Ci sono le opinioni e poi le ricostruzioni inoppugnabili come quelle di Giacomo Gabellini: lo scenario geopolitico della crisi della UE
Di Giacomo Gabellini
L’1 settembre del 1994, durante il semestre di presidenza tedesca dell’Unione Europea (Ue), il presidente del gruppo parlamentare Wolfgang Schäuble, che sarebbe poi assurto a onnipotente ministro delle Finanze di Berlino, presentò al Bundestag, a nome del partito Cdu, un documento redatto assieme a Karl Lamers dal titolo Riflessioni sulla politica europea. All’interno del testo, i due politici tedeschi denunciavano come dopo la caduta del blocco sovietico e la riunificazione tedesca, lo sviluppo del processo di costruzione dell’Europa e di allargamento dell’Ue verso Est fosse entrato in una fase critica, al punto che:
«se entro due-quattro anni non si trova una soluzione alle cause di tale inquietante evoluzione, anziché indirizzarsi verso la maggiore convergenza prevista dal Trattato di Maastricht, l’Unione rischia di imboccare inesorabilmente la via di una formazione più debole, limitata essenzialmente ad alcuni aspetti economici e composta da diversi sottogruppi. Tale zona di libero scambio “migliorata” non potrebbe consentire alla società europea di superare i problemi vitali e le sfide esterne che si trova ad affrontare».
I provvedimenti istituzionali e politici che Schäuble e Lamers raccomandavano di adottare per prevenire questa deriva riguardavano innanzitutto il rafforzamento istituzionale dell’Unione Europea, la cui capacità di azione su base democratica dovevano essere irrobustite adottando una struttura modellata sulla falsariga dello Stato federale ed ispirata al principio di sussidiarietà. A fianco di ciò, si suggeriva caldamente di prepararsi ad affrontare rapidamente gli ostacoli di natura pratica e giuridica per istituzionalizzare il concetto di un’Europa a “velocità variabili” o a “cerchi concentrici”, «altrimenti l’Ue assumerà un aspetto minimale ridotto ad una cooperazione inter-governativa favorevole ad una “Europa alla carta”». I due individuavano nello spazio geoeconomico formato da Germania, Austria, Francia, Finlandia e Benelux il nucleo (“Kerneuropa”) da cui si sarebbero irradiati i cerchi esterni, e dal quale sarebbe dovuto partire l’imput per procedere ad una più rapida e completa integrazione politica. Sotto il profilo concettuale, l’Unione Monetaria Europea (Uem) doveva rappresentare il nocciolo duro della unione politica, in quanto ritenuta l’unico strumento in grado di conciliare gli obiettivi contraddittori relativi all’approfondimento e all’allargamento dell’Ue. Il tema di “cerchi concentrici” e delle “velocità variabili” sottendeva quindi una divisione tra Paesi di prim’ordine, caratterizzati da una forte integrazione, e quelli di seconda classe, dotati di limitate forme di cooperazione. L’accesso al credito agevolato sui mercati finanziari che l’appartenenza al gruppo “centrale” implicava avrebbe naturalmente portato tutti i Paesi del sud a profondere sforzi difficilmente sostenibili pur di essere ammessi al “club esclusivo”.
A differenza di quanto raccomandato da Schäuble e Lamers, i quali premevano per fissare criteri rigidi di adesione a ciascun gruppo, le regole europee furono applicate in maniera alquanto approssimativa, soprattutto per via delle difficoltà incontrate dalla Francia e dalla Germania – e non per favorire i “fannulloni” euro-mediterranei – ad adempiere ai requisiti necessari. Il lassismo contro cui i due parlamentari tedeschi si erano espressi garantì così l’ammissione a tutti i Paesi che lo desideravano. La scellerata procedura di ammissione ha seguito una strana ed alquanto deleteria convergenza di interessi tra la Commissione Europea, interessata ad allargare il più possibile i confini della zona-euro, e i governi dei Paesi deboli che, entrando in “eurolandia”, avrebbero ottenuto l’auspicata legittimazione delle loro politiche. Naturalmente, Schäuble e Lamers, identificavano nella Germania il “nucleo nel nucleo” dell’Ue e attribuivano a Berlino il compito di avanzare proposte volte a raggiungere l’obiettivo prioritario – di cui non si c’è traccia nel Trattato di Maastricht – di dotare l’Europa di una politica estera e di difesa comune anche attraverso il rafforzamento dell’intesa con la Francia. Per i due parlamentari tedeschi, quindi, l’allargamento dell’Ue ai Paesi meno solidi e alle nazioni dell’ex blocco sovietico si sarebbe dovuta attuare in maniera graduale e solo una volta ultimata la fase di “approfondimento” della integrazione tra i Paesi centrali, i quali avrebbero dovuto procedere come avanguardia europea senza premurarsi di sostenere nemmeno un “peso massimo” come l’Italia, che non veniva ritenuta in grado di soddisfare i requisiti necessari ad accedere alla zona-euro. Un allargamento indiscriminato avrebbe invece favorito un lento ma costante declino relegando il continente ad una situazione di pericolosa impotenza e debolezza ridimensionando così le sue ambizioni da grande potenza.
