprese. E poi, in quanti altri monumenti e trofei sparsi per la serenissima città il Morosini è ricordato!
Facciamo un balzo indietro nel nostro racconto, riandiamo alla battaglia di Vienna (11-12 settembre 1683) quando le truppe cristiane riunite di Carlo V, duca di Lorena, e di Giovanni III Sobieski, re di Polonia, arringate dalla predica del pordenonese Marco d’Aviano urlata in una lingua mista d’italiano, veneto, latino e tedesco, mettono fine a due mesi d’assedio dei turchi alla capitale dell’impero austro-ungarico, seppellendo le ambizioni del sultano Mehmet IV di occupare le regioni dell’Europa centro-orientale. Inizia allora quella graduale ritirata dell’impero ottomano entro l’Anatolia, che si concluderà dopo la prima guerra mondiale nei confini della moderna Turchia.
Già l’anno dopo, nel 1684, i cristiani creano la Sacra Lega, una versione risuscitata della Santa Lega che aveva vinto a Lepanto cent’anni prima. L’obiettivo è stavolta più ambizioso, non tanto di contenere i maomettani nel Mediterraneo orientale, ma di espellerli dai Balcani. Gli Asburgo attaccano verso Sud-Est per terra, i veneziani nella stessa direzione per mare. Nell’estate 1686 le truppe asburgiche riconquistano Buda, un grande risultato subito immortalato a Venezia con una lapide in pietra d’Istria, tuttora leggibile dalle parti di Rialto: 1686 ADÌ 18 ZUGNO BUDA FU ASEDIATA ET ADÌ 2 SETTEMBRE FU PRESA. È arrivato per Venezia il tempo di mostrare i suoi muscoli al mondo, specie agli Asburgo, storici alleati verso i nemici esterni, ma pure storici rivali nelle terre di reciproco confine.
A Palazzo Ducale decidono di fare le cose per bene: per la prima volta in 7 guerre veneto-turche la Serenissima Repubblica formalizza la dichiarazione di guerra alla Sublime Porta, come si deve tra potenze che odiandosi si rispettano. Il 16 giugno 1684 il bàilo (l’ambasciatore veneziano a Costantinopoli) Giovanni Cappello consegna la dichiarazione di guerra al kaimakam (un funzionario ottomano di secondo grado, essendo il gran visir e il padiscià impegnati in due fronti militari, uno ungherese contro gli Asburgo e uno tartaro contro i russi) e poi corre in fretta e furia a radersi barba, baffi e capelli e ad imbarcarsi di nascosto verso la madre patria, prima che il sultano (impegnato nell’arem in un altro fronte) sia informato d’una terza guerra per mare e non lo spelli vivo. 5 giorni dopo, Morosini può procedere alla conquista, per scaramucce, delle isole Ionie e così coprirsi le spalle in Adriatico. “Buttaron giù un campanile d’una moschea, che vi erano raunate molte donne e ragazzi, e fecer una bella stiaccia [strage]”, racconta un pistoiese al seguito dei veneziani con riferimento alla presa dell’isola di Santa Maura (l’attuale Leucade).
3 mesi prima Francesco Morosini era stato nominato “capitano generale da mar”, cioè ammiraglio della flotta veneziana, con cui si era imbarcato in giugno in una nave degna del suo rango. Lunga 50 metri, larga 12, con un “motore” di 480 galeotti divisi in 60 squadre da 8 uomini per azionare 60 remi lunghi 14 metri, la bastarda generalizia porta le bandiere quadre del leone di San Marco col motto IN HOC SIGNO VINCIT sugli alberi e un fanale di 3 luci a poppa. A vederla, può scambiarsi per una galleggiante opera d’arte barocca, col suo trionfo di putti, dorature, statue lignee di santi aureolati e turchi incatenati, fogliami, ecc., se non fosse per la scorta di 23 cannoni capaci di una potenza di fuoco tremenda. Quanto la nave ammiraglia è grandiosa, tanto il resto della flotta – nella cui costruzione Morosini ha impiegato tutto il suo patrimonio – appare modesto: ma i veneziani hanno una fiducia illimitata nelle doti marziali di quel capitano da mar, che ha già due volte ricoperto la carica risultando sempre vittorioso contro i non battezzati.
