Una “buona scuola” in cui si riducono gli anni di studio e si alternano i rimanenti col lavoro.
La demolizione controllata, colpi assestati in punti strategici e alla fine viene giù tutto.
.
Se ne parlava da tanto e infine è arrivata la sperimentazione dei licei ridotti a quattro anni con la pretesa di fare nel primo anno quello che si faceva in due: Repubblica, 8 novembre 2016 – “Liceo breve, dal 2017/2018 piano attivo in altre 60 classi“. Una pretesa che non tiene conto del fatto che in quei primi due anni viene svolto un lavoro di trasformazione da alunni di scuola media a studenti di liceo, un lavoro che non può essere compresso a piacimento.
Chi insegna sa che si fa fatica a svolgere i programmi liceali in cinque anni, come si potrebbe pensare di scendere a quattro senza danneggiare il già debole profitto che molti conseguono? E per ottenere quali vantaggi se non un ingresso anticipato di un anno nella disoccupazione giovanile? Ma ragionare in questi termini è già fare una pericolosa concessione alla mentalità utilitaristica che vede la scuola come avviamento al lavoro e non come formazione della persona attraverso la cultura. Un mondo mercificato dove la cultura non solo non ha spazio ma deve essere di fatto scoraggiata.
L’abbassamento culturale sarà ottenuto anche con l’applicazione del metodo CLIL, quello secondo il quale se uno entra in classe e si mette a spiegare in inglese matematica, filosofia o chimica lo studente impara due materie insieme anziché una. Una cosa che non sta nè in cielo nè in terra e che porta in secondo piano i contenuti rispetto alla lingua inglese che diventa il vero perno della formazione sacrificando la preparazione nelle singole discipline: ignoranti che parlano (forse) inglese.
Di questa demolizione controllata della scuola e delle possibili iniziative per contrastarla ho parlato in un articolo pubblicato lo scorso settembre sul mensile Notizie ProVita, in questi giorni che lo smantellamento della scuola compie nuovi passi, lo ripropongo su CS.
Pubblicato su ProVita nel mese di settembre del 2016
Che fine ha fatto il ruolo educativo nella scuola oggi?
Parlare della scuola oggi è parlare di qualcosa di così disomogeneo che sarebbe più opportuno parlare di “scuole”, fatta questa debita premessa è possibile però individuare delle linee generali che attraversano il sistema scolastico determinandolo nelle sue pur molteplici realtà.
In modo impercettibile da alcuni anni è in atto una tendenza allo spostamento dell’azione della scuola da una funzione educativa ad una formativo-tecnica, si tratta evidentemente di una trasformazione profonda che ha importanti ricadute sul tipo di società che si va a costruire.
Da qualche tempo si sta infatti diffondendo l’idea che l’insegnante debba cambiare il suo ruolo passando dall’essere qualcuno che educa e trasmette conoscenze ad essere qualcuno che riveste un ruolo di “facilitatore” delle stesse.
Come è immediatamente evidente dalla semplice etimologia delle parole, la funzione passerebbe dall’indicare gli obiettivi a quello di rinunciare a questa funzione riducendosi ad aiutare lo studente nel conseguimento degli stessi. Scomparirebbe così la figura stessa dell’insegnante educatore per far posto a quella di un ‘tecnico’ che funge da intermediario tra le specifiche caratteristiche del singolo studente e un sapere impersonale che diventa il vero interlocutore dello studente stesso.
Dietro il proposito condivisibile di mettere lo studente al centro dell’opera educativa (ma perché finora per chi si insegnava?) viene a passare l’eliminazione della figura del docente come “maestro” cioè di colui che etimologicamente è il “più grande” e in quanto tale è esempio da seguire. Nella scuola degli insegnanti ‘facilitatori’ non c’è nessun esempio da seguire perché sono le proprie particolarità a diventare ciò a cui la scuola deve adeguarsi e quindi seguire, sarà l’insegnante a seguire lo studente e non viceversa.
Se nella scuola dei maestri si poteva correre il rischio di incontrare dei “cattivi maestri”, dai quali trarre un’esperienza di vita in ogni caso significativa, nella scuola dei facilitatori questo non avverrà più, ma non si incontreranno neanche più dei buoni maestri.
