“Pitagorici celebrano il sorgere del sole” (Fëdor Bronnikov, 1865)
A ricordo di Georg Cantor, morto il 6 gennaio 1918, che con la sua Teoria degli insiemi creò il linguaggio unitario della matematica e fece una riflessione mai prima concepita sull’infinito, da cui è nata la matematica moderna
L’essenza della matematica (Parte I di 2)
di Giorgio Masiero
Dapprima ho imparato a contare: 1, 2, 3,… Poi è arrivato anche lo zero, non ricordo come né quando. Nel contempo tracciavo linee a zig zag e curve, quadrati e ovali… Ma che cosa c’entrassero i numeri con le figure, l’aritmetica con la geometria, per me scolaro era solo l’appartenenza ad una stessa materia detta matematica. Sì, negli esercizi di geometria facevo calcoli per trovare perimetri e aree, però i numeri io li vedevo ovunque a scuola, dalle coniugazioni dei verbi in italiano alle date in storia agli abitanti in geografia…, ai voti in pagella.
Con gli anni le cose si chiarirono appena un poco complicandosi molto: imparai nuovi oggetti ed operazioni, credetti talora di aver trovato la characteristica mathematicama poi mi disilludevo. Ai numeri naturali seguirono gli interi relativi, i razionali, i reali e i complessi. Fine dei numeri? No, sarebbero arrivati più tardi i quaternioni, gli ipercomplessi e (infinite) altre specie. All’aritmetica e alla geometria si aggiunse per prima l’algebra, col suo corteo di polinomi ed equazioni: una materia invece che 3, un professore e nessun altro legame apparente. Come characteristica considerai spesso ilrigore logico che ero tenuto a rispettarein misura crescente nei calcoli e nelle procedure…, però mi dicevo infine che la stessa razionalità avrei dovuto esercitare in ogni materia scolastica, anzi in ogni azione della vita. Potevo fare una traduzione di latino, o commentare il Cratilo di Platone, o scegliere la facoltà universitaria dopo il diploma, senz’altrettanta applicazione mentale?
Al liceo due materie mi piacquero sopra tutte, la matematica e la filosofia, i miei beniamini essendo i geni che erano eccelsi in entrambe: Pitagora, Cartesio, Pascal, Leibniz, Wittgenstein. Filosofie tante, matematica una, ancora: perché? Un giorno arrivò la geometria analitica scoperta da uno di quelli, filosofo metafisico, fisico e matematicodel XVII secolo e questa mi aprì uno spiraglio: le figure della geometria e le equazioni dell’algebra sono due rappresentazioni della stessa “Cosa”!
Prendiamo una retta della geometria euclidea: Cartesio la trasformò in un’equazione. O la più perfetta figura della geometria, il cerchio: altra equazione! Una parabola, un piano nello spazio, un cono, una sfera…? Altrettante equazioni. Naturalmente la geometria analitica funziona anche nel verso opposto: da un’equazionetrae la figura geometrica corrispondente. Come un vocabolario bilingue: inserisci “amore” e ottieni “love” (se è italiano-inglese), metti “love” e hai “amore”. Sempre della stessa cosa si parla. Ma quale Cosa in matematica?! come fa la continuità d’una forma geometrica a trasformarsi nella discretezza di un’equazione algebrica? Pazienza, lettore non matematico, questo è il punto difficile che spero di riuscire a spiegarti in due puntate…
La trasformazione di Cartesio
La scoperta cartesiana dell’unità profonda di algebra e geometria porta con sé vantaggi pratici: risolve i problemi geometrici, che richiedono intuizione, attraverso (più facili) problemi algebrici, che consistono spesso in sola automazione. Che fanno al liceo gli studenti davanti ad un problema difficilino di geometria? Lo traducono in un sistema di equazioni, risolvono queste con l’algebra e poi reinterpretano col vocabolario cartesiano inverso le soluzioni algebriche nei corrispondenti significati geometrici, ottenendo le soluzioni del problema di partenza. Per i problemi più difficili dell’aritmetica e dell’algebra però, quelli veramente tosti, avrei imparato molti anni dopo che i matematici applicano la strategia opposta: li trasformano in problemi geometrici “corrispondenti” (stavolta l’aggettivo richiede un’astrazione indescrivibile), risolvono questi more geometrico e poi interpretano le soluzioni così ottenute alla luce dei primitivi significati algebrici. Si chiama geometria algebrica (v. Fig. sotto).
Gli “accerchiamenti” opposti della geometria analitica e della geometria algebrica
Andiamo avanti, cioè torniamo indietro ai miei anni di studente. Dopo la geometria analitica, m’insegnarono un’altra teoria: l’analisi. La sua specificità sta nel saper trattare due entità altrimenti oscure e volatili, eppure fondamentali dell’universo matematico: l’infinito e l’infinitesimo. La parola infinito ha due significati. Può indicare un processo che non arriva mai alla fine: Aristotele lo chiamava infinito potenziale. Così è l’operazione di raddoppiare un segmento e poi raddoppiare il risultato, e poi raddoppiare il nuovo risultato,… Questa procedura produce ad ogni passo un segmento più lungo, suscettibile di superare ogni segmento dato. Diciamo che l’esito è un segmento infinito, dove l’infinito è potenziale (nel linguaggio aristotelico: possibile ma non realizzato), perché comunque ad ogni passo il risultato attualeè un segmento limitato. Oppure potremmo dimezzare un segmento e poi dimezzarlo un’altra volta e poi ancora… Anche questa procedura va avanti in teoria quanto si vuole. Stavolta più si avanza, più la lunghezza risultante s’avvicina a zero: è infinitesima, senza essere mai nulla. Sull’infinito potenziale e l’infinitesimo si fondano i concetti di continuità e di liscezza (tecnicamente, differenziabilità) e l’operazione di misura, che sono caratteristici dell’analisi. Altro infinito potenziale è la serie numerica
dove si alternano indefinitamente addizioni e sottrazioni dei reciproci dei numeri dispari. Un teorema dell’analisi mostra che questa somma tende a π/4: ecco un’altra manifestazione dell’unitàdella matematica e della sua efficacia risolutiva trasversale, perché un’operazione di analisi – il calcolo di una serie – partorisce il santo Graal della geometria, π. (Tra parentesi, queste procedure infinite non sono eseguibili da una macchina: un software deve contenere un numero finito di istruzioni, altrimenti la sua esecuzione andrebbe in overflow, per quanto grande sia la memoria e veloce il processore del computer. Così, a differenza della mente umana, nessuna macchina potrà mai predire il risultato π/4 della serie scritta sopra. Fine dei sogni dell’Intelligenza Artificiale Forte.)
Il secondo tipo d’infinito è una collezione di elementi superiore per quantità ad ogni numero dato. Era denominato da Aristotele infinito attuale e presunto impossibile nella realtà; oggi è chiamato insieme cantoriano e costruito in diverse “incarnazioni” ideali. L’alfabeto italiano ha 21 lettere, cosicché non è un insieme cantoriano; né lo è l’insieme dei granelli di sabbia del mare (come Archimede dimostrò al tiranno di Siracusa), né l’insieme delle particelle dell’Universo secondo la cosmologia moderna (che sarebbero all’incirca 10^80). Invece l’insieme dei numeri naturali, che s’indica con N, è un insieme cantoriano. Si può dire che N ha un numero infinito di elementi, dove in questo caso infinito è inteso come infinito attuale, realizzato. Nella matematica esistono molti insiemi cantoriani: oltre ad N, cantoriani sono l’insieme R dei numeri reali, l’insieme C dei numeri complessi; ed anche un segmento, un quadrato, un cerchio, lo spazio, ecc. intesi come insiemi di punti, l’insieme di tutte le curve, ecc., ecc. Di fatto il numero degli insiemi cantoriani è un infinito attuale! Non solo. Nella teoria degli insiemi è contenuto uno dei più stupefacenti risultati di tutta la matematica (G. Cantor, 1864): come le vacche in Baviera non sono tutte nere, anche se tali appaiono a chi l’attraversa di notte, così gli insiemi cantoriani non sono tutti equivalenti per quantità di elementi, ma alcuni hanno “più” elementi di altri. Gli insiemi cantoriani infatti si ordinano in una scala gerarchica d’infiniti gradini, con un gradino più basso (dove si trova N in compagnia d’infiniti altri insiemi equivalenti), un secondo gradino (dove si trovano R e C con infiniti altri),… e così via all’insù!
C’è da dire, per completezza, che Cantor svolse una riflessione ulteriore sull’infinito, integrando una terza modalità che richiama il pensiero tomistico piuttosto che la secca dicotomia aristotelica tra infinito potenziale e infinito attuale: egli mostrò l’esistenza di un infinito attuale assoluto determinato non incrementabile. Questo concetto non appartiene però alla matematica, ma può predicarsi solo di una nozione di Dio appartenente alla metafisica.
Ricordate come i Romani conquistarono Masada (73 d.C.)? La fortezza giudaica si trovava sopra una rocca alta 133 metri, circondata dal deserto. Il comandante romano Lucio Flavio – dopo aver costruito un muro di cinta alla base della rocca (per mandare ai rivoltosi il messaggio che nessuno di loro ne sarebbe uscito vivo) e dopo aver risolto i problemi logistici e di approvvigionamento col più vicino porto (gli Ebrei dal canto loro avevano ammassato viveri per anni nella fortezza) – progettò un piano in 3 moduli, la costruzione dei quali fu avviata contemporaneamente per accelerare i tempi. Il primo modulo consistette nella costruzione di un terrapieno alto come la rocca, il secondo delle componenti di una torre di ferro da assemblare sopra la rocca e capace di superare in altezza le mura della fortezza, il terzo delle macchine belliche (catapulte e arieti) da disporre sopra la torre e con cui attaccare dall’alto gli asserragliati. Se la fortezza era inespugnabile dal basso e frontalmente, aveva cogitato Lucio Flavio, non erano invulnerabili dall’alto gli assediati che così si sarebbero potuti vincere… Per lui le cose andarono ancora meglio del previsto: quando avvertirono l’imminenza della sconfitta, i mille zeloti commisero suicidio collettivo, permettendo ai Romani di conquistare la fortezza senza ingaggiar battaglia.
Masada (sono visibili i resti del terrapieno romano sulla destra)
Questo è il modo preferito con cui il ricercatore matematico prova a risolvere un problema: lo divide e lo aggira, senza affrontarlo a muso duro…, sperando che quasi si risolva da solo. Un esempio di questa strategia è la procedura alla fine trovata per risolvere l’Ultimo “teorema” di Fermat. Fermat, di professione magistrato con l’hobby della matematica, pose nel 1637 una domanda aritmetica così semplice che anche un bambino di quarta elementare la capisce: c’è una terna di numeri interi diversi da zero per l’equazione
Dai tempi di Pitagora si sa che con esponente n = 2 ci sono infinite terne: (3, 4, 5), (5, 12, 13), (6, 8, 10), ecc. Con esponente n > 2 non esiste nessuna terna, ipotizzò Fermat senza dimostrare la sua affermazione. Tutti i tentativi fatti per tre secoli e mezzo di dimostrare la congettura affrontando il problema di petto (cioè con l’aritmetica) fallirono e solo nel 1994 Wiles e Taylor risolsero la questione: presero il problema alla larga integrando decine di tecniche diverse, dalla geometria algebrica alla teoria di Galois, dalla teoria delle curve ellittiche all’algebra di Hecke, alla fine delle quali quello svanì come neve al sole.
Le operazioni di accerchiamento multiplo, per mezzo delle quali il problema di un’area matematica è spaccato in moduli che sono risolti chiamando in soccorso gli strumenti delle altre aree, diventarono per me sempre più frequenti all’università. I miei esercizi di studente erano ovviamente molto più semplici delle questioni affrontate dai matematici di professione, ma l’approccio era lo stesso: indiretto, con l’apparenza di complicare la questione piuttosto che di semplificarla. Risolvevo così equazioni differenziali dell’analisi con i numeri complessi dell’algebra, problemi della teoria dei gruppi con l’algebra lineare, di trigonometriacon l’analisi, di geometria con la geometria differenziale (che è il linguaggio della Relatività Generale), di geometria differenziale con l’analisi funzionale (che è il linguaggio della Teoria Quantistica dei Campi), ecc., ecc. L’unità della matematica, rivelatami dalla possibilità di risolvere un problema di un’area attraverso l’integrazione modulare di algoritmi di altre aree, dimostra – continuavo a ripetermi – l’esistenza della Cosa.
Un giorno la dea sfuggente mi apparve davanti agli occhi, cosicché sostai estasiato ad ammirarla. Tuttora mi ci fermo quando capita, seppure ella vi sia velata, come Maja. È nell’incanto della formula di Eulero (1748):
Lettore, provi anche tu la mia stessa emozione nel vedervi avviluppati insieme i 5 numeri fondamentali della matematica: 0 e 1, punto di partenza e passo dell’infinita successione N dei numeri naturali dell’aritmetica; i = √-1, l’unità immaginaria a base dell’algebra; π uguale a circa 3,14 per la geometria; e il numero di Neper
uguale a circa 2,718 e base delle operazioni di differenziazione ed integrazione dell’analisi?
Basta. Avendoti convinto, spero, dell’esistenza d’una characteristica mathematica, adesso devo venire al sodo e spiegare come arrivai a capirne l’essenza sublime, o meglio ciò che io considero tale nella mia visione del mondo, di cui la matematica è un elemento essenziale. Userò nel prossimo articolo la strategia di partire dalle 3 galassie dell’universo matematico – l’aritmetica,l’analisi e la geometria –, lasciando perdere propaggini e sovrapposizioni che si diramano da quelle:
- L’aritmetica è il numero. Il numero afferra la struttura degli aggregati “discreti”, quei sistemi di solito finiti formati da elementi isolati, senza passaggi continui dall’uno all’altro: i cristalli, le reti, i grafi e tutte le strutture discontinue, in generale. L’aritmetica è la scienza delle strutture discrete.
- L’analisi è invece la scienza delle strutture continue, come i movimenti, le linee, le superficie, gli spazi, le varietà di tutti i generi, i campi di forza, ecc. Qui il passaggio da un elemento all’altro varia in modo continuo, per variazioni infinitesime. L’operazione dell’analisi cui tutte le altre sono al servizio è la misura.
- La geometria è a cavallo dei due tipi di strutture. Quando si studiano curve e superficie dello spazio o altre varietà di spazi multidimensionali, possiamo soffermarci sugli aspetti discreti (come la dimensione, la segnatura, ecc.) con le loro relazioni aritmetiche, oppure sugli aspetti continui (come le lunghezze, i volumi, le curvature, ecc.) con le relazioni metriche e gli invarianti. La geometria è la scienza della forma.
Ma allora, se la geometria è una sintesi di mondo discreto del numero con mondo continuo della misura, forse è nella geometria che i mondi apparentemente separati formano l’unità misteriosa cercata, e questa deve consistere in strutture ancora nascoste, né discrete né continue.
Certo, la matematica è anche l’arte di risolvere i problemi aggirandoli, ma la Cosa non può ridursi ad un’applicazione pratica, a mera tecnica. Piuttosto questa abilità della matematica è il dono di una sua più elevata essenza, la Cosa appunto, giacente al cuore unitario della geometria, ponte tra mondo discreto e mondo continuo. La mia “scoperta” della Cosa sarebbe intervenuta molti anni dopo la laurea, quando ad un meeting di lavoro sui sistemi di sicurezza e di crittografia incontrai le congetture di Weil.
Proseguiremo il discorso, lettore, se t’interessa, nel prossimo articolo.
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15 commenti
Illuminante e profondo. Grazie, prof. Masiero. Io ho studiato a scuola geometria analitica e capisco bene cosa vuol dire risolvere un problema geometrico con l’algebra. Mi è assolutamente oscuro invece come funziona la geometria algebrica, che fa l’inverso. Mi può dare qualche esempio?
Grazie, Anna. Un esempio di soluzione di un problema algebrico con la geometria algebrica (oltre che con altre tecniche matematiche) è il citato teorema di Fermat. Sulla geometria algebrica, con altri esempi, interverrò anche nel prossimo articolo. Devo a Pierre Cartier, del gruppo Bourbaki ed uno dei più grandi esperti di geometria algebrica viventi, il paragone tra l’efficacia trasversale della matematica e l’arte bellica usata dai Romani a Masada.
La trasversalità dimostra che la matematica è una e che non ci sono isole nel suo universo
Questo tuo articolo sulla matematica mi conferma ancora una volta che l’insegnamento delle materie scientifiche non dovrebbe prescindere dalla ricostruzione storica della loro nascita e dalle vicissitudini dei protagonisti.
Ben diverso è avvicinarsi alla matematica in questo modo o solo attraverso la proposizione dei risultati finali, mi piacerebbe vedere sui libri di testo un simile modo di presentare gli argomenti.
Sono d’accordo con te, Enzo. E penso anche che, con l’impegno personale del docente, la cosa sia fattibile già da ora in un ciclo quinquennale delle medie superiori, tenuto conto che il programma corre parallelamente allo sviluppo storico della scienza matematica. Il testo scolastico potrebbe essere utilizzato soprattutto per gli esercizi, mentre per la teoria le lezioni dalla cattedra potrebbero essere integrate con dispense preparate dal docente, che non fanno calare dall’alto gli argomenti, ma ne mostrano un’evoluzione che è insieme di tipo scientifico e di tipo storico.
