Gli effetti del buon governo in città (Ambrogio Lorenzetti, 1337-40)
L’Internet delle Cose
di Giorgio Masiero
Opportunità e rischi in un mondo dove le relazioni reali sono sempre più regolate da sistemi informativi interconnessi
Dopo un paio di articoli dedicati alla cosiddetta Intelligenza Artificiale (IA), parliamo di computer science seria, più specificatamente del nuovo standard di tecnologie intercomunicanti detto l’Internet delle Cose (“Internet of Things”, IoT). Perché stavolta è una cosa “seria”? Perché questa tecnologia è fattibile, ha i suoi piani di sviluppo che attirano gli investimenti delle multinazionali e dei fondi, ed è destinata a caratterizzare il sistema industriale impattando la vita sociale nel XXI secolo. Se n’è accorta anche Google, che alla faccia di tanti proclami avveniristici ha ceduto la settimana scorsa alle catene di montaggio di Toyota i robottini costosi e inconcludenti di Boston Dynamics – quelli che dovevano essere i semi della singolarità transumana prossima ventura di Rubin e Kurzweil –, per concentrarsi sull’IoT. La montagna dell’automa androide ha partorito il topolino del software android, un sistema operativo come un altro. I cyborg riguarderanno solo il divertimento di chi si diletta di fantascienza (e le tasche di chi su quel segmento dell’entertainment vive).
Alla produzione di servizi IoT sono dedicate anche imprese italiane, si calcola per un valore di 2 miliardi €, con un trend di crescita annuo a due cifre. Delle più promettenti s’interessano gli investitori, è il loro mestiere. Un paio di esempi. Solair è una piccola azienda emiliana specializzata nella sincronizzazione di oggetti a internet: i dispositivi collegati diventano “intelligenti”, perché automatizzano la supply chain, risparmiando lavoro e riducendo gli sprechi. Metti la filiera d’un Gruppo X che operi nella ristorazione, attraverso la progettazione, produzione e commercializzazione di macchine ed attrezzature professionali per l’erogazione di bevande. L’architettura del servizio di Solair al suo cliente X si comporrebbe di 3 fasi:
- Il dialogo tra le macchinette di X (distribuite nei ristoranti, nei bar, nelle stazioni, ecc.) e la piattaforma Solair. In questo passaggio avviene la raccolta dei dati in tempo reale da ogni punto vendita delle bevande.
- L’elaborazione nel cloud. I dati raccolti sono inviati alla piattaforma che li elabora, li traduce in informazioni (stato della macchina e quantità dei consumi) e genera azioni quali allarmi, notifiche o indicazioni di reportistica, così da migliorare la programmazione della manutenzione, il rifornimento di sostanze alimentari, gli interventi di assistenza, la soluzione da remoto di piccoli problemi.
- L’applicazione finale. Le informazioni relative alle macchine sono rese disponibili, sotto forma di applicazioni web, ai produttori delle sostanze per le bevande, ai distributori, ai manutentori: ogni operatore ha il proprio profilo di accesso e vede informazioni distinte, sul proprio cellulare, tablet o computer.
In questo modo il Gruppo X può ottimizzare la manutenzione delle sue macchine, risparmiare tempo sui rifornimenti, evitare interruzioni dell’erogazione; quindi ridurre i costi, migliorare i guadagni, dare un servizio migliore al rivenditore, al centro assistenza, ai clienti finali.
Esempio d’architettura di applicazione IoT per una filiera della ristorazione
La reputazione che Solair si è guadagnata in 5 anni di vita, attraverso i servizi offerti ai settori industriali più disparati, ha attirato l’interesse di un colosso dell’Information Technology: nelle settimane scorse Azure, la divisione IoT di Microsoft, l’ha acquistata per un valore che è rimasto riservato. Pochi giorni prima, Intel aveva acquistato la pisana Yogitech, specializzata in sicurezza nell’automotive. Altri M&A sono in gestazione.