Il maestro prima di essere qualcuno che trasmette il sapere è qualcuno che trasmette un modo di essere, questo ruolo è chiaramente reso dall’utilizzo del termine “maestro” nei Vangeli dove la figura del Cristo più che essere identificata da quello che dice è un modello da seguire.
Questa figura di docente “facilitatore” non si è ancora affermata nelle nostre scuole ma sapendo che tale è la tendenza possiamo capire quale dovrebbe progressivamente diventare il suo ruolo nel nostro sistema scolastico.
Alcuni importanti indizi di uno spostamento della figura dell’insegnante verso un ruolo di facilitatore sono ravvisabili in una tendenza ad un aumento del ricorso indiscriminato a personalizzazioni dello studio che avvengono per via di una dilatazione del numero e dei casi di situazioni specifiche che richiedono trattamenti come BES (bisogni educativi speciali), DSA (disturbi specifici dell’apprendimento) o ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività), si tratta di situazioni che certamente richiedono attenzione ma che stanno dando luogo ad un impiego, a detta di molti, eccessivo di personalizzazioni dello studio.
L’effetto finale di questo spostamento è individuabile in un rischio di soggettivizzazione dell’apprendimento che venendo incontro alle esigenze del singolo rischia di essere in qualche modo piegato ad esse. In secondo luogo si va verso un’esaltazione di una cultura asettica e indiscutibile che viene proposta senza il filtro costituito dall’insegnante stesso le cui considerazioni possono essere o no condivisibili ma che comunque rappresentano un esempio di pensiero critico.
A questo orientamento si va sovrapponendo una seconda tendenza costituita dall’individuare nella scuola una semplice fornitrice di competenze lavorative anziché luogo di formazione della persona e dispensatrice di cultura.
A togliere ogni dubbio al riguardo è stata il Ministro Giannini che nel corso di un’intervista del maggio 2016 ha dichiarato:
“L’Italia paga un’impostazione eccessivamente teorica del sistema d’istruzione, legata alle nostre radici classiche. Sapere non significa necessariamente saper fare. Per formare persone altamente qualificate come il mercato richiede è necessario imprimere un’impronta più pratica all’istruzione italiana, svincolandola dai limiti che possono derivare da un’impostazione classica e troppo teorica.”[1]
Riassumendo, la scuola sta subendo delle spinte in direzione di un’omologazione ad altre realtà europee ed occidentali in generale che vanno verso una progressiva perdita della funzione educativa tradizionale per orientarsi verso una forma di laboratorio di apprendimento di saperi preferibilmente orientati ad un impiego pratico.
Dal punto di vista della formazione si va assistendo in definitiva alla sottrazione della funzione educativa all’insegnate, una tendenza che va di pari passo a quella che si va operando nei confronti della famiglia.
La scomparsa dell’insegnante come “maestro” e della famiglia come riferimento, porta ad una cultura omologante in quanto il confronto resta tra il singolo allievo e le conoscenze/capacità da apprendere.
Se la scuola come luogo educativo di formazione della persona andrà effettivamente perdendo terreno, il risultato saranno studenti cresciuti nell’omologazione alla cultura dominante e al tempo stesso accondiscendenti verso le proprie personali debolezze, purché esse non entrino in conflitto col sistema culturale proposto.
Se l’attuale generazione di docenti lascerà il posto alla successiva senza mettere in discussione queste nuove tendenze la rivoluzione della scuola, e con essa una rivoluzione antropologica, sarà compiuta.
Oggi però la possibilità di svolgere un ruolo educativo è ancora possibile e tale possibilità va difesa e tramandata finché esisterà un’autonomia sull’applicazione di metodi e modelli educativi.
Per una scuola che continui ad educare la persona e non ad omologarla acriticamente a dei saperi è importante essere presenti ad ogni livello come insegnanti, genitori e alunni.
È in questo momento storico in cui la mutazione è in corso che si è chiamati più che mai ad avere il coraggio di essere dei veri maestri.