L’armata veneziana è composta inizialmente di 12.000 uomini, per metà mercenari tedeschi: i principi hannoveriani e sassoni sono soliti a quei bei tempi affittare reggimenti alla ricca repubblica veneta e così dare ossigeno alle loro magre finanze. Per giunta, l’armata di Morosini ha la proprietà miracolosa d’ingrossarsi al trascorrere della campagna militare, nonostante le perdite in battaglia e la peste sempre in agguato: in continuazione nuove truppe dalla Germania, ma anche dallo Stato Pontificio, dal Granducato di Toscana e dai Cavalieri di Malta, da tutta l’Europa cristiana accorrono sotto le insegne veneziane, allettate dalla buona paga e dai fringe benefits dei bottini sottratti ai barbareschi.
Morosini non tradisce la sua fama: inanella una vittoria dietro l’altra, per mare e per terra. Dopo le Ionie, nel 1685 sbarca in Morea (il nome veneziano del Peloponneso), prende Patrasso, poi Corinto e Lepanto, ed entro l’estate dell’anno dopo espelle i turchi da tutta la penisola, costringendo il serraschiere Ismail Agà a rifugiarsi a Tebe. Manca però una vittoria emblematica, che per carica simbolica pareggi la presa asburgica di Buda. Negroponte, Atene, per Cristo e per Venezia! gridano i cristiani. Eubea e Atene, vogliono i soldati veneti e i loro compagni forestieri. E lo vogliono le autorità in laguna per il prestigio della Repubblica, anche contro la ritrosia dell’ammiraglio.
Il 21 settembre 1687 Morosini approda al Pireo. 600 soldati turchi, asserragliati con le loro famiglie nell’Acropoli, osservano ansiosi lo sbarco d’una forza militare di 9.880 uomini e 871 cavalli capeggiata dal conte von Königsmark di Hannover: un ufficiale tedesco, com’è costume negli eserciti misti, comanda i combattimenti a terra. I cristiani, cattolici e protestanti, sono subito accolti come liberatori da un corteo festoso di ortodossi locali, vescovo ed altri notabili in testa. Gli ateniesi chiedono protezione di anime, corpi, case e monumenti dall’incombente catastrofe. Come farò, si risponde in cuor suo il tedesco, a salvare vite, case e antichità, se i turchi hanno trasformato il Partenone in una roccaforte militare, trasferendovi all’interno persino la polveriera e se sotto l’Acropoli, tutt’intorno, stanno i greci con le loro cose?
Il 22, il tempo di percorrere il tragitto tra il Pireo e l’Acropoli, i cristiani danno l’ultimatum ai turchi: la resa in cambio di tornare sani e salvi in Asia Minore, portando con sé i loro beni. L’ultimatum è respinto: dopo aver ammassato all’interno del Partenone tutta la polvere da sparo per cannoni e moschetti e le loro famiglie (altre 2.000 persone tra donne, vecchi e bambini), i turchi sperano di resistere per il tempo necessario all’arrivo dei soccorsi del serraschiere da Tebe. E poi credono che mai i cristiani oseranno bombardare il tempio simbolo della classicità d’Occidente, rimasto quasi intatto dai tempi di Pericle.
Per gli assedianti, la soluzione non sta nei cannoni che sparano in linea dritta, ma nei mortai che tirano a parabola. A preparare le bombe con 70 kg di esplosivo, che i mortai faranno cadere sugli assediati da un’altezza di 100 metri, ci pensano 50 bombisti veneziani “carghi d’ogni sorta di polveri, fuochi artificiali e granate”, diretti dal conte di San Felice, uno scienziato matematico-alchemico-balistico di Verona che si era fatto apprezzare alle feste del Re Sole in fuochi pirotecnici niente affatto micidiali.
Il 23 settembre, i mortai cominciano a martellare la rocca, provocando però ai turchi molti meno danni di quanti ne ricevano o ne provochino agli ateniesi. Intanto i cannoni turchi hanno il vantaggio di rispondere linearmente dall’alto, con maggiore visibilità e potenza. Poi le parabole cristiane vanno raramente a segno. I mortaisti tedeschi sono di provenienza composita, dotati di un’artiglieria composita, bisognosa di palle altrettanto composite: per imprimere la giusta traiettoria si devono in ogni tiro adattare, in lingue diverse, bocche di fuoco, calibri di palle e quantità di polvere. E non ci sono abbastanza stadere a disposizione… Il risultato, nel racconto d’un ufficiale della Sacra Lega, è che la maggior parte degli ordigni scavalca l’Acropoli e “invece di cadere nel castello, flagellavano il borgo” ateniese cadendo sul lato opposto.
Ma i tedeschi, si sa, più le cose si fanno difficili più s’incaponiscono. “Adoprate le machine da mani più destre, fecer immediate l’effetto dentro la rocca” e, alle 7 di sera del giorno 26 settembre, una bomba fa centro per caso. Il Partenone prende fuoco con un’enorme esplosione, uccidendo centinaia di civili. Il centro dell’edificio deflagra, frantumando 28 colonne, gran parte delle metope e dei fregi e i vani interni. Frammenti sono scagliati a centinaia di metri, colpendo gli stessi assedianti. “La sera del 26 una bomba diede nel tempio di Minerva, dove havevano li turchi rimesse le polveri, e le robbe loro più preziose, con le donne, essendo quella fabbrica sicurissima per la grossezza delle mura di marmo, per uno spatio di tempo assai considerabile si vide una pioggia di fuoco di granate e d’altro, la più bella del mondo, si sentì un rimbombo così grande che tutto il borgo a basso ne tremò, e si giudicò che doveva essere grande la rovina in un luogo angusto, come è quella fortezza”.
I veneziani gridano “Viva San Marco!”, i tedeschi “Sieg!”, vittoria. Morosini invia un primo dispaccio sotto tono a Venezia: “La sera di 26 con fortunoso colpo, mentre acceso un deposito di buona quantità di polvere non poté più estinguersi la fiamma, ore andò serpendo, e per due intieri giorni diroccando l’habitato coll’apportarle notabili danni, e crucciose mestizie”, dove prudentemente omette la posizione del “deposito di polvere” e la sostanza delle “crucciose mestizie”. Il giorno dopo, conscio che la notizia della distruzione del Partenone arriverà presto in laguna, in un secondo dispaccio accamperà l’errore umano. Quando la notizia si diffonderà in Europa, soprattutto per merito dei gazzettieri veneziani – inventori del business delle agenzie di stampa tramite inviati di gossip e di guerra sparsi per il mondo – accuserà i soliti tedeschi. Ma anche questa spiegazione non regge: a parte la risibilità (chi era il comandante supremo che ha deciso l’attacco? e chi erano i costruttori delle bombe?), essa insieme al disonore archeologico toglie a Venezia gli onori politici e militari della grande vittoria. Serve una versione che attribuisca alla Serenissima ogni positività e scarichi su altri ogni negatività. Presto trovata, sarà quella ufficiale nella storiografia lagunare: la colpa è degli ottomani, per aver collocato la polveriera in quella posizione ed aver rifiutato cocciutamente di arrendersi. Ti sentirai contar ancor oggi, caro Lettore, tra le calli di Venezia: una bomba ha centrato intelligentissimamente l’obiettivo militare scelto da Morosini, che ha fatto solo il suo dovere. Esercitando per giunta una “clemenza irritata”, parole di una gazzetta veneziana dell’epoca.