Forse qualcuno dei miei lettori appartiene a quell’87% di gente che non ha mai udito il termine IoT. Vediamo allora brevemente come l’evoluzione dell’industria vi è arrivata. La (prima) rivoluzione industriale, come si sa, è partita 250 anni fa in Inghilterra. Di qui si è diffusa nell’Europa continentale, negli Usa e poi in tutto il mondo, con macchine e fabbriche a moltiplicare di colpo le millenarie economie agricole, artigiane e mercantili di molti fattori di scala e ad inondare i mercati di nuovi prodotti. La seconda rivoluzione industriale ha scandito gli ultimi 60 anni e si è caratterizzata per la potenza di elaborazione dell’informazione e per la nascita di reti di comunicazione diffusa. L’innovazione è cominciata nel Dopoguerra in Occidente con i grandi mainframe e il software, cui si sono presto aggiunti pacchetti informativi per la comunicazione chiusa tra piccole reti governative o bancarie. Negli anni ‘70 è comparso il www, una rete aperta e flessibile in linguaggi e protocolli di comunicazione, che consentiva lo scambio d’informazioni tra macchine eterogenee di tutto il mondo. La combinazione di potenza di processo, velocità di trasmissione e grandi volumi di relazioni ha portato infine alla nascita di piattaforme globali per lo scambio di transazioni commerciali/interazioni sociali, come eBay/Facebook, con decine/centinaia di milioni di utenti e decine di miliardi $ di transazioni/ centinaia di miliardi d’interazioni.
Queste due rivoluzioni industriali (ed economico-sociali) sono nate con architetture opposte in termini di gestione della conoscenza e di processo della decisione, perché in internet il calcolo e lo scambio dei dati sono basati su strutture e reti orizzontali d’intelligenza distribuita, che postulano integrazione e flessibilità. Rispetto al modello (fordiano) lineare e chiuso di ricerca e sviluppo della prima rivoluzione industriale matura, ristretto dalla geografia e a centralità decisionale, si sono sviluppati con internet modelli decentrati e non lineari.
La nuova era d’innovazione che si apre nel XXI secolo con l’Internet delle Cose consiste nella convergenza del sistema industriale globale con la potenza del calcolo sulla “nuvola”. La convergenza è resa possibile dalla connettività veloce e a buon mercato di internet e dalla collocazione di sensori distribuiti ovunque, sia nelle macchine che sul corpo umano (e persino dentro il corpo umano, in particolari servizi sanitari assistiti da remoto). Analitica avanzata e sistemi automatici di rilevamento in tempo reale dello stato di macchine e persone nel loro ambiente – anche in movimento: al mondo si contano attualmente 4 milioni di “grandi rotori” tra aerei, navi, ferrovie, ecc., con miliardi di pacchi merci e di persone a bordo – diventano fruibili (e potenzialmente invadibili) da tutto e da tutti.
L’ATM, la postazione dei bancomat, è stata forse il primo esempio (1974) di IoT. Nel 2008 c’erano già più oggetti connessi ad internet che persone. Nel 2015 il mercato dei dispositivi portabili è cresciuto del 223% rispetto all’anno precedente, con 4,4 milioni di braccialetti per la fitness, 3,6 milioni di Apple Watch, ecc. Quest’anno avremo 4,9 miliardi di oggetti connessi. Secondo le stime degli analisti finanziari, l’IoT aggiungerà tra i 10.000 e i 15.000 miliardi $ di prodotto lordo globale entro 20 anni.
La convergenza sulla nuvola promette di apportare maggiore efficienza ai settori industriali più diversi, dai trasporti all’energia alla chimica, a cascata fino alla piccola impresa o alla pubblica amministrazione, per chiudersi su servizi alla persona sempre più performanti. L’IoT fonde così insieme gli asset delle due rivoluzioni produttive precedenti: la miriade di macchine, facility, flotte e reti interne dell’industria, con i più recenti (e potenti) sistemi di calcolo e di comunicazione nel cloud. L’essenza dell’IoT si esprime
- in macchine “intelligenti” perché reciprocamente connesse tramite sensori, controlli ed applicazioni in reti mondiali;
- nell’analitica avanzata, che combina l’analitica basata sulla fisica (e non più solo sulla geometria) con algoritmi predittivi e l’automazione;
- nella connessione costante delle persone, che siano al lavoro o in ufficio, negli ospedali o in movimento, così da supportare la progettazione, le operation, la manutenzione o la cura con maggiore efficienza, qualità e sicurezza.