Ma forse qualche insegnante di matematica potrebbe portare utilmente la sua esperienza e dirci se è d’accordo o no con noi!
Stranamente mi sento chiamato in causa… 🙂
Posso dire che, per quanto si può, i miei colleghi ed io cerchiamo sempre di inserire nel corso di matematica degli ultimi tre anni dei riferimenti storici relativi agli argomenti trattati. Il guaio è che si combatte con il programma, che si è mostruosamente dilatato, e che spinge gomito a gomito con i programmi delle altre materie – che si sono a loro volta dilatati. Di conseguenza, già per farci entrare le cose essenziali, fatte bene (come ci ostiniamo a fare), si fa una fatica immane…
comunque, che dire: insisteremo finché potremo!
Piacevole e intrigante come sempre, Giorgio. Ho trovato fantastico, in particolare, il tuo commento finemente “tranchant” sulla serie numerica la cui somma dà π: “Fine dei sogni dell’Intelligenza Artificiale Forte”. Bellissimo!
Ero sicuro, Michele, che avresti condiviso il mio “teorema” sull’IA forte! Elementare, Watson…
Ho passato queste ferie a portarmi alla pari coi libri acquistati e non ancora letti e uno di questi è stato “Matematica Ribelle” (di autori vari) che parla delle 2 vite di Alexander Grothendieck, definito in questo libro come l’analogo di Einstein per la matematica. Mi aveva colpito che questo personaggio (morto meno di due mesi fa) dopo essere diventato un grande della matematica avesse poi lasciato intorno al 1970 tutto il suo lavoro per isolarsi e dedicarsi alla meditazione, dapprima buddista, ma dal 1980 sino alla sua recente morte cristiana-cattolica. Gli argomenti trattati da questo matematico sono gli stessi di questo bell’articolo del prof. Masiero (appartenne anche lui al gruppo Bourbaki, anche se nella seconda parte della sua vita prese le distanze polemicamente da tutti i colleghi). E’ considerato un pioniere della geometria algebrica al pari del collega Pierre Cartier. Ovviamente i non credenti, considerato il carattere piuttosto problematico di questo studioso, hanno buon gioco a descriverlo come uno che è impazzito, ma durante i lunghi anni di questa sua “pazzia” Grothendieck ha scritto molto, non di matematica, ma anche sulla matematica; ho trovato particolarmente interessante questo suo passaggio preso dal suo libro “Récoltes e semailles” uscito alla fine degli anni ’80, nel quale afferma che Dio ha creato il mondo e le leggi che lo governano, ma le leggi della matematica sarebbero un’eccezione, perché “Queste leggi possono essere scoperte dall’uomo; ma non sono create né dall’uomo, né da Dio. Che due più due equivalga a quattro, non è un decreto di Dio, il quale non avrebbe la libertà di fare in modo che due più due equivalga a tre o a cinque. Penso che le leggi matematiche siano parte della natura stessa di Dio – una parte piccolissima, certo, quella più superficiale, ma l’unica accessibile all’intelletto.”
Forse Grothendieck è quel matematico che Paul Davies descrive, senza farne il nome, in un suo libro come impazzito dopo aver cercato di approfondire con la matematica la conoscenza di Dio (anche se di geni matematici dai comportamenti fuori dall’ordinario è piena la storia della matematica e Cantor non fa eccezione).
Bellissimo, Muggeridge! Condivido tutto al 100%.
Grothendieck è stato, a mio parere, il più grande matematico di tutti i tempi. A ragione i matematici lo considerano il loro Einstein. E solo il suo profondo senso etico, che non gli poteva far accettare i compromessi delle alte scuole francesi (anche di matematica) con l’apparato militare, lo ha obbligato a ritirarsi nel fiore dell’età dalla ricerca, cosicché abbiamo perduto chissà quali altre grandi scoperte, oltre a quelle che comunque riuscì a fare in una decina d’anni di lavoro accademico. Per questo suo altissimo senso etico-religioso, che il mondo chiama pazzia, Grothendieck ha rifiutato anche la medaglia Fields!
Ho citato le congetture di Weil, come l’occasione in cui io ho creduto di capire – dalle loro dimostrazioni – l’essenza della matematica. Ebbene, come descriverò nel prossimo articolo, queste dimostrazioni si devono a Grothendieck e ad un suo allievo e passano attraverso quel processo di generalizzazione che Cartier ha assimilato alla strategia adottata dai Romani a Masada.
Ma ci risentiremo nel prossimo articolo, Muggeridge!