L’Acropoli comunque non è ancora conquistata, gli assediati resistono…, ma un secondo ultimatum viene stavolta accettato e i superstiti s’imbarcano a loro spese verso Smirne su navi inglesi e francesi. I comandanti cristiani si dividono il bottino: a Morosini toccano, oltre a cammelli, drappi, gioielli, arabeschi, ecc., anche 63 schiavi “mori”: 41 femmine e 22 maschi. Venderà gli schiavi, eccetto 4 giovinette che, dopo il battesimo, riceveranno da lui una lauta dote e troveranno marito a Venezia. La truppa invece accorre sull’Acropoli per raccattare i frantumi delle sculture di Fidia da portare a casa come souvenir o, se sono grossi, da spaccare in pezzi più piccoli per rivenderli. Intanto la signorina Åkerhjelm, dama di compagnia della moglie del comandante tedesco, piange a dirotto sulle rovine “irreparabili” del magnifico tempio, tra le quali raccatta, intascandolo, un prezioso manoscritto arabo intatto.
A destra, La Porta da terra dell’Arsenale di Venezia (3 dei 4 leoni sono stati portati a Venezia da Morosini, il quarto proviene da Corfù, dopo la vittoria del 1716 contro i turchi in altra guerra). A destra, i marmi di lord Elgin al British Museum di Londra
L’aprile del 1688, anche in seguito ad un’onda di peste che colpisce il contingente tedesco, Morosini chiude la campagna militare. Secondo prassi, fa pagare ai liberati le spese di liberazione caricando nelle navi numerosi reperti archeologici, tra cui 3 dei 4 leoni che tutt’oggi fanno bella guardia alla Porta da terra dell’Arsenale di Venezia. Nel luglio dello stesso anno sarà eletto 108° doge di Venezia e in agosto – cosa mai accaduta prima e che mai accadrà dopo nella storia della Serenissima, una repubblica avversa al culto della personalità come nessun’altra – sarà insignito del titolo di “Peloponnesiaco” per i meriti acquisiti sul campo di battaglia e si vedrà collocato un busto in bronzo nella sala del Consiglio dei Dieci con l’iscrizione FRANCISCO MAUROCENO PELOPONESIACO, ADHUC VIVENTI SENATUS, Il Senato a Francesco Morosini il Peloponnesiaco, mentre è ancora in vita.
Atene non rimase molto tempo città libera. Dopo la partenza dei veneziani, ricadde insieme all’Ellade tutta per un altro secolo e mezzo sotto il dominio turco, finché con la guerra d’Indipendenza (1821-1832) i greci non vi si affrancarono definitivamente.
In questi 150 anni però, i mercanti d’arte inglesi e francesi, appoggiati spregiudicatamente dai loro governi, non stettero con le mani in mano: o con furti diretti, o con regalie agli occupanti turchi, arraffarono quanto più poterono dei tesori archeologici dell’Attica e delle isole egee. L’esibizione flagrante della vergogna, davanti a tutto il mondo, è nelle sezioni classiche del British Museum di Londra, del Louvre di Parigi e di altri musei europei.
Il furto più eclatante è costituito dai cosiddetti marmi di lord Elgin, ambasciatore inglese a Costantinopoli, il quale ottenne nel 1811 dalla Sublime Porta l’autorizzazione a staccare dal Partenone i fregi e le metope dell’architrave sopravvissuti al bombardamento veneziano. “[Elgin] ha voluto togliere i bassorilievi del fregio: per poterlo fare, gli operai turchi hanno prima spezzato l’architrave e atterrato i capitelli; poi, invece di estrarre le metope dai loro alloggiamenti, i barbari hanno trovato più agevole frantumare la cornice. Dall’Eretteo hanno preso la colonna d’angolo, tanto che oggi l’architrave è sostenuta da un pilastro di pietre” (Chateaubriand, testimone oculare e francese invidioso). Portati i marmi a Londra, Elgin li vendette a Sua Maestà e pagò tutti i suoi debiti, evitando la prigione per bancarotta e preservando i titoli nobiliari. Oggi quei fregi, raffiguranti la presa di Troia, la Gigantomachia, l’Amazzonomachia, la Centauromachia, la nascita di Atena, ecc., ecc. sono il vanto del British Museum.