Tra gli oggetti del segmento consumer (B2C), l’IoT comprende cellulari, macchinette da caffè, lavatrici, cuffie, lampade, dispositivi portabili, automobili, sonde sanitarie, ecc. Nel mercato industriale (B2B), ogni tipo di macchina fin dalle sue componenti, come la turbina di un aereo o la trivella di una piattaforma petrolifera, fa potenzialmente parte del nuovo sistema tecnologico: ogni dispositivo dotato d’un interruttore è un possibile oggetto IoT. Insomma l’Internet delle Cose è una rete gigante di cose connesse, dove “cosa” sta anche per persona; anzi si può definire la rete materiale di tutte le relazioni riducibili alla fisica esistenti tra persona e persona, persona e cosa, cosa e cosa.
Nella figura sottostante sono rappresentati i servizi pubblici IoT di una città intelligente. Questo sottoinsieme dell’universo IoT permea la pianificazione urbana, l’ecologia, l’energia, i trasporti, la salute, il tempo libero, ecc., ecc., allo scopo dichiarato di migliorare la qualità della vita. I sistemi basati sui sensori generano masse di dati per assistere il cittadino a trovare un posto libero dove parcheggiare l’auto, aiutare il Comune a risparmiare acqua nei parchi, monitorare i trasporti, gli ingorghi o i livelli d’inquinamento, ecc.
L’IoT nei servizi al cittadino
L’IoT apre certamente le porte a molte opportunità, ma anche a molte sfide. La sicurezza e la privacy sono in testa ai rischi, abbiamo visto in un passato articolo. Con miliardi di oggetti interconnessi, come possiamo essere certi che l’informazione che ci riguarda sia al sicuro? qualcuno entrerà nel sensore della nostra caffettiera – quella che connessa alla sveglia ci prepara il caffè alla mattina – e da quella “porta” accederà a tutta la nostra rete?
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25 commenti
Oggetti non interconnessi vuol dire tanto “spreco” di tempo-vita perché non ottimizzato. Oggetti interconnessi vuol dire ottimizzazione del tempo ma anche riduzione degli spazi di aleatorietà, riduzione degli spazi di “sosta”, forse anche riduzione degli spazi per l’errore che tutto sommato sono “anche” parte della nostra vita. In buona sostanza nell’ambiente degli oggetti interconnessi l’uomo potrà contare sempre meno sul personale alibi, sulla furbizia, sulla pigrizia, “forse” anche sulla bontà, “ma” anche sulla generosità (propria ed altrui), ecc. ecc. Se “prima” ci si poteva anche “imboscare”, dopo non sarà più così in quanto il rapporto causa-effetto nelle dinamiche della nostra vita sarà meno “aggirabile” (anche in buona fede). Quindi sempre più “razionali” e sempre meno “umorali”, sempre più efficienti ma, forse, con sempre meno umanità. Ben arrivata nuova prospettiva e nuovo ambiente di vita; un “ben arrivato” al nuovo percorso necessario ed ineluttabile, da accettare obbligatoriamente a braccia aperte e col massimo di accondiscendenza. E forse la cosa che più dovrebbe far pensare é proprio il fatto che non si può non accettare, o meglio, non si deve non accettare,
Sebbene affascinato dalle potenzialità emerse in questo articolo di Masiero (che nelle realtà in cui si investe nel futuro è di casa) le riflessioni di Beppino, ma anche i dubbi espressi alla fine dallo stesso Masiero, le sento anche mie.
Forse appartengo ad un tempo superato o forse è una sana e giustificata prudenza.
Dall’invenzione della clava o dalla scoperta del fuoco, non conosco, cari amici, uno strumento (“techné”) che non si presti ad usi moralmente opposti. Non ci sono tecnologie buone e tecnologie cattive, ma ogni tecnologia è un potenziamento dell’efficacia delle azioni buone o cattive di cui l’uomo porta l’esclusiva responsabilità.