Enzo Pennetta
[1] http://www.cdt.ch/mondo/cronaca/154964/polemiche-in-italia-il-cdt-svela-cosa-ha-detto-davvero-il-ministro-giannini
.
.
.
17 commenti
Sono sostanzialmente d’accordo con la sua opinione prof.Pennetta. Nemmeno io credo che la strada giusta sia quella di portare i licei a quattro anni e non credo nemmeno che sia questa l’età dei ragazzi in cui si possa pensare di sacrificare la formazione culturale della persona in nome di non ben precisate attitudini tecnico-pratiche. Semmai sarei tentato di spostare il problema segnalato dalla Giannini, che probabilmente esiste e di conseguenza è giusto analizzare, all’interno dell’ambito universitario. Quello che si potrebbe fare nei licei invece, e questo traspare anche dalle parole della Giannini, potrebbe essere un riassetto delle materie e discipline andando a rivisitare quella che anche secondo me è un’impostazione culturale generale ancora troppo classica. Chiediamoci se potrebbe essere veramente il caso di sacrificare a questo punto un po’ di letteratura greca e latina per esempio per fare più spazio all’informatica o all’introduzione di nuove discipline come per esempio l’educazione civica, ambientale o alimentare o potenziando (aggiornandole) le materie scientifiche. Perché non possiamo pretendere più logica, più competenza spendibile o più giudizio critico se poi i nostri ragazzi quando escono dal liceo sanno tutto di Ariosto o dei Promessi Sposi e non sanno invece che cosa sia un sistema complesso. Cito in merito, come omaggio al compianto Umberto Veronesi, quello che sembra essere stato uno dei suoi ultimi messaggi: «Andate avanti, perché il mondo ha bisogno di scienza e ragione».
Salve, condivido tutta la prima parte del suo commento. Per quanto riguarda cosa andrebbe fatto nei licei:
“Chiediamoci se potrebbe essere veramente il caso di sacrificare a questo punto un po’ di letteratura greca e latina per esempio per fare più spazio all’informatica”
“Ni”, perché per gli indirizzi tecnico-scientifici può essere vantaggioso imparare già dal liceo come si scrive un algoritmo informatico, anche se si tratta di una forma particolare di linguaggio che è tanto più facile da apprendere tanto più si conosce la lingua come grammatica, lessico e sintassi, cose che vengono insegnate bene tramite l’italiano e il latino/greco.
.
” o all’introduzione di nuove discipline come per esempio l’educazione civica, ambientale o alimentare”
Sono più per il No perché le vedo cose che possono essere facilmente accorpate in un’unica disciplina, l’educazione a ragionare, in primis fornita dalla filosofia. L’idea che per ogni emergenza sociale c’è bisogno della rispettiva disciplina scolastica la trovo di moda ma non necessaria, le consiglio al lettura di questo articolo http://www.aldomariavalli.it/2016/09/15/educare-ed-educarsi-allintelligenza-tredici-regole/
.
” o potenziando (aggiornandole) le materie scientifiche.”
Sono d’accordo, lo trovo inevitabile per una Scienza che va sempre avanti e richiede concetti nuovi da maneggiare.
.
” Perché non possiamo pretendere più logica, più competenza spendibile o più giudizio critico se poi i nostri ragazzi quando escono dal liceo sanno tutto di Ariosto o dei Promessi Sposi e non sanno invece che cosa sia un sistema complesso.”
So che può sembrare anti-intuitivo ma stavolta sostengo l’opposto, cioè che la logica e il giudizio critico, almeno nel mio caso, le devo soprattutto alle discipline umanistiche (storia, letteratura e filosofia). Saper comprendere un testo, saperlo riassumere, schematizzare, farne proprio il contenuto, integrarlo e rispiegarlo in modo autonomo sono cose che si imparano con le materie umanistiche. Una volta imparate, si è in grado di affrontare qualsiasi argomento, diventa solo una questione di gusti. Non bisogna farsi ingannare dal contenuto che sembra “poco utile” (conoscere la Divina Commedia, per es.) perché è il raggiungimento di quel contenuto che forma lo studente.