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8 commenti
Che ventata di verità, che ci viene dalla storia, dopo tante fumisterie scientifiche!
Grazie, prof. La prossima volta che vado a Venezia voglio andare a vedere S. Stefano e anche l’Arsenale.
Grazie a Lei, Nadia.
La chiesa di S. Stefano si può visitare liberamente, è a campo S. Stefano, dove c’è anche il Palazzo Morosini, a due passi dal ponte dell’Accademia. Ma l’Arsenale – bellissimo e grandioso – è zona militare, visitabile solo dopo aver prenotato la visita guidata (e scortata!) in alcune occasioni dell’anno. Lei può comunque arrivare fin davanti alla Porta da mar, che ho rappresentato in un’immagine.
Bisogna tener conto che Venezia era in decadenza ed in forte affanno per la sua stessa sopravvivenza (per Venezia sopravvivenza ha significato sempre 2 cose: a) indipendenza; b) mercati orientali) per diversi motivi:
1) le continue guerre con una o l’altra lega (Spagna-Francia-Asburgo-Papato che si componevano e scomponevano alla bisogna) che sempre cercavano l’aiuto della Repubblica per la sua, pur declinante, potenza marittima, e poi a conclusione di queste guerre i “potenti” dell’epoca, principalmente Francia e Spagna, ma anche Austria e Ungheria, si spartivano il bottino grosso mentre a Venezia, che in genere era il principale finanziatore di tutti, ob torto collo, restavano le briciole.
2) Le finanziariamente e logisticamente devastanti guerre di Cipro con la perdita dell’isola; Vienna con tutto il corollario e gli antefatti di incursioni turche nel Friuli veneziano e contro le piazzeforti veneziane della Dalmazia; Lepanto; Candia con la perdita dell’isola dopo oltre 10 anni di resistenza contro forze soverchianti.
3) le continue scorribande dei corsari, nordafricani, ottomani (per gli ottomani la differenza fra guerra e pace consisteva in questo: in pace gli attacchi e le aggressioni non erano coordinate centralmente, in guerra sì [Cit. Alvise Zorzi]; e i soliti Uscocchi fomentati sia da casa d’Austria che dal re Ungherese; e dei Cavalieri di Malta che con la speciosa motivazione che le galee Veneziane potevano trasportare carichi del nemico turco, non perdevano occasione per attaccarle e depredarle.
4) la forte riduzione della popolazione a causa della peste.
5) La crisi politica che portò alla “riapertura del maggior consiglio” e alla vendita di titoli nobiliari (NH: nobil homo, unico titolo nobiliare Veneziano) a nobili e ricchi della terraferma veneziana, a nobili e ricchi di altrei stati (Francia, Austria, Spagna, vari ducati e potenati italiani) e a ricchi non nobili veneziani, in cambio di 100.000 ducati per poter finanziare l’ennesima guerra anche se in effetti, possiamo constatare che lo stato di guerra era la normalità per Venezia durante tutta la sua esistenza e che i brevi periodi di pace siano stati delle eccezioni. ma la situazione era cambiata: i Portoghesi e gli Olandesi avevano monopolizzato il mercato della spezie importate per via oceanica, lasciando alla via Medio Oriente – Egitto/Siria solo le briciole, senza contare che il prezzo delle spezie era crollato a causa degli ingenti quantitativi importati dai portoghesi, per cui, rovinate diverse famiglie con i prestiti forzosi, Venezia non sapeva più dove sbattere la testa e decise di vendere i richiestissimi tioli. Questa crisi politica era stata inescata principalmente dallo “sfoltimento” dei consigli a causa della peste, e dalla forte riduzione dei flussi dai mercati orientali oltre che al problema dei “bravi” al soldo delle varie famiglie che spdroneggiavano in città, ciò permise al doge Corner di infrangere ripetutamente la secolare promissione ducale e lucrare vantaggi per i propri congiunti contro la legge. Memorabili le battagli di Ranier Zen contro il Corner che con sorti alterne portavono ad una difficoltosa restaurazione della legalità.
L’ennesima lega con l’Austria era stata estorta facendo balenare la promessa del recupero di Candia e di Cipro, cosa che poi non si realizzò perchè gli Asburgo avevano tutto l’interesse ad indebolire Venezia piuttosto che di rafforzarla.
La riconquista della Morea e degli “occhi di Venezia” e di Cipro e Candia erano vitali per poter riattivare i traffici con l’oriente, anche se le spezie erano svalutate rimanevano altri beni di lusso come le pellicce dal Mar d’Azov, le pietre prezione, i tessuti, quindi Venezia accettò nonostante fosse già svenata, poi tutto quanto guadagnò, fu poco più che l’isola di Zante esentata dal dover pagare il tributo alla Sublime Porta.
Diverse azioni coraggiose, il canto del cigno, vennero effettuate da comandanti veneziani per portare in casa del Turco la guerra e quindi passare da una posizione difensiva che subiva la pressione turca ad una offensiva, ci furono tre forzature dello stretto dei Dardanelli portando la guerra nel Mar Nero, una delle quali ebbe quasi successo se non fosse stata fermata dalla morte del comandante.
In questa situazione Venezia non aveva grandi alternative, o la guerra o il declino che ormai era iniziato.
Morosini fu il classico “uomo del destino” che ridiede una speranza di sopravvivenza e di riconquista di una certa potenza a quella piccola repubblica circondata da giganti.
Il comandante delle artiglierie era Königsmark, quindi se non altro va attribuito un concorso di colpa.
Non che sia stata una bella cosa ma intanto bisogna considerare che in nessun caso, in nessuna epoca ed in nessuna parte del mondo un comandante militare si è mai fatto alcuno scrupolo di tipo “artistico” se doveva conquistare un obbiettivo, la cosa non avrebbe senso.
Seconda cosa, il colpo fu fortuito, non è che la precisione delle artiglierie dell’epoca fosse così eccelsa.
Terzo, non possiamo far passare di cavalleria l’azione turca che ha usato un monumento eccelso dell’umanità come polveriere, quindi anche i Turchi si prendano la loro parte di colpa. Non dimentichiamo il comportamento diverso dei Tedeschi a Cassino che misero il sicurezza tutte le opere d’arte che poterono e che difesero solo con una minima guarnigione l’Abazia, cosa che gli alleati non considerarono per nulla e, in questo caso volontariamente e senza una vera utilità tattica la rasero al suolo.
Quarto, Morosini si rese subito conto dell’enormità del danno e se ne dolse, tanto che inviò due dispacci a Venezia il primo annunciando la vittoria, il secondo, quasi scusandosi del danno al monumento.
Grazie dell’approfondimento sulla storia della Serenissima: sono in accordo con Lei, eccetto per la parte in cui Lei dice che già all’epoca del Morosini si potessero intravvedere i sintomi della crisi della Repubblica. Comunque, per quanto riguarda il comportamento di quest’ultimo nella guerra di Morea, io non lo critico affatto, anzi ne sono un acceso ammiratore. Ciò che ho solo voluto descrivere in questo articolo, il più asetticamente possibile, è che l’umanità è sempre la stessa, nel bene e nel male e che nulla di veramente nuovo, neanche nella propaganda, è stato inventato ai nostri tempi…, come già avevo avuto occasione di scrivere nell’occasione di un altro articolo dedicato a Ottaviano Cesare Augusto.