Inoltre, lo sviluppo tecnologico è irrefrenabile, perché appartiene alla specificità umana, nella cui lunga storia non esiste alcun progresso se non quello tecno-scientifico. Ciò sanno bene tutte le chiese (e nel suo piccolo anche CS, come pure tutte le istituzioni più avvertite sui lati oscuri del nuovo), che adottano immediatamente ogni nuova tecnologia per diffondere la loro missione.
Se un dovere abbiamo come cristiani nella tecno-scienza, io credo non sia di opporsi all’innovazione tecnologica, ma di educare sé e il prossimo al suo buon uso e ai pericoli del suo abuso.
L’articolo del prof. Masiero è molto interessante, anche perchè invita a riflettere per tempo su una tecnologia che è nella fase di “sviluppo esponenziale”: quella cosa che poi termina in saturazione, come la logistica. Condivisibile, ma commentabile, anche la sua postilla.
1) “Non ci sono tecnologie buone e tecnologie cattive,”
Assoluta verità, anche se tautologica, impossibile attribuire colpe e meriti ad un oggetto.
2) “ogni tecnologia è un potenziamento dell’efficacia delle azioni buone o cattive di cui l’uomo porta l’esclusiva responsabilità.”
Come sopra, infatti non si mette in prigione la pistola, ma l’assassino. Tuttavia il boia è immune da censura, visto che lavora per lo Stato, a meno che lo Stato perda la guerra.
3) “lo sviluppo tecnologico è irrefrenabile, perché appartiene alla specificità umana”
Come sopra. L’irrefrenabilità dello sviluppo umano è storicamente evidente. Nessun altro essere ha avuto un accumulo di esperienza e di comprensione dell’esperienza (i.e. Scienza) paragonabile.
La conclusione però è decisamente induttiva. E non si tratta di induzione matematica. Ci tengo ad essere diverso da una cornacchia ma noto che sa raccogliere una noce, far quota dal campo su strada asfaltata, lasciarla cadere in modo che si rompa, papparsi il frutto. Non può essere istinto atavico sviluppato quando le strade non esistevano. Ci tengo ad essere diverso da una scimmia, ma è provato che lo stesso “istinto materno” è compromesso in scimmie che non sono state accudite dalla madre. C’è apprendimento, sia “tecnico” che affettivo.
4) “nella (…) lunga storia non esiste alcun progresso se non quello tecno-scientifico.”
Piacevole sorpresa per il vile meccanico: Meriti suoi riconosciuti. Ma sorpresa! Il pensiero filosofico non ha rappresentato alcun progresso?
5) “Se un dovere abbiamo come cristiani nella tecno-scienza, io credo non sia di opporsi all’innovazione tecnologica, ma di educare sé e il prossimo…”
Anche come uomini. Se essere cristiani rende il dovere più vincolante, ben venga. Non essere cristiani o non essere altrimenti credenti non esime assolutamente da questo dovere.
6) Tutto lascia intendere una accelerazione che è avvertita da tutti. Mezzi più potenti permettono e inducono a generare mezzi più potenti. La velocità maggiore riduce il tempo a disposizione per reagire e correggere il tiro, ammesso che si voglia e poi si sappia farlo. Questi sono fattori di instabilità e di ingovernabilità. Per questo è preoccupante che la velocità di apprendimento non stia al passo della velocità di innovazione.
Viterbi, la cui matematica permette il funzionamento dei telefoni cellulari, disse: se lo avessi saputo… Eppure l’uso cretino non è colpa di Viterbi
Caro Luigi, grazie del tuo commento, sempre interessante. Provo ad interloquire sui punti di leggera differenziazione.
1,2) Non ci sono tecnologie buone e tecnologie cattive, ho scritto. Non la considero una “tautologia”, perché non mi riferivo al bene e male morali, ma a quelli fisici. Il terremoto di Pompei e di Lisbona sono stati mali per gli uomini, anche se non imputabili moralmente a nessuno. Esistono cose buone e cose cattive per gli uomini, ma tra queste non rientra nessuna tecnologia.
3) Lo sviluppo tecnologico è irrefrenabile, perché appartiene alla specificità umana, ho scritto. Ma la cosa non è così “evidente” se è vero che dagli iconoclasti ai luddisti a molti movimenti attuali (sindacali, politici e religiosi) molti vi resistono (inutilmente).
4) Nella storia umana non esiste alcun progresso se non quello tecno-scientifico, ho scritto e ti sei sorpreso che non abbia assegnato alla filosofia nessun progresso. È vero, non assegno alcun progresso al pensiero filosofico: esso si pone da sempre, da quando l’uomo è uomo, le stesse domande fondamentali dandosi sempre lo stesso menu di risposte diverse. Per te non è così? Hai scoperto un avanzamento in filosofia dai tempi di Mosé, Buddha o Socrate?
5) Se un dovere abbiamo come cristiani nella tecno-scienza, io credo non sia di opporsi all’innovazione tecnologica, ma di educare sé e il prossimo…, ho scritto. Hai ragione: è un dovere di tutti gli uomini. Ho scritto “cristiani” perché nel contesto rispondevo alle titubanze di due cristiani.
6) Ti do ragione al 100%.
Caro Giorgio, le tue frasi sono certamente significative. Tuttavia hanno una parte di vero per forza interna, quindi di realmente tautologico, senza virgolette. Non per questo meno apprezzabili. Così come era (in parte) tautologica la frase di Khun: “una teoria scompare quando muore senza discepoli l’ultimo maestro”. Avrei dovuto premettere una rozza sintesi della tesi centrale di Khun: la vecchia teoria non è spazzata via dalla nuova teoria perché più precisa, più economica, più elegante, ma per mutati rapporti di forza. Ovvero proprio quando “muore senza discepoli l’ultimo maestro”.
Mi è davvero difficile scoprire un avanzamento sistematico in filosofia. Ma la sorpresa è che questo lo affermi proprio tu, che altrove hai dichiarato di aver imparato qualche cosa da ogni filosofo.
Sulla intelligenza distribuita (che io chiamerei capacità di calcolo distribuita) ci sarebbe molto da dire. E credo che sia proprio materia da approfondimento alla tua maniera.
Forse, Luigi, ci dovremmo mettere d’accordo sul significato di “realmente tautologico”, perché per esempio secondo alcuni la matematica è tutta e sola tautologia, ma ciò non impedisce che si debba studiare duramente per apprenderla e che ci siano molte cose di essa che non sappiamo (e che forse non sapremo mai).
Quanto alla filosofia, sono contento di apprendere che anche tu non vi scorgi alcun “avanzamento sistematico”, come avviene invece nelle tecno-scienze. Non vedo una contraddizione tra questa affermazione e quella di aver appreso qualcosa da ogni filosofo. Anzi, penso che valga per tutti gli uomini che amano leggere i grandi pensatori, i quali sono grandi proprio perché mettono in luce – magari parzialmente, ma con lucida profondità – qualcosa che appartiene all’inquietudine umana di esistere.
@Prof Masiero e @Prof Pennetta vorrei chiederVi cosa pensate circa lo sviluppo delle cosiddette “Brain machine technology”. Durante l’ultima lezione all’università sullo sviluppo dei nuovi media il nostro professore ha parlato con toni fin troppo sensazionalistici di queste nuove tecnologie che a parer suo sono ormai in grado di “leggere” il nostro pensiero. Non posso non dire di aver storto il naso e documentandomi sullo stato dei lavori di Jack Gallant e Miguel Nicolelis ho capito che sì siamo in grado di interpretare i segnali elettrici emessi ma questi vengono sempre analizzati da un punto di vista puramente statistico e non rappresentano il “pensiero”, almeno questo è quello che credo io. Il pensiero astratto di un individuo, quel colloquio interiore che ognuno di noi ha, dubito fortemente che possa essere imbrigliato in un’equazione ma forse la mia è solo ignoranza della materia.
Tutte balle, William. Le tecniche di neuroimaging sono altra cosa dalla “lettura del pensiero” (di ciarlatanesca memoria) e ne ho parlato qui: http://www.enzopennetta.it/2016/04/la-penultima-illusione-del-nichilismo/
@Professor Masiero io sono d’accordo con Lei ma mi trovo in difficoltà quando mi vengono opposti determinati articoli scientifici: http://edition.cnn.com/2014/04/12/health/brain-mind-reading/ o http://www.dailymail.co.uk/sciencetech/article-2814896/The-mindreading-machine-listen-voices-head-let-paralysed-speak-again.html . Non essendo uno scienziato ma un normalissimo studente universitario cerco di comprendere e di usare il mio senso critico ma il professore, che ritengo essere un forte sostenitore del transumanesimo, mi ha bollato di fronte tutta l’aula affermando che ormai possiamo leggere i pensieri con una EEG, Pet o fMri. In cuor mio anche all’esame di questa settimana so che non potrò non mostrarmi critico di fronte a queste teorie ecco perché Vi scrivo qui, per avere un confronto intellettualmente onesto su questi temi rispetto a quello che ho trovato col professore in questione.
@ William:
da studente a studente, ti posso dire che gli articoli sulle ricerche scientifiche dicono 100 ma il loro contenuto, se ti va bene, è 50 se non meno. Se proprio vuoi trovare un modo per replicare al tuo ottimista professore, usa le parole stesse dello scettico citato nel primo link:
“But Dr. Josef Parvizi, a Stanford University neurologist who also studies the relationship between brain and mind, is much more skeptical.”In order to really read thoughts with methods that are noninvasive, we have a long way to go,” he said. “I think it is unwise and simply false to give the general public the impression that we are about to be able to read minds.””
In pratica ciò che una persona comune può pensare come “lettura del pensiero” NON è quello che è stato realizzato, in nessuna ricerca.
Nella prima, per esempio, hanno ricostruito una debole corrispondenza tra aree del cervello attivate in un soggetto che guarda un volto e il tipo di volto, ma già ad un primo sguardo l’immagine ottenuta è brutta, approssimativa e riconoscibile solo da chi conosce già il volto relativo.
Anche nella seconda ricerca sono solo riusciti a trovare in una data persona una corrispondenza tra una data parola e una certa area cerebrale, ma il cervello è tutt’altro che “biunivoco” (lessi una volta che stimolando un solo neurone in un paziente gli si scatenava il ricordo di un’intera festa!) per cui la strada, se non impossibile, è ancora MOLTO lunga.
Non si tratta di essere pessimisti o di contraddire il professore, ma di riportare nella sua interezza il contenuto di un articolo è non solo gli slogan che lo presentano, senza sentirsi degli sprovveduti isolati nel fare gli scettici..
Povero prof! E poveri studenti in mano a tali cialtroni…
Non so che dirLe, William, se non che
1) “la maggioranza degli articoli pubblicati nelle riviste scientifiche sono falsi”, con particolare riferimento alla medicina e alle neuroscienze (fonte NIH, il primo centro di ricerca e di finanziamento della ricerca medica al mondo),
2) non conosco nessun fondo che investa un dollaro nelle speculazioni che entusiasmano il Suo professore.
Se Lei, William, è interessato all’argomento, non ha che da studiarlo direttamente.
I miei due centesimi: quegli articoli parlano della lettura di segnali elettrici (prodotti dall’attività cerebrale) convertiti in immagini o parole, dove la “conversione” avviene giocoforza sotto la direzione della mano umana, dato che una macchina (totalmente priva di intenzionalità) dalla lettura di tali segnali non ne caverebbe alcunché se non ci fosse qualcuno che, direttamente o indirettamente, la istruisse ad associare il pattern X all’oggetto Y.
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Sicuramente un’impresa ardua, la cui riuscita andrebbe a maggior gloria della neuroscienza, ma da qui a parlare di “lettura del pensiero” ce ne corre anche perché – da quel che capisco – si sta dando per assodata (e non lo è) l’identità totale tra pensiero e l’attività elettrica dell’encefalo, ma a questo punto ci si potrebbe chiedere: il pensiero nasce nel cervello o dal cervello? Qualunque sia la risposta però, bisognerà far notare che ci si è spostati dal campo delle neuroscienze a quello della filosofia della mente.
Perfetto, Vianegativa. Purtroppo dubito che il docente di William abbia la preparazione filosofica per capirlo.
****nuove tecnologie … in grado di “leggere” il nostro pensiero****
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Uso spesso il software DRAGON NATURALLY SPEAKING… Non siamo ancora ad un livello decente ma, in buona sostanza, il software permette di convertire la “parola” (cioé quello che si “dice” al microfono) in “scritto” (in termini di sequenza digitale di bits…) e trasferire su Winword o programmi simili la parte scritta (con relativa punteggiatura, compreso punti esclamativi, punti di domanda, ecc…). Inoltre lo “scritto” acquisito dal computer può avere anche una conseguente azione: ad es. dicendo al microfono “COPIA IL FILE XYZ E TRASFERISCILO NELLA PENNETTA IN D:” … il computer lo fa. In futuro questo processo sarà sempre più perfezionato quanto maggiore sarà la potenza di calcolo dei microprocessori e quanto maggiore sarà l’impratichimento del software alle caratteristiche dell’utente.
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Poiché il “pensare”, dal punto di vista squisitamente sperimentale, corrispondente ad una attività elettrica di “neuroni e altro” che compongono il cervello, non penso sia impossibile correlare i parametri che qualificano la stessa attività elettrofisica ad una lettera, o ad una parola, o ad concetto su cui il soggetto si sta “cimentando” nella propria testa. Come nel caso di DRAGON, anche qui il problema é la potenza di calcolo ma direi, soprattutto, la quantità enorme di “misure” da fare nell’encefalo in pochissimo tempo per aver il ritorno digitale esatto (e quindi la frase, il concetto, l’immagine, ecc…). In questo senso può essere vero che la “macchina” legge il pensiero; si tratta di capire quali sono i limiti qualitativi e quantitativi di questo processo. Può darsi ad esempio che il dispendio di risorse profuse per avere il “ritorno digitale” decente di 10 secondi di pensiero sia talmente elevato da rendere anche in futuro improponibile questo processo. Tenga conto che, in virgola mobile, i numeri “gestibili” da un processore vanno da 10^-250 a 10^250 (sono valori a caso … ma l’ordine di grandezza é questo…) quindi ci sono a priori limiti “fisici” alla decodifica digitale delle informazioni tali forse da compromettere l’acquisizione “perfetta” del pensiero. Ed in ogni caso, ammesso che la lettura del pensiero possa arrivare a livelli decenti di comprensione e risoluzione, ciò nulla ha a che fare con quei miliardi di neuroni (e soprattutto su come lavorano insieme) su cui la scienza moderna scarica con processo fisicamente basato i “fenomeni” della autocoscienza, della consapevolezza, del senso dell’arte, e così via….
Il fatto e’ che ognuno ha un cervello diverso dall’altro, per cui non e’ detto che un valore di 0.0928364237672836728723482364 mV a 27.3mm della corteccia cerebrale prefrontale, a 14.7898658867mm a destra dall’asse mediano corrisponda per tutti gli umani alla stessa cosa.
Quindi la “lettura del pensiero” e’ semplicemente impossibile.
****Il fatto e’ che ognuno ha un cervello diverso dall’altro, per cui non e’ detto che un valore di 0.0928364237672836728723482364 mV a 27.3mm della corteccia cerebrale prefrontale, a 14.7898658867mm a destra dall’asse mediano corrisponda per tutti gli umani alla stessa cosa. Quindi la “lettura del pensiero” e’ semplicemente impossibile.****
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Può darsi…. Magari funziona a
0.092836423767283672872348236499999999356564545644565756754 mV a 27.356745645785688 mm … e a 14.78986588677575899367567567456749803476799 mm… 🙂
Scherzi a parte… é plausibile pensare che la faccenda possa essere inquadrata entro un problema di “risoluzione” nelle variabili misurabili e un problema di “quantità” di dati da ottenere (e soprattutto da elaborare).
Problemi “tecnologici” semplicemente insuperabili allo stato delle cose; e anche se un bel
giorno tutto questo venisse acquisito, ripeto, penso che difficilmente la tecnoscienza (come particolarmente si usa indicare qui) riuscirebbe a dare esauriente e stabile spiegazione alla autocoscienza percepita da ognuno di noi e soprattutto alla corrispondente consapevolezza (anche solo per il fatto che non può che ineluttabilmente esistere il complemento a 1 della scienza, cioé tutta quella serie di campi dove la scienza non può/potrà mai arrivare).
E’ proprio il contrario.
Tu puoi avere tutta la precisione e la risoluzione che vuoi, ma essendo per natura ogni cervello diverso (forse pure quello dei gemelli omozigoti, in quanto faranno necessariamente esperienze diverse) non si potra’ attribuire uno stesso livello di potenziale ad una stessa “idea”, qualsiasi definizione si voglia attribuire a questa parola.
E’ come pretendere che due radio sintonizzate in modo diverso ricevano lo stesso segnale…
****Tu puoi avere tutta la precisione e la risoluzione che vuoi, ma essendo per natura ogni cervello diverso (forse pure quello dei gemelli omozigoti, in quanto faranno necessariamente esperienze diverse) non si potra’ attribuire uno stesso livello di potenziale ad una stessa “idea”, qualsiasi definizione si voglia attribuire a questa parola****
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Un cervello umano non può assumere stati elettrofisici in numero infinito. Può essere vero che a parità di “stato” e nel medesimo istante due persone diverse “pensano” cose non del tutto uguali (per il discorso dell’esperienza precedente come dice lei) … ma non é questo il punto; é assodato che c’é qualche legame, più o meno lineare, fra “stato” elettrobiochimico e oggetto dell’attività cerebrale. Ripeto, secondo me é un banale problema di “risoluzione” numerica di variabili, della loro “misurabilità” con sufficiente precisione, del numero “elevato” di variabili da misurare e da elaborare, del tempo necessario ad eseguire la misura, ecc. La complessità del cervello é però talmente enorme che allo stato attuale (e probabilmente anche per il futuro…) é impossibile che si possano ottenere “corrispondenze” che non siano semplicemente banali o grossolane.
E perche’ mai il potenziale elettrico in un qualunque punto del cervello non potrebbe assumere un qualunque valore reale?
Ma la questione e’ un’altra, come ho gia’ detto prima.
Ammettiamo pure (del pari al problema del “teletrasporto”) che possa esistere una macchina che riesce a memorizzare in modo completo lo stato quantico di tutti gli atomi che compongono il cervello (e quindi mettiamo da parte anche il Principio di Indeterminazione).
Anche se tu stesso ti facessi un “backup” del tuo cervello e facessi il “restore” successivamente, non sarebbe possibile avere gli stessi pensieri del momento del “backup” perche’ il cervello nel frattempo e’ cambiato, quindi figuriamoci con persone diverse come potrebbe essere interpretato il potenziale elettrico in un punto particolare del cervello.
Ritengo anch’io che il fatto di sapere in quale regione cerebrale avviene un’attivazione neuronale sta al pensiero come il sapere quale parte della mia TV sia attivata e quanto lo sia sta al sapere che programma sto guardando.
Quando il prof ti metterà degli elettrodi e ti saprà dire cosa stavi pensando allora ne riparleremo.
Siete fuori strada clamorosamente. Quelli vogliono vendervi una bufala ma la lettura del pensiero è una tragica realtà. Da secoli. Chiunque abbia avuto a che fare con una donna degna del suo nome sa che vi legge nel pensiero con specifico acume per le cose che vorreste tenere per voi. Non è neppure una specialità umana. E’ una questione di genere (mi pare che tra voi usi dire così). Ho avuto una cagnolina di razza rigorosamente mista ed orgogliosamente bastarda che sapeva leggermi nel pensiero.
Esiste anche il problema inverso.
Data una donna, capire il suo pensiero anche se lei te lo “spiega” e’ una funzione indedicibile! 😀
Mi chiedo quanti, tra coloro che parlano del cervello come di un circuito elettrico RCL, cioè da elettrologia dell’800, sanno che è invece un oggetto quantistico, da solo più complesso di tutto l’universo.
E mi rispondo: NESSUNO.