PS. Quanto al rapporto della matematica con Dio, il pensiero di Grothendieck è lo stesso di San Tommaso d’Aquino (e opposto a Platone): la matematica fa parte della natura di Dio. Per questo, dice Tommaso, nemmeno Dio può far in modo che la somma degli angoli di un triangolo non sia un piatto…, così innestando la polemica classica con l’islam (Contra Gentiles).
@ Giorgio Masiero
Ho stampato e letto il suo nuovo articolo.
L’ho trovato interessante.
In un suo precedente intervento lei aveva scritto : “A tutti coloro che difendono un ambito di verità per la scienza sperimentale, vorrei intanto chiedere (a qualcuno che in passato non mi ha su questo punto risposto, richiedere): potete dirmi una, dico una sola, verità scientifica?”
Mi erano venuti in mente alcuni esempi,
Ad esempio l’esperimento di Ruhtherford mostra che la carica positiva dell’atomo è concentrata in uno spazio con un volume piccolo rispetto le dimensioni atomiche ed inoltre porta a concludere che la maggior parte del volume atomico risulta costituito da spazio vuoto.
Che poi quello che noi chiamiamo atomo sia descrivibile da un modello perfettibile è vero, ma che l’sperimento confuti il modello di Thomson, mi pare un fatto.
Come del resto il modello planetario di Rutherford sarà successivamente sorpassato.
Ma il dato sulla distribuzione di carica rimane.
La ringrazio, Lutman.
La mia domanda (retorica) di avere un esempio di “verità scientifica” è motivata dalla mia concezione della scienza sperimentale, come di un insieme di predizioni riguardanti i fenomeni, non la “realtà” (per giunta predizioni solo provvisoriamente corroborate e sempre falsificabili). Insomma
– se la verità è definita come l’uguaglianza della parola con la realtà,
– poiché la “realtà” non cade sotto il dominio della scienza sperimentale, ma è un concetto appartenente alla filosofia (Hawking: “Io non so cosa sia la realtà… una teoria fisica è solo un modello matematico e non ha senso chiedersi se essa corrisponde alla realtà. Mi accontento che faccia delle predizioni osservabili”),
allora la scienza sperimentale non contiene, né mai conterrà, verità.
Che cos’è il “vuoto”? Che cos’è la “carica”? Anche solo a livello fenomenico, la risposta a queste due domande che darebbe un fisico di oggi risulterebbe del tutto incomprensibile a Rutherford. E a livello di “realtà” il fisico di oggi è più muto di Democrito, che credeva invece di poterne parlare con gli atomi.
Fine vita e “cambi di rotta” più o meno compresi…
In un mirabile bagno di umiltà, quell’umiltà che probabilmente s’appalesa nei momenti in cui la vita presenta il conto, Norberto Bobbio ultranovantenne confessava a se stesso:
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“Sei arrivato al termine della vita e hai l’impressione, per quel che riguarda la conoscenza del bene e del male, di essere rimasto al punto di partenza. Tutti i grandi interrogativi sono rimasti senza risposta. Dopo aver cercato di dare un senso alla vita, ti accorgi che non ha senso porsi il problema del senso, e che la vita deve essere accettata e vissuta nella sua immediatezza come fa la stragrande maggioranza degli uomini. Ma ci voleva tanto per giungere a questa conclusione!”
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Ecco, direi, che qualche volta, o forse sempre, è davvero così. Dipende, tutto dipende, da come guardi il mondo, recitava una canzoncina di qualche anno fa… A cosa si dà importanza quando ti resta poco tempo e il fiato ti manca?
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https://www.youtube.com/watch?v=SeXsHCc7si8
Grazie Giorgio per queste riflessioni: le apprezzo ancora di più essendo stato anch’io formato da maestri essi stessi influenzati dal movimento detto di Bourbaki . La scrittura di Cartier ha poi nutrito e strutturato la mia formazione universitaria.
Aldilà dell’aspetto pedagogico di questa tua presentazione ne apprezzo davvero lo spirito contemplativo e lo sguardo unificante: ne metti in evidenza l’aspetto poetico.
E ben sappiamo quanto sia importante che una dimostrazione matematica sia non solo efficace ed efficiente , ma anche elegante e bella, anzi …. poetica.
Buon Anno 2015
In Pace
P.S. Condivido totalmente il tuo commento di ieri alle 13:57 in risposta a Enrico Lutman
Grazie, Simon, e auguri anche a te!
Non sai quanto t’invidio per aver avuto tra i tuoi maestri dei bourbakisti…
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