Il documento Schäuble-Lamers non teneva tuttavia conto del riorientamento strategico che in quella fase stavano varando gli Stati Uniti, la cui influenza soverchiante – costruita sul reticolato di basi militari disseminate in tutto il continente – rappresenta uno dei punti chiave per comprendere la crisi politica, finanziaria e monetaria di fronte alla quale si trovava l’Europa nel 1994. Nell’ottica di Washington, l’allargamento dell’Unione Europea ai Paesi dell’est fu individuato come lo strumento perfetto per approfittare del tracollo dell’Unione Sovietica estendendo da dietro le quinte i confini dello schieramento atlantista fino a ridosso dei confini russi. Come ha puntualmente osservato il noto stratega Usa Zbigniew Brzezinski:
«qualunque espansione del campo d’azione politico dell’Europa è automaticamente un’espansione dell’influenza statunitense. Un’Europa allargata e una Nato allargata serviranno gli interessi a breve e a lungo termine della politica europea. Un’Europa allargata estenderà il raggio dell’influenza americana senza creare, allo stesso tempo, un’Europa così politicamente integrata che sia in grado di sfidare gli Stati Uniti in questioni di rilievo geopolitico, in particolare nel Vicino Oriente».
All’epoca, il disegno statunitense non si poneva in contrasto con gli interessi della Germania, che ritenne di poter strappare a Washington il nulla osta per l’inclusione dell’Europa orientale nel proprio blocco geoeconomico come contropartita per la trasformazione del processo di adesione all’Unione Europea dei Paesi dell’est in una sorta di conditio sine qua non per la loro entrata nella Nato – una prospettiva a cui molti dei Paesi dell’est guardavano con favore a causa di una russofobia che per la prima volta da mezzo secolo poteva tradursi sotto il profilo politico – grazie alla quale gli Usa avrebbero avuto buon gioco a imporre la propria egemonia geopolitica su diversi Stati che fino a pochi anni prima avevano fatto parte del Patto di Varsavia e/o dell’Unione Sovietica. Dal punto di vista tedesco, l’obiettivo era chiaramente quello di tenere sotto stretta osservazione un’intera regione potenzialmente instabile e di utilizzarne le risorse, a partire dal basso costo del lavoro, concedendo ai Paesi dell’Est un’appartenenza formale all’Ue – ma non all’eurozona – subordinata al loro allineamento economico ai dettami della “Kerneuropa”.
Così, tra il 1997 e il 2013, Unione Europea e Nato reclutarono Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Slovenia, Slovacchia, Romania, Croazia, Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca, nonostante alle soglie degli anni ’90 Ronald Reagan e James Baker avessero concordato con Mikhail Gorbaciov l’adesione all’Alleanza Atlantica della Germania riunificata in cambio della rinuncia statunitense ad estendere la Nato ad est. Ma gli evidenti problemi strategici – come la crisi ucraina – prodotti dall’allargamento dell’Alleanza Atlantica a gran parte dell’Europa orientale andavano a sommarsi a quelli di carattere sociale ed economico, dal momento che gli standard vigenti nei Paesi ex comunisti non erano quasi mai paragonabili a quelli dell’Europa occidentale. L’adesione di una potenza agricola come la Polonia, ad esempio, comportava l’eliminazione delle barriere protettive nei suoi confronti, cosa che avrebbe colpito gli agricoltori italiani e francesi. La conseguenza cruciale dell’allargamento dell’Ue è tuttavia data dalla rimozione degli ostacoli che fino ad allora avevano scoraggiato lo spostamento degli impianti di produzione verso l’Europa dell’est.
La prima azienda a intuire e a valorizzare questa prospettiva è stata la Siemens, la quale minacciò di trasferire la produzione di telefoni cellulari in Ungheria qualora i sindacati tedeschi si fossero rifiutati di apportare modifiche sostanziali ai contratti di lavoro. Oltre ad essere tradizionalmente ben istruiti, precisi e affidabili, i lavoratori cechi, slovacchi, ungheresi erano anche particolarmente inclini ad accettare i contratti che più avvantaggiano le imprese. Non sorprende quindi che nel 1991 la Volkswagen, dopo aver soppesato costi e benefici dell’operazione, decise di rilevare l’azienda ceca Škoda e di trasferire la produzione in Slovacchia, caratterizzata da bassi salari e imposte più che favorevoli per le imprese che fin dai primi anni ’90 promettevano di trasformare la nazione in una sorta di “Montecarlo della Mitteleuropa”. Per promuovere mediaticamente il fenomeno, alcuni economisti neoliberali sottolinearono che la delocalizzazione delle imprese verso i Paesi vicini avrebbe permesso alle aziende occidentali di tagliare i costi legati alla produzione, benché fosse chiaro che i “nuovi arrivati” avrebbero tranquillamente potuto impiegare i fondi europei per sovvenzionare gli sgravi fiscali alle imprese dell’Europa occidentale. In sostanza, l’allargamento dell’Unione Europea verso est in nome della “solidarietà europea” si configurava evidentemente come una forma di legittimazione delle più deleterie forme di dumping fiscale e salariale, che vanno a intensificare la pressione al ribasso sugli stipendi innescata dalla stessa Germania con l’adozione delle riforme Hartz IV.
Ciononostante, il Consiglio d’Europa decise comunque di ridurre del 35% i finanziamenti destinati ai Paesi mediterranei che erano stati concordati per il periodo 1992-1996 riorientandoli verso l’Europa orientale. Da allora, le sovvenzioni sono cresciute di anno in anno senza che i Paesi destinatari degli aiuti fossero stati obbligati a conformarsi agli stessi criteri d’austerità a cui sono chiamati ad adeguarsi i membri dell’eurozona, sottoposti ai vincoli della Banca Centrale Europea. La Polonia, nazione strategicamente cruciale per favorire la penetrazione economica tedesca verso est e per la sua posizione geografica di “ponte” tra Russia ed Europa continentale, è stata letteralmente investita da una pioggia di aiuti economici europei (oltre 81 miliardi di euro tra il 2007 e il 2013) grazie ai quali Varsavia ha avuto modo di ammodernare la rete dei trasporti nell’ambito di un poderoso programma di ricostruzione delle fondamentