Perché l’economia torni al servizio dell’uomo occorre ripristinare un quadro di riferimento etico e di richiamo alla vocazione personale nell’educazione dei giovani
Sono fortunato, lo ammetto: ogni volta che voglio scappare da questo mondo caotico e rumoroso posso in meno di mezz’ora andare ad abitare in uno opposto, ordinato e silenzioso. Bello come solo la natura immacolata insieme all’arte più sublime e varia di mille anni possono offrire. Un’oasi ed un museo a terra, mare e cielo aperti, distribuiti in un arcipelago di 118 isolette divise da 177 rii e collegate da 354 ponti. Si chiama Venezia e appena mi affaccio alla sua laguna e monto in barca, come in un film di fantascienza – solo che qui è realtà – faccio un salto all’indietro nel tempo di tanti anni quanti esattamente voglio: vado in un’abbazia benedettina del Medio Evo, oppure in un palazzo nobiliare del Rinascimento, o in una bottega artigiana del Barocco, nei campielli tra contadini, pescatori e mercanti…, come un gran signore della Serenissima.
A me veneto, allora giovane e distratto, fu un gentleman vittoriano ad insegnare la fragile preziosità di Venezia e l’inestimabilità dei suoi tesori, raccolti in uno scrigno sospeso per incanto sull’acqua. Mi accadde molti anni fa leggendo “Le pietre di Venezia” di John Ruskin (1819-1900), forse il più grande critico d’arte di tutti i tempi, certamente quegli che più amò l’Italia visitandola in 16 Grand Tour e dedicando alla sola Venezia mezzo milione di parole accorate. Con gli anni, quelle “pietre” ho imparato a conoscere ad una ad una, insieme a mia moglie guida d’arte veneziana che mi ha insegnato anche come evitare le orde Unne dei turisti.
In arte e in architettura, “ogni cosiddetto restauro è peggiore della distruzione” operata dal tempo, dall’incuria e dal vandalismo. In questa frase si racchiude il lascito eterno di Ruskin, per un’intuizione a lui provocatagli dall’osservazione empatica della decadente, ma proprio per ciò sempre viva, perla adriatica. Restaurare, nel significato d’integrare tutte le parti mancanti forgiando un nuovo manufatto per averne un clone sempre identico all’originale (immaginato), è decontestualizzare la memoria dei monumenti in un’operazione di falsificazione. Va conservato l’esistente, attraverso quei minimi interventi di manutenzione e di puntellamento utili a prolungare la vita dell’opera, senza tuttavia negarle il diritto d’invecchiare e anche di morire in maniera naturale. La severità di Ruskin sarà appena mitigata alla sua prima applicazione a fine ‘800 proprio nella Basilica di San Marco di Venezia, con un restauro conservativo rispettoso dell’opera e delle volontà dei suoi autori e committenti originali. Oggi la concezione di Ruskin è un patrimonio comune, un’ovvietà, ma così non è stato fino a pochi anni fa, né lo fu durante tutta la storia dell’arte dove la successione degli stili avvenne spesso, soprattutto in architettura, per successivi restauri più o meno invasivi, modificazioni e aggiornamenti che hanno per la massima parte distrutto infine anche la memoria dei manufatti precedenti.
Ma non è d’arte che oggi voglio parlare, anche se ancora di Ruskin. In questi giorni mi è capitato tra le mani un altro suo libro, che affronta un argomento diverso: l’etica del lavoro nel mondo industrializzato. Il libro è “Unto this last” (“Fino all’ultimo”), è del 1862 ed è una polemica feroce alla meccanizzazione dell’economia, allora propagantesi dall’Inghilterra a tutto il continente europeo, nonché all’ideologia liberista che ne accompagna necessariamente lo sviluppo tecnologico e che portò infine Ruskin ad abbracciare gli ideali di un socialismo utopistico in chiave cristiana.
Già nelle “Pietre di Venezia” del 1851 Ruskin aveva contrapposto la coralità della produzione artistica e architettonica romanica, gotica e barocca, dove gli operai e persino i manovali e i garzoni delle botteghe e dei cantieri avevano margini di creatività, alla disumanizzazione del lavoro nelle fabbriche dove, a cominciare dalla separazione del lavoro manuale da quello intellettuale, l’operaio (ma anche il tecnico e l’impiegato) sono ridotti a strumenti animati o peggio ancora a componenti meccaniche della catena produttivo-commerciale. La scissione delle fasi lavorative, dividendo l’ideazione dal progetto e dalla produzione esecutiva e quest’ultima in operazioni unitarie incomprensibili al lavoratore, produce in parallelo il declino dei mestieri artigiani, così traducendosi infine anche nella morte dell’arte. Mai previsione fu tanto azzeccata, possiamo dire, di fronte allo stato della cosiddetta arte moderna. In “Fino all’ultimo” Ruskin mostra che la scissione nel lavoro provocata dall’industrializzazione è destinata anche ad emarginare l’etica dalle professioni. Dopo l’attacco al bello, ora tocca al giusto in questa discesa automatizzata verso l’inferno…
A cosa serve la struttura economica? quali sono i fini di agricoltura, industria, commercio ai nostri giorni e di tutta la vasta gamma delle professioni nei servizi? Oggi, la risposta vera e immediata a tale domanda è una sola: lo scopo di ogni azienda è di procurare soldi a chi vi lavora dentro. Se questa risposta ti può sembrare cinica, lettore, non hai da far altro che chiedere in giro, sempre che tu non abbia il timore di parere stupido o contro corrente. Questa opinione così largamente condivisa non è che uno degli aspetti della diseducazione e dell’immoralità che pervadono la società contemporanea nel suo proporre come scopo supremo della vita il successo, inteso in termini di fama, posizione sociale e quantità di mezzi materiali posseduti.
Il business è per il business, perché l’operare economico vale per se stesso, non è immaginato, progettato, ingegnerizzato e realizzato ad altro fine che di conseguire un profitto e solo in base a questo è giudicato nell’esattezza matematica di un numero, il ROI (il ritorno sull’investimento). Si deve però subito aggiungere che questa concezione dell’economia – del lavoro e delle professioni – è solo di recente attecchimento e, anche oggi che si è così largamente estesa, non è condivisa in maniera unanime da tutti. Anzi, assistiamo al paradosso che nessuna industria come pure nessun professionista pubblicizzano i loro prodotti e servizi comunicando ai quattro venti che la propria missione è di arricchire sé e coloro che vi sono direttamente coinvolti. Al contrario, tutti ci dicono di essere al nostro servizio prima del loro, quando non addirittura con il loro sacrificio e per il loro discapito! Hai mai incontrato, lettore, un consulente, un medico, un idraulico che ti abbia detto di essere lì per il suo interesse? Eppure, molti professionisti e perfino interi settori economici, soprattutto nella finanza e nel trading ma anche nell’alimentare e nella farmaceutica (per fare due nomi a caso), sono dominati dal proprio interesse, come ci rivelano quotidianamente le cronache dei giornali impegnate a riferire di fallimenti morali e di processi per truffa nei tribunali. Il megafono quotidiano dei media proclama il verbo relativista: “Devi trovare il senso della vita in te stesso. Lavora sul tuo Io, sfrutta fino in fondo il tuo potenziale, crea da te i tuoi fini, la tua morale. Definisci tu stesso quello che per te ha senso e decidi i principi secondo i quali vuoi vivere”. E se nessuno mai riconoscerebbe pubblicamente essere questi in fondo l’ideale supremo della sua vita e lo scopo finale del suo lavoro, ti sarà certo capitato d’incontrare qualcuno che non ha disdegnato di confidartelo tra un bicchiere e l’altro nell’happy hour.
Eppure mai come oggi, proprio in questa società, il ruolo del professionista – educatore, medico, ricercatore, consulente in ogni tipo di servizio, ecc. – richiederebbe in primis un ruolo morale, piuttosto che quello di un tecnico esperto che si offre senza regole nel mercato della concorrenza sfrenata.
Proprio questa deriva etica, dopo quella artistica, predisse Ruskin in “Unto this last”. La tradizione antica delle professioni in quanto svolgenti ruoli etici nella società era ovvia prima dell’avvento della società di massa. In questa invece, resa liquida nell’anonimato urbano, che nella Londra vittoriana e dickensiana faceva la sua prima apparizione insieme alle nuove smaglianti professioni nel Miglio Quadrato della City, il singolo professionista sparisce come persona e vive e lavora insieme agli altri, un’ape anonima tra le altre api. Prima, la formazione speciale, la posizione e il rispetto socialmente riconosciuti erano stati la risposta appropriata per il “bene comune” (come veniva chiamato), che quelle figure fornivano alla società, in prospettive anche di sacrificio estremo. Solo il mestiere del mercante e, con la prima rivoluzione industriale, quello dell’imprenditore erano stati in qualche modo separati dalle altre professioni “nobili”, perché avvolti in un’aura di minor chiarezza. Però, la posizione speciale e il potere di quelle figure erano stati comunque accompagnati dal peso di responsabilità morali, specifiche ed ineludibili.
“Il fatto è che non ci siamo mai ben chiarite le funzioni del mercante rispetto alle altre professioni”. Se infatti inseriamo il mercante – ovvero, la figura che oggi chiameremmo genericamente uomo d’affari – nel contesto delle “5 grandi professioni intellettuali” che secondo Ruskin sono necessarie alla vita di ogni nazione civile, le funzioni potrebbero essere così definite:
- il soldato ha per compito di difendere la nazione;
- l’educatore, di istruirla;
- il medico, di mantenerla in salute;
- il magistrato, di rafforzarla nella giustizia e
- il mercante, di provvedere ai suoi bisogni materiali.
Per illuminare dove sta il problema con gli uomini d’affari, Ruskin aggiunge che “è dovere di tutti i professionisti, nei debiti casi, anche dare la vita per la loro funzione”. Così, il soldato morirà piuttosto che abbandonare il suo posto in battaglia, l’educatore piuttosto che essere obbligato a insegnare il falso, il medico piuttosto che esser chiamato a diffondere il morbo, il giudice piuttosto che commettere ingiustizia…, e il mercante piuttosto di che cosa sceglierà di sacrificarsi? Qui tutti ci zittiamo, incapaci di proseguire. Eppure la risposta è ovvia, solo che stranamente non coincide con la realtà!
Se la funzione dell’imprenditore è di provvedere alla fornitura dei beni di cui la comunità abbisogna, ne consegue che la sua funzione non è di trarre dalla stessa comunità i mezzi per ingrandirsi ed arricchirsi, tanto quanto non rientra nei compiti primari di un maestro o di un medico di ricavarvi il proprio stipendio e onorario in quantità crescente! Lo stipendio è un complemento dovuto e necessario, ma non è lo scopo di vita di un educatore o di un medico. Così non può essere nemmeno lo scopo di vita del mercante! Tutte le professioni hanno un lavoro da fare, che è indipendente dal compenso. Il mercante deve comprendere a pieno il prodotto di cui si occupa, avere la sagacia e l’energia per produrlo e rivenderlo in perfetto stato, così che esso si possa infine distribuire al minor prezzo là dove è più necessario.
Ruskin continua rilevando anche la responsabilità dell’imprenditore verso il benessere delle persone che lavorano alle sue dipendenze. Poiché egli ha un governo diretto su queste persone, “diventa suo dovere non solo studiare in ogni momento come produrre nelle forme più economiche e di maggiore qualità, ma anche come garantire più benefìci possibili ai lavoratori coinvolti nelle produzioni e nelle vendite”. Cosicché l’esercizio del business richiede al datore di lavoro “la massima intelligenza, pazienza, tatto, gentilezza e tutta l’energia al punto di dover rinunciare, ove necessario, alla vita”. Come il capitano di una nave ha il dovere di abbandonare per ultimo il vascello in caso di catastrofe, così “il produttore industriale, in ogni crisi o difficoltà commerciale, è tenuto a sopportarne con i suoi uomini le sofferenze, prendendo su di sé la parte maggiore come farebbe un padre con i figli in caso di carestia o di altre disgrazie”.
Insomma per le professioni non può valere il criterio esclusivo del ritorno finanziario come misura del successo. Esse devono selezionare come test di benchmark l’eccellenza delle prestazioni nel senso più vasto del termine, che include oltre al prezzo, anche la qualità e l’innovazione dei servizi resi alla comunità. Nella prestazione di tali servizi la dimensione del ROI è certo un indice del successo, ma chi tende ad esagerarne il valore corre il rischio di danneggiare la comunità nella performance del servizio reso.
Beh, queste considerazioni di Ruskin sollevano oggi sentimenti quasi di compassione, tanto appaiono arcaiche rispetto ai modelli divulgati nelle moderne scuole di business, tutte sbilanciate a giustificare la “manina della Provvidenza” che agirebbe beneficamente nel mercato a trasformare in oro per la comunità il piombo prodotto dagli egoismi individuali degli speculatori. Certamente nel business uno deve fare profitto, perché senza profitto il business non sopravvive ed invece deve sopravvivere se serve a qualcosa. Ma il profitto non può aversi a danno del bene pubblico o della salute dei dipendenti, come avviene con la vendita di cibo contaminato o la produzione di dispositivi elettronici in condizioni di fabbrica disumane.
Il mantra per cui “il mercato ti butterà fuori se non fai ciò che devi” contiene un granello di verità, ma insegnarlo ossessivamente ai giovani che saranno i manager di domani, come si fa oggi in tutti gli MBA del mondo nessuno escluso, è come eseguire un’operazione al cervello con la mannaia. Si fa soltanto perché in questo momento storico l’etica (quale etica? esiste un’etica assoluta distinta dall’insieme delle norme giuridiche sempre eludibili con opportune tecniche?) è incapace di fungere da riferimento stabile e condiviso per i comportamenti individuali e l’ordine pubblico. L’etica non è considerata un aspetto della realtà con cui ogni persona decente debba fare i conti, né tantomeno da cui possa essere interpellata pubblicamente. In politica e nel sindacato la mera volontà di potere e la menzogna sono diventati la regola, nel mondo dell’economia e della finanza la brama del profitto è l’unico metro, i mezzi di comunicazione propagano un esibizionismo decadente, dove la perversione e la violenza sono le normali merci d’intrattenimento. Ma se nell’avviamento alle professioni i giovani non sono educati all’altruismo, con quale ragionamento logico (non dico: sulla base di quale diritto etico) i cittadini pretenderanno da loro la prestazione di prodotti e servizi buoni?
Se si vuole che le professioni e l’economia tornino al ruolo strumentale di fornitori di servizi alla comunità occorre restaurare un riferimento alla vocazione personale e all’etica nell’educazione familiare e scolastica dei giovani. E tra tutti i quadri di riferimento, per me il migliore è la sequela dell’insegnamento di Gesù che nel Discorso della montagna svela un manifesto opposto a quello divulgato dall’industria dei media. Ne trovi di migliori chi può.
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E il bello del discorso della montagna è che quel che si promette non è per il futuro, come credono (o vogliono credere) i più, ma subito. Come a suggerirci che la speranza di paradisi pieni di promesse e premi è utopia pura, e tale speranza deve piuttosto riguardare il presente, perché è solo nel presente che chi ha buona volontà può contribuire a ricondurre l’uomo alla sua dimensione più alta. Tutti insieme gli uomini di buona volontà, senza etichette e senza l’ingenua istanza dei valori che apparterrebbero indistintamente a una comunità speciale… Come si fa?
cercando di mettere in pratica il Vangelo?
Per la verità, Cipriani, almeno per alcune beatitudini, Gesù promette solo una ricompensa “nel regno dei cieli”. Comunque, ai fini dell’argomento qui trattato, ciò che conta è l’etica, che deve guidare anche il lavoro di ognuno, e quindi vale per tutti gli uomini di buona volontà.
Come si fa?, Lei chiede. Si fa e basta. Almeno si tenta, cercando di migliorare ogni giorno.
“Il rischio del nostro tempo è che all’interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante. La condivisione dei beni e delle risorse, da cui proviene l’autentico sviluppo, non è assicurata dal solo progresso tecnico e da mere relazioni di convenienza, ma dal potenziale di amore che vince il male con il bene (cfr Rm 12,21) e apre alla reciprocità delle coscienze e delle libertà.”
Caritas in Veritate 9
A parte il riferimento alla fede, che spesso anziché illuminare acceca e distingue (ha l’ardire di distinguere) tra i buoni e cattivi, sottoscrivo in toto. Allora diventa una via programmatica condivisibile su tutto il fronte degli uomini che amo definire di buona volontà, al di là delle etichette e degli steccati che ci dividono. Se prima viene l’uomo, secondo viene tutto il resto. Gesù docet!
Articolo come sempre molto interessante, prof. Masiero, che su Venezia e il “viaggio nel tempo” ha toccato particolarmente le mie corde (nel mio piccolo “viaggio” spesso cercando immagini del passato dei luoghi che frequento, di solito stravolti dal “produttivismo”).
Nella sua formulazione ideale il marketing , propriamente inteso, ha una missione benefica per l’umanità perché si tratterebbe della raccolta di informazioni per individuare le esigenze dei consumatori, seguita dalla produzione di beni e servizi adatti a rispondere a tali esigenze. Ovvio che poi nella realtà tutto questo sia deformato, ma un credente cattolico, essendo un realista , sa bene che questo è necessariamente così, e tuttavia questo non toglie che il singolo o anche dei gruppi si impegnino per fare del proprio meglio a beneficio degli altri con maggior guadagno anche per se stessi.
Capisco che, detto questo, restiamo ancora nei dintorni degli economisti della scuola classica, per i quali gli egoismi dei singoli portano al bene(ssere) della collettività, ma il marketing (propriamente inteso) è comunque un passo avanti (anche perché formulato più di un secolo dopo) perché mette al centro le esigenze, i bisogni, delle persone e non gli egoismi degli operatori.
Qui si chiede addirittura di mettere in gioco la propria vita, ma questa è cosa da cristiani e anti-darwiniana per non dire anti-evoluzionista, è una cosa che si può fare solo con la riscoperta a livello di massa di una fede forte e quindi anche di quel pensiero forte che pare in via di liquidazione in tutto l’Occidente (un nome, una vocazione…declinare, scomparire :-). Noi lo sappiamo che “chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”, ma la masse dei contemporanei difficilmente possono arrivare ad agire di conseguenza, al massimo molti potranno apprezzare la frase e approvare i pochi che la mettono in atto. Sono pessimista, quindi, ma realista, perché il cristiano non è un sognatore e un utopista che volteggia a tre metri da terra, piuttosto sa che la realtà era amara anche nelle epoche passate e che la via di salvezza sta tuttora nel portare la propria croce, che vuol dire anche sforzarsi di fare comunque dei passi avanti tra le avversità, senza pretendere che li facciano gli altri per noi.
Già, il cristiano… Chi è costui? Quello che ha la patente da cristiano o colui che agisce e fa in nome dell’uomo indipendentemente dall’etichetta? Bella domanda, eh? Come quando si parla di valori cristiani… Che dovrebbero appartenere a chi? Quale massa di umani li incarna? Quale società? Quella occidentale? Ma va là, che è una battaglia persa. Qui si può fare e agire solo in nome dell’uomo, che viene prima del sabato e di tutte le etichette… Ma l’è molto dura da intendere, perché fa comodo il senso di appartenenza, rassicurante senso, ma vuoto di contenuti, almeno alla resa dei conti… Pazienza!
Grazie, Muggeridge.
Fare il marketing onesto di un prodotto utile e buono, con passione coniugata all’efficienza, è una bella e santa professione. Però, si può fare anche marketing immorale, a mio parere. E questo accade quasi inevitabilmente quando l’unico criterio guida è il guadagno, magari secondo il mandato di una Direzione premiata dai risultati a breve.
Nelle Sue considerazioni finali, sono completamente d’accordo.
…è chi si sforza di seguire il Cristo, il cristiano (nessuna patente, solo una sequela, che ha cambiato per sempre la Storia…)
Sinceramente una dimensione etica nella figura del commerciante/imprenditore esiste eccome e ceteris paribus avrebbe anche la sua bella ripercussione nel mondo reale, altro non è che il rischio di impresa.
Dico ceteris paribus perchè in realtà l’economia di oggi, vivendo della corruzione della più nobile delle istituzioni dell’aldiqua che è la Moneta, SEMBRA poterla fare alla Verità mandando avanti ad libitum l’illusione della ricchezza. E’ una economia distaccata dalla Realtà, che vive l’illusione della Finanza, ma il redde rationem arriva e questo perchè la Realtà sebbene ferita, non è perduta, anzi per chi ci crede è da 2000 anni che la Verità l’ha riscattata.
Prescindendo dalle metafisiche personali, e optando per una più generica legge di natura o ritorno karmico o quel che volete, la Realtà lanciata a tutta forza dalla Verità, trascinerà via presto o tardi, tutto e tutti i poveri idioti che vivono in un aristofanesco mondo delle Nuvole. E così sarà uno scoppiare di bolle, e tanta gente si sveglierà dal sonno; l’uomo della strada soprattutto, che dorme più di tutti e costituisce l’esercito dei “piagninculo”, che al posto di elevare l’Ostia (qui intesa come metafora di un sapere morale e pratico) eleva l’Iphone 6 (metafora di un non-sapere fatto di like, mi piaci, articoli di alta scienza tratti da donnattuttasalute.org et similia).
La verità è che manca nel mondo tutto, una sana cultura economica che è morale e pratica assieme; e chiaramente è sufficiente che un buono stia a sedere nella sua ignoranza per permettere al male di prender piede, da questa abdicazione deriva tutto il resto. Quindi assolutamente d’accordo con la critica alla mancanza di un’etica nell’economia.
Solo una cosa non ho digerito dell’articolo l’insistere su una distinzione forzosa tra mestieri sulla scorta di Ruskin; come se un imprenditore debba necessariamente non aver cuore, ignorando che esiste una dimensione imprenditoriale che lega e accomuna medici, giudici, soldati, giacchè nessuno cura risolve diverbi o combatte e muore per nulla. Questo è a me parso un atteggiamento un pò paternalista e dickensiano; figlio di quella morale di facciata del protestantesimo puritano, che guarda ai sintomi ma non ricerca le cause, e se ho ben inteso il prof .Masiero dai suoi scritti non potrebbe essergli più lontano da buon tomista quale mi pare essere.
Giorgio, ho letto davvero con piacere questo articolo, hai colto un punto che ritengo fondamentale e che in modo più o meno evidente fa da sfondo ad una serie di argomenti trattati, dall’economia all’istruzione alla geopolitica: la questione antropologica.
Senza un cambiamento nella visione dell’Uomo non ci saranno leggi, riforme, modelli economici, regolamenti o altro che potranno migliorare le cose.
Grazie, Enzo. Tu sei insegnante di biologia al liceo, ma sono sicuro che prima di questa figura tecnica, ti senti la responsabilità etica di essere un educatore per i tuoi giovani allievi. Ciò che essi (e la società) saranno domani è anche nelle tue mani.
Ma quanti, per es. tra gli insegnanti che non vogliono essere giudicati per la qualità del loro lavoro, hanno altrettanta consapevolezza? E quanti, tra quei decisori che vogliono il controllo di qualità “perché non ci possiamo più permettere una scuola improduttiva”, ragionano ugualmente solo in termini economici?!
Conosco un ragazzo, AndreaX, che fa il trader (istantaneo, sui cambi) a Canary Wharf, ed ogni sera tira i conti: oggi ho guadagnato (per la banca, s’intende!) 4 milioni, ieri ne ho persi 6, la settimana scorsa ne ho guadagnati 22, ecc., ecc. Naturalmente se da 6 anni, da quando si è laureato alla Bocconi, la banca lo tiene in servizio, premiandolo con grossi benefit (dell’ordine di centinaia di migliaia di sterline ogni anno), vuol dire che fa bene la sua professione, che significa che a fine anno ha restituito alla banca un buon ROI.
Questo è un caso limite, di una professione a mio avviso assolutamente improduttiva, anzi parassitaria, che ha solo lo scopo di far guadagnare chi la fa. Certo, ai tempi di Ruskin, la speculazione toccava quasi esclusivamente il “mercante”, ma da “Unto this last” sono passati 150 anni ed anche un tomista realista come me non può ignorare che l’etica si è progressivamente allontanata da tutte le professioni, per lasciare il posto quasi solo al guadagno.
Quanto alla persona di Ruskin, non so se la sua morale fosse solo di facciata: so solo che nel tentativo di realizzare la sua utopia comunistica paleocristiana si è mangiato tutto il patrimonio.
L’esempio che ha riportato è paradigmatico della decadenza in cui vessa l’economia, ridotta a un numero! Si figuri che per me è scienza sociale e umana e non matematica fisica e naturale. Quello che mi dispiace è che a questo mondo della Finanza fantasfagorica, si associ l’economia reale, tipo il produttore di tortellini. Io vedo nell’attività imprenditoriale molto di cristiano e morale, Mises diceva “Chi è incapace di servire il prossimo, vuole dominarlo”, questo servizio altro non è che la capacità di cogliere e soddisfare alla miglior qualità e al più basso prezzo il bisogno del prossimo, trovo vi sia molto della lavanda del giovedì in questo ad esempio. Inoltre il dettaglio che fa la differenza è che l’economia reale è REALE! Cioè a differenza della Finanza non è costruita su fumosi pronostici, ma su bisogni di Per-sone, che hanno vita viva e vera e non di entità simili a Moloch quali le banche che tutto divorano.
Inoltre ribadisco che secondo me noi non siamo vittime ma complici dello stato di cose, nessuno si chiede mai come sia possibile che se vai a DEPOSITARE il denaro ti offrono un tasso di interesse? Ma come la banca mi offre il servizio di tenere il denaro al sicuro e mi paga pergiunta? Forse perchè quel denaro proprio al sicuro non è, difatti la banca va praticamente a giocarselo alla SNAI e finchè vince va tutto bene madama la marchesa, se perde invece…
Bello e profondo caro Giorgio e (anche se questo non si può dire) sono conclusioni analoghe a quelle di Ezra Pound, che tra l’altro scrisse quella che forse è la poesia più bella su Venezia:
O Dieu, purifiez nos coeurs! Purifiez nos coeurs! Oh si, la mia strada hai segnato In piacevoli luoghi E la bellezza di questa tua Venezia m’hai rivelata Che la sua grazia è divenuta in me una cosa di lacrime. O Dio, quale grande gesto di bontà abbiamo fatto in passato, e dimenticato, Che tu ci doni questa meraviglia, O Dio delle acque? O Dio della notte, Quale grande dolore Viene verso di noi, Che tu ce ne compensi così Prima del tempo? O Dio del silenzio,
Purifiez nos coeurs, Purifiez nos coeurs,
Poiché abbiamo visto La gloria dell’ombra della Immagine della tua ancella, Si, la gloria dell’ombra della tua Bellezza ha camminato Sull’ombra delle acque. In questa tua Venezia. E dinanzi alla santità Dell’ombra della tua ancella Mi sono coperto gli occhi, O Dio delle acque. O Dio del silenzio,
Ora Ezra Pound era un pochino troppo ingenuo e ha preso grosse cantonate politiche e lungi da me appoggiare in qualsiasi modo i suoi cosiddetti fan di Casa Pound ma come poeta ci sapeva fare e i guai del capitalismo finanziario li aveva capiti bene… e i punto caro Giorgio è proprio in un piccolo (ma esiziale) errore che trovo nella tua domanda iniziale non c’è nulla di male che lo scopo (accettato) di un’impresa sia quello di far fare i soldi a chi ci lavora (è sempre stato così) e tutto ciò riveste un grande ruolo sociale…il punto è che lo scopo di un’impresa ora è diventato di far fare i soldi AI SUOI AZIONISTI il che è molto diverso. Anche se gli azionisti sono milioni (tutti i risparmiatori) il gioco è fatto da pochi supermanagers che gestiscono i loro soldi e per loro se il lavoro sia fatto bene o male non importa un fico, il valore di un’impresa è strettamente deciso dalla finanza. è insomma astratto (tanto è vero che spesso le azioni di un’azienda crescono se l’azienda licenzia..)..e questo è immorale.
Purifiez nos coeurs,
Purifiez nos coeurs,
O Dio delle acque,
illimpidiscici il cuore,
Poiché ho visto
L’ombra di questa tua Venezia
Fluttuare sulle acque,
E le tue stelle
Hanno visto questa cosa, dal loro corso remoto
Hanno visto questa cosa
O Dio delle acque,
Come le tue stelle
A noi son mute nella loro corsa remota,
Cosí il mio cuore
in me è divenuto silenzioso.
Purifiez nos coeurs!
O Dio del silenzio,
Purifiez nos coeurs!
O Dio delle acque.
Grazie, Alessandro, anche per le citazioni di Pound su Venezia che non conoscevo!
Il discorso sul ruolo degli azionisti – che nelle corporate sono differenziati in vari tipi, con diritti e doveri diversi – meriterebbe forse un approfondimento, che riserviamo magari in un’altra occasione.
Bello l’articolo, interessanti riflessioni ma io mi fermerò su altro, su Venezia.
Anche io amo perdermi per Venezia, solo che a me serve un’ora e non mezz’ora per arrivarci.
Mi è piaciuta l’immagine del proiettarsi in varie epoche.
A me succede spesso, quando sono allegro vado ad aumentare la mia allegria in quella città, quando sono triste vado a godermi le dolcezze della sua tristezza decadente, quando ho bisogno di pensare mi perdo nel suo silenzio, quando sono stressato vado semplicemente a perdermici.
Che piacere quando arrivando in campo della bragora (bandiera e moro) si ha la fortuna di essere avvolti dall’aroma dell’ultima torrefazione rimasta a Venezia!
Quello che volevo dire, a parte il mio amore per Venezia, è che la repubblica, pur indicata come fonte e crogiolo di ogni nefandezza da molti era in verità estremamente attenta ad etica e morale.
I tanto vituperati 10 erano sì un tribunale speciale che però non si occupava della gente comune ma bensì delle malefatte dei nobili, il doge non era un despota (chi ci ha provato è finito fra Marco e Todaro – il nuovo e il vecchio santo protettore della città ognuno collocato in cima ad una delle due colonne del molo – decapitato; la ricchezza non era osteggiata ma per il bene comune e per la sopravvivenza della repubblica ci più aveva più doveva dare e non si contano i prestiti forzosi, anche molto pesanti, imposti per sostenere guerre di difesa ora contro l’Austria ora contro la Francia o i Turchi o il Papa, o Milano o contro tutti questi allegramente uniti.
Ricordo che quando gli Inglesi si vantano tanto di aver promulgato una legge contro i lavoro minorile nel 1800 (1860 o giù di lì se non ricordo male) dovrebbero riconoscere con un minimo di umiltà che sono arrivati circa 400 anni dopo Venezia.
Ricordo che le carceri di Venezia erano sì terribili ma probabilmente le più vivibili d’Europa.
Ricordo ancora la pratica della “colleganza” che prevedeva delle joint venture ante litteram fra il mercante, l’armatore e il finanziatore che in genere era un banchiere ma che non escludeva la partecipazione secondo i propri mezzi di chiunque distribuendo poi equamente i profitti.
Venezia non è durata mille anni o giù di lì perchè era potente militarmente ma per la sua fibra etica e morale e ritengo che il nostro sistema non sia sull’orlo del tracollo per motivi tecnici ma proprio per la mancanza di questa fibra che li ha causati,
Grazie, Valentino, anche per le Sue considerazioni sul sistema politico della Serenissima. A queste io voglio solo aggiungerne una, sul suo sistema sociale: a Venezia esistevano fin dal Medio Evo più di 900 “Scholae”, di altrettante associazioni di artigiani e lavoratori, che garantivano al popolo l’istruzione, la previdenza e la sanità – cioè il welfare – quando neanche l’ombra di una tale sistema sociale così articolato e diffuso esisteva in nessun paese d’Europa. Naturalmente i patrimoni di queste associazioni furono requisiti da quel moderno Attila che fu Napoleone (portato in Francia o distribuito tra le truppe come bottino) ed il sistema così smantellato in nome degli ideali della rivoluzione francese.
Oggi sono state ripristinate e fioriscono una dozzina di quelle Scholae, che invito chi non le conoscesse ad andare a trovare nell’occasione di una visita a Venezia.
Articolo molto interessante, signor Masiero.
A volte penso di essere nato in un’epoca che non mi si addice. Magari avrei preferito vivere nell’800, oppure nei primi secoli del primo millennio, anche se allora le persecuzioni cristiane erano una routine. Insomma, quando ancora era la norma ereditare il mestiere dei propri padri, a dispetto di oggi dove l’economia – o meglio, la società – si basa solo sul profitto e non sul benessere altrui, come ha ben evidenziato anche lei, e ci si debba accontentare di una vita al limite della dignità.
Grazie a Lei, Salvo.
Una piccola aggiunta, la Repubblica Serenissima, è il miglior esempio di stato laico pur non cadendo mai nel laicismo, se non dopo l’arrivo del Corso Devastatore.
Pur nella profonda e radicata religiosità la cosa pubblica era gestita secondo leggi laiche mantenendo sì i due domini separati ma anche permettendo, anzi favorendo un osmosi continua.
Le cose che hanno fatto più male a Venezia, non sono stati i ripetuti danni di guerra che ha dovuto pagare agli Asburgo (nonostante questi fossero gli aggressori sconfitti), ne’ i salassi a cui si dovette sottoporre per finanziare guerre altrui (sopratutto papali) ma bensì le scomuniche.
laici sì ma non atei insensibili al richiamo trascendente che non si fa sentire esclusivamente nell’alveo del privato.
Secondo me questo è quello che manca alla nostra società, il rapporto con il trascendente, relegato a fattore privato e deriso come favoletta.
Questo porta alla sostituzione di valori e diritti veramente basilari con valori e diritti che trovano difficile giustificazione se non nella “democratica accettazione” di “basi teoretiche” senza alcun costrutto e che vanno per la maggiore solo grazie alla martellante e ossessiva propaganda del mainstream.
Mentre il popolo viaggia intontito verso nuovi radiosi orizzonti di diritti, i diritti basilari conquistati con sangue e fatica dal succedersi delle generazioni vengono erosi.
Torneremo al medio evo ma non nella versione “morale”, pur con tanti errori e nefandezze, che è stata vissuta bensì solo come prassi e struttura, priva di qualsiasi giustificazione etica.
Non esistono delle professioni immorali o non etiche, con qualche rara eccezione ovviamente, si profila però una società immorale e non etica che renderà immorale e non etica qualsiasi professione.
Bisognerà anche vedere se è reale o meno l’islamizzazione del Vecchio Continente e se i robusti e sinora inarrestabili flussi di popolazioni dall’Africa e dal Medio Oriente, permetteranno questo tipo di evoluzione da te paventata. Bisognerà quindi vedere se ci sarà integrazione e se sarà integrazione sull’attuale immoralità o una riscoperta delle radici cristiane europee che sono più vicine alla cultura dei popoli che qui stanno affluendo e proliferando. La Storia resta imprevedibile e le tendenze dominanti oggi, molto difficilmente lo saranno in un futuro che può essere appena dietro l’angolo.
io credo nella convivenza nella diversità ma la diversità richiede forte identità da parte di tutte le parti in gioco e la nostra identità, piaccia o meno è un’identità cristiana, culturalmente e moralmente.
Tutto ci parla di questo in ogni angolo d’Italia, ma non solo, in ogni angolo d’Europa, In Francia, in Germania, nei paesi orientali: chiese, cappelle votive, dipinti, statue di grandi artisti e di popolani, non importa, negare questo e ripudiarlo non può che portarci alla fine che ci meritiamo.
Un po’ come Venezia quando ha voltato le spalle allo “stato da mar”, decretando la sua fine.
Io più che l’islamizzazione che ritengo un pericolo fasullo e costruito, un false flag, temo la protestantizzazione che ritengo essere l’anticamera della corruzione morale, il discorso è lungo e ci sarebbe molto da discutere, ma questo è il mio sentire che è molto più empatico con gli scismatiti orientali che con i protestanti,
Vedremo se sapremo fermarci un attimo a riflettere e scegliere di reagire o se ci lasceremo morire in una specie di eutanasia morale, io non lo so e nessuno lo può sapere.
Speriamo bene