Non avevo un intento polemico, cercavo solo di inquadrare il tutto in un periodo storico difficile se non difficilissimo per la Repubblica, non che Venezia abbia mai avuto in sorte dei periodi facili. Purtroppo certe cose succedono e come Lei sa, appunto, già i Romani quando conquistarono la Grecia non ebbero molti riguardi per la cultura locale e certamente non ne ebbero con Cartagine. Purtroppo queste brutte storie si ripetono di continuo, anche Venezia aveva avuto un precedente durante l’ultima crociata con l’espogliazione di Costantinopoli. Sono cose brutte ma mi preme fare un confronto fra il comportamento direi accidentale o utilitaristico delle distruzioni antiche e quello sistematico e volto a piegare lo spirito del nemicocolpendolo nei simboli della sua propria cultura delle guerre attuali, dal bombardamento di Dresda, a Cassino, alla devastazione del museo di Baghdad a quella del mercato di Aleppo. Mi sa che ci siamo imbarbariti un bel po’. Mi unisco all’ammirazione per il Morosini e per altri ancora, senza divinizzarli però; in quanto alla crisi politica Veneziana, più che un inizio di crisi in quel periodo si è verificato un vero e proprio smottamento che ha visto il Maggior Consiglio, I Dieci, I pregadi in lotta sotterranea per invadere territori di competenze che per legge non spettavano loro e nel contempo I Dieci ed il Maggior Consiglio che hanno dato il beneplacito ai comportamenti nepotistici illegali de Corner. Raniero Zen, finì al confino per la sua opposizione per poi ritornare senza concludere granchè visto che rovinò tutto per voler esagerare, comunque a lui va il merito di aver sollevato il problema che verrà risolto da altri, infatti le cose migliorarono e la legalità tornò a regnare.
Gentile Masiero, trovo molto interessante questo approfondimento su un fatto storico che non conoscevo. Mi rileggerò con più calma il suo articolo, per apprezzarne i dettagli.
Vorrei anche aggiungere una considerazione che, purtroppo, va molto fuori dal tema di questo post. Si tratta di una puntualizzazione su una delle sue ultime affermazioni nella discussione precedente, dove lei ha scritto che “anche Darwin credeva ad una direzione dell’evoluzione al cui culmine c’è l’uomo bianco. È il sottoinsieme dei darwinisti moderni dei cespugli che in ciò non è darwinista.”
https://www.enzopennetta.it/2017/10/su-byoblu-intervista-ad-enzo-pennetta-il-darwinismo-e-i-le-sue-implicazioni-sociali-ed-economiche/#comment-3555298274
Mi spiace farle notare che questa frase è profondamente sbagliata. Darwin non credeva in una direzione dell’evoluzione, contestava l’idea di esseri viventi superiori o inferiori, aveva già in mente un’evoluzione rappresentata come un albero estremamente ramificato (molto più vicino ai cespugli odierni che a una linea progressiva) e non mi risulta abbia definito l’uomo bianco come il culmine dell’evoluzione. Per essere un uomo dei suoi tempi, era anzi decisamente aperto nei confronti di altre etnie, e contrario alla schiavitù.
Mi scuso di nuovo per essere andato fuori tema, ma mi sembrava molto importante fare chiarezza su questo punto.
Grazie a Lei, Greylines, per l’apprezzamento a questo mio articoletto.
Il resto è davvero OT e avremo occasione di ritornarci. Per il momento dico soltanto che non ho inteso criticare Darwin con quel giudizio, mi scuso se ne ho dato l’impressione. Io considero Darwin oltre che un grande naturalista, un uomo buono e mite. Nemmeno però lo canonizzo: era un inglese della sua epoca.
Avevo capito che il suo non era un giudizio, e anch’io sono tendenzialmente contrario alla canonizzazione di chichessia. Solo mi premeva chiarire che non parlava di un’evoluzione con una direzione, né che tale direzione “finale” fosse l’uomo bianco.
Era sì un uomo della sua epoca, ma decisamente non era Haeckel, per dire.