Per quanto riguarda la citazione di Veronesi, la “ragione”, per definizione, è lo strumento e spesso l’oggetto di studio della filosofia, spero che alludesse a quella con quel messaggio.
Sono abbastanza d’accordo, ciò significa che i nostri modi di vedere, in fondo, non sono poi così distanti, io infatti non ho citato la filosofia e la grammatica, ma la letteratura greca e latina, nonché i classici tomi integrali per esempio dei “Promessi sposi”, se proprio devo fare una scelta. Grazie della segnalazione dell’articolo, condivido in pieno, anche se credo che i punti citati dall’autore riguardino di fatto principalmente campi di educazione che dovrebbero essere più pertinenti alla famiglia che all’istituzione scolastica. Mi spiego, io ho due figli in età scolare e da genitore consapevole ho sempre cercato prima di ogni altra cosa l’educazione all’intelligenza e allo spirito critico, rendendomi conto però che a scuola, vuoi per problemi logistici, vuoi per le carenze di alcuni insegnanti, non era sempre così. Se si aggiungono poi le carenze anche di molti genitori, e le posso assicurare che esistono eccome, la frittata è fatta e spesso i risultati si vedono. Non è facile tracciare il confine delle responsabilità nell’educazione dei ragazzi. Sull’importanza delle materie umanistiche siamo tutti d’accordo, il problema però è che anche nella classe dirigente siamo pieni di umanisti altezzosi che non sanno comprendere un articolo scientifico, una metanalisi o l’importanza di un modello di ragionamento mutuato dalle scienze sperimentali, mentre mi sembra che la maggior parte degli scienziati si sappia esprimere in modo corretto, sia in grado di comprendere perfettamente un testo letterario, e anzi ami occuparsi di hobby umanistici. Il classico esempio è quando i giornalisti umanisti, ignoranti di scienza (senza tono dispregiativo per carità), e in merito si potrebbe stilare un ampio elenco, si occupano di temi scientifici. Quello che voglio dire è che forse, in un mondo indubbiamente ad alto tasso di scientificità, se vogliamo crescere come nazione e anche dal punto di vista antropologico, forse sarebbe meglio che cominciassimo a darci una mossa… Quello che in realtà è purtroppo davvero controintuitivo e per questo va insegnato è, secondo me, il modus operandi proprio della scienza, e questo lo si può facilmente sperimentare osservando per esempio quante persone a questo mondo vivono di opinioni, pregiudizi, miti e credenze e quanto difficilmente siano disposte a modificare il proprio pensiero, nonostante il mondo e le conoscenze si evolvano continuamente.
Ho letto l’interessante scambio di idee tra Vomiero e Htagliato, concordo anch’io sui punti nei quali le loro idee convergono, per la restante parte mi sto convincendo sempre più che la base di qualsiasi conoscenza, e quindi anche di quelle scientifiche, sia nella piena padronanza della lingua.
La mia (ormai) lunga esperienza mi ha portato a scoprire come molto spesso all’origine di una risposta sbagliata ci sia una mancanza di ascolto e comprensione della domanda.
Si assiste ad una interpretazione della domanda che riflette di fatto le aspettative che lo studente si è fatto su quell’argomento e non ciò che esattamente è stato chiesto, possiamo dunque capire come anche la conoscenza scientifica possa essere distorta da meccanismi di questo tipo dove di fronte ad un medesimo testo diverse persone possono comprendere cose differenti.
Ecco allora che è di primaria importanza il potenziamento dello studio della lingua italiana e di quelle classiche, cioè la direzione diametralmente opposta a quella di chi ha pensato un metodo come il CLIL e che rispecchia l’orientamento generale.
Riguardo materie come l’informatica constato invece che gli studenti di fine anni ’90 e inizio XXI secolo ne sapevano molto di più, ma non perché si studiassero a scuola, il punto è che si interessavano e si informavano autonomamente.
Non metterei dunque corsi durante l’orario scolastico già asfittico per le altre materie, così come non metterei educazione civica, quella dovrebbe essere appresa a casa.
E concordo con Vomiero su una certa categoria di persone che avendo fatto il classico snobbano la matematica dicendo con orgoglio asinino “io non ci ho mai capito niente” ma anche sulla tipologia opposta che si vanta di non interessarsi alla letteratura.
Continua la manovra di nordamerikanizzazione della società italiana.
Adesso tocca alla scuola superiore. All’università con la divisione fra laurea breve e magistrale é toccato qualche anno fa. Qualche decennio fa é toccato ai media, ecc…
Del resto la società della “pagnotta” (dominata dal denaro e nella quale tutti siamo considerati o clienti o venditori…) ormai prevale ed impera.
E la società della “pagnotta” vuole le persone “operative” prima possibile (sia se destinati a diventare venditori sia se destinati a diventare acquirenti).
Carne da cannone… in estrema sintesi. La cultura torni ad essere quello che é sempre stata… una possibilità e non una necessità.
Purtroppo Beppino ha perfettamente ragione, la cultura viene allontanata dal popolino che è buono solo a produrre e finisce col diventare retaggio solo di ambienti elitari, la democrazia sforna ignoranti e poi si lamenta del voto degli ignoranti chiedendo di togliere il suffragio universale mentre prepara l’affermazione delle oligarchie.
Questa la vera rivoluzione, ma in senso astronomico, cioè di ritorno al punto di partenza dove una mnoranza ereditaria governa su una maggioranza ignorante.
Contro questa tendenza ripeto sempre la frase di Gramsci: studiate perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza.
…e poi dicono che bisogna “dare spazio e tempo ai giovani di formarsi una mens”, di dar loro “un’opportunità per allargare gli orizzonti della conoscenza e quindi della propria libertà”! [Il virgolettato riprende un intervento pubblico del Ministro Giannini, sentito dal sottoscritto]. E la miglior soluzione è ridurre il tempo della formazione scolastica, con tutto quello che ne consegue.
Tanti auguri!
Però, quando un esercizio popolare come il voto non va secondo le loro previsioni, ecco l’immancabile articolo da giornalai [il termine è voluto] che decanta la “poca cultura della massa” che ha votato non secondo le proprie aspettative (o direttive?). A seguire, stuoli di prèfiche [che non è un termine sconcio, mi raccomando] a piangere la morte della democrazia quando non va bene, prèfiche sotto forma di giornalai, di opinionisti, di sondaggisti, di “maître a penser”, di attori, di cantanti, …
Io proporrei a questo punto di abrogare totalmente la scuola: che senso ha far perdere tempo a dei bambini, poi ragazzi, giovani e uomini/donne alla finestra della loro esistenza quando hai Wikipedia che risolve ogni dubbio? Così evitiamo anche i traumi da votazione negativa e relativo stress (che si combatte con una pillolina… anche per i bambini). Perché la scuola è ormai intesa come un telequiz, un luogo dove si riversano nozioni, dati: chi risponde giusto vince il premio, chi non risponde non è premiato (almeno, una volta, era così: oggi è solo “redarguito”). Non è quella favoleggiata “opportunità per allargare gli orizzonti della conoscenza e quindi della propria libertà”…
Scusate lo sfogo e sto certamente banalizzando, spero che si capisca. Ormai mi sfuggono contorni ed essenza del legislatore (dovremmo iniziare a chiamarlo imprenditore?).
Capisco lo sfogo e come si sarà capito lo comprendo.
L’abolizione della scuola è una provocazione che si capisce nel momento in cui ci si rende conto che dal sacrosanto “diritto allo studio” si sta passando al delirante “diritto al risultato”.
Quest’ultimo non può che essere conseguito abbassando sempre più le conoscenze richieste e si traduce di fatto nell’abolizione della scuola così come proposto da Liszt.
Sono totalmente d’accordo, gentile Enzo, da collega insegnante. Adesso si annuncia un piano di rieducazione degli insegnanti.
Segnalo questo commento sul sito Roars:
http://www.roars.it/online/un-lucido-attacco-alla-liberta-dinsegnamento-sul-piano-di-formazione-obbligatoria-dei-docenti-italiani/
Questo piano si basa sul principio dei campi di rieducazione della rivoluzione culturale maoista o di quanto previsto da Orwell in 1984. Per sconfiggere colui che non è pienamente convinto della verità dell’Idea occorre spingerlo a rinnegare ciò in cui più crede nel profondo del proprio io.
L’insegnante deve, quindi, abiurare al suo proprio ubi consistam, cancellare il motivo per il quale ha scelto di fare quel lavoro e non un altro, rinunciare all’idea stessa di essere una persona che possiede determinate conoscenze e le trasmette ad altre persone più giovani. Deve solo “facilitare”. Che cosa, non è chiaro, basta che faciliti.
Solo dopo aver abiurato, come chiarisce l’articolo linkato e come ha chiarito tutta una serie di articoli sulla stampa fiancheggiatrice (anzi, spesso, promotrice), potrà continuare a lavorare e a ricevere uno stipendio.
Questo almeno nelle intenzioni del Governo e delle gerarchie ministeriali. Nei fatti staremo a vedere cosa accadrà.
Il parere di un collega è per me ovviamente importante e purtroppo vedo che concordiamo sull’analisi.
Grazie per aver segnalato il documento del MIUR e l’articolo su roars di cui ritengo importante riportare l’inizio:
“Il documento pubblicato dal MIUR il 3 ottobre scorso, intitolato «Piano per la Formazione dei Docenti 2016 2019» è destinato a stravolgere nei suoi fondamenti la professione docente, e rappresenta l’atto conclusivo di un processo di delegittimazione della stessa. Un documento la cui pericolosità sta nell’annullare in via definitiva la libertà d’insegnamento ancora garantita dalla Costituzione, un proposito mascherato nel documento da una serie di argomentazioni retoriche e pseudo scientifiche. Innanzitutto, l’intero bagaglio culturale professionale guadagnato dai docenti in servizio in decenni di carriera viene considerato inservibile rispetto alle presunte nuove finalità dell’istruzione. Per esempio, in merito all’ambito dedicato alla educazione digitale, il documento sostiene che l’utilizzo del mezzo informatico sia più importante degli stessi contenuti disciplinari. Oppure, per quanto riguarda l’area linguistica, corsi vengono intesi quali propedeutici alla metodologia CLIL (Content and Language Integrated Learning), una inconsistente pratica che riduce il sapere disciplinare a puro pretesto per acquisizioni lessicali di dubbia utilità. È previsto un asfissiante sistema di controllo: quanto appreso attraverso i corsi dovrà essere immediatamente attuato (e tale attuazione andrà in qualche modo verificata) nella pratica didattica quotidiana. La carriera dei Dirigenti Scolastici, la loro possibile rimozione o sanzione, passerà dalle loro capacità di imporre al proprio corpo docente tutte le prescrizioni volute dal ministero. Se un Dirigente dovesse scegliere un docente di Storia e Filosofia, o di Matematica e Fisica, sarà tenuto a motivare la sua decisione non a partire dalle competenze disciplinari, bensì dalle certificazioni linguistiche e informatiche, o da altre priorità suggerite nel piano.”
.
Contro un piano così distruttivo la mia idea è la ribellione aperta.
Siamo l’ultimo baluardo, diciamo il nostro NO. Costi quel che costi.
Pronto anch’io a dire NO, personalmente finora ho fatto quel poco che ho potuto diffondendo l’articolo del collega Giovanni Carosotti (che per quanto abbia pubblicato su un sito universitario come Roars, è un docente di Storia e Filosofia al Virgilio di Milano).
Il disastro è cominciato nel lontano 1958 con l’abolizione dell’esame di terza elementare. Si trattava di un esame vero e non di un pro forma e non era impossibile essere bocciati e dover ripetere la terza elementare anche se tutto quello che si chiedeva all’alunno era di saper leggere, scrivere e far di conto.
Al posto dell’esame in terza elementare se ne previde uno in seconda ma accadde che, tra i bambini che si presentavano all’esame, erano molti di più quelli che ancora non erano in grado di leggere e scrivere correttamente rispetto a quando l’esame si faceva un anno dopo. Nacque così un certo buonismo che portava a promuovere anche bambini che non erano preparati per non far perdere loro un anno.
Si tenga infatti presente che ripetere la seconda significava perdere effettivamente un anno mentre così non era ripetendo la terza in quanto in terza si iniziava già a studiare storia e geografia e quindi la differenza fra fare due volte la terza o fare regolarmente la quarta consisteva solo in una certa quantità di nozioni per cui non era infrequente che chi aveva ripetuto la terza potesse ricuperare l’anno perso sostenendo l’esame di quinta alla fine di quella che per lui era la quarta.
Far continuare gli studi come se niente fosse a chi non abbia ancora imparato a leggere e scrivere correttamente non solo danneggia i suoi compagni di scuola che si trovano rallentati nel loro processo di apprendimento ma soprattutto danneggia il bambino stesso che da lì in poi si troverà sempre in difficoltà nello studio e difficilmente potrà ricuperare.
Così arrivarono alle medie alunni impreparati ed allora si cambiarono prima le medie e poi e le superiori ottenendo quelli che (dal nome Misasi che fu il ministro di una delle tante riforme) furono chiamati i “misasini”.
Ormai la situazione è irricuperabile ma queste nuove pensate riusciranno senz’altro a peggiorarla per cui in futuro i “misasini” verrano ricordati come grandi sapienti.
Grazie Andrea per questa ricostruzione, anch’io ricordo bene il termine “misasini”.
La tendenza buonista a promuovere tutti è stata esasperata nel tempo, tanto che già è praticamente impossibile bocciare alle medie dato che farlo esporrebbe a temibili ricorsi.
E così, come dicevo sopra, anziché ottenere l’uguaglianza dell’istruzione si va sempre più verso l’unica uguaglianza possibile, quella dell’ignoranza.
Per recuperare qualcosa si dovrebbe avere il coraggio di aprire scuole alternative non paritarie che se ne freghino di queste follie seguendo programmi e metodi tradizionali e di famiglie che accettino poi di sostenere gli esami da privatisti ogni anno.
Sono d’accordo, ma chi avrà un simile coraggio? non la vedo impossibile, però, anzi forse accadrà.
Signor Andrea, grazie per il suo intervento. Ho molto apprezzato anche questa estensione che non può che essere sua (http://www.andreacavallari.it/Scritti/Scritti_P2.htm).
Sventuratamente l’Italia si muove al contrario di quanto propone. Da una parte l’esame di maturità è diventato una barzelletta e il Moloch ora è rappresentato dai fatidici esami di ammissione all’università (a numero chiuso). Dall’altra l’esame di Terza media è stato fatto lievitare fino a sei prove, ma ora qualcuno propone una sostanziale dieta o la cancellazione totale. Nel complesso la preparazione è scarsa.
Mi pare una perdita di tempo stare a cambiare cosi o colá l´”educazione” che altro non é che istruzione pubblica. Se vogliamo salvare questa nostra societá si deve partire dalla famiglia. Salviamo la famiglia il resto verrá dopo. All´istruzione pubblica chiediamogli di non far danni all´educazione famigliare, quello giá sarebbe abbastanza. I contenuti dell´istruzione non sono importanti, se uno é ben educato impara ad imparare che é l´importante per le societá del futuro. Sono d´accordo con Pennetta insegnare ad usare il linguaggio é fondamentale. Forse basteebbe solo questo.
Per me la selezione dei migliori è un concetto che va applicato agli studi superiori, nella scuola dell’obbligo adotterei il sistema austriaco dove sono state abolite le bocciature. Il sistema ultraselettivo sin da piccoli è tipico dei paesi asiatici dove l’infanzia e l’adolescenza finiscono per incasellare un’intera vita su binari che sono quelli della produttività e dell’utilità al sistema produttivo e che sono lontani dall’umanesimo europeo e occidentale. Si deve fare selezione invece quando ci sono in gioco titoli che danno accesso a carriere qualificate di prestigio e/o di guadagno con annesse responsabilità, La scuola inizialmente deve solo fornire un metodo per poter dare a tutti la possibilità di affrontare gli studi superiori e l’università nel miglior modo possibile premiando i più volonterosi e capaci, ma senza affliggere chi non ce la fa o non è portato per gli studi. L’uomo non è un animale darwiniano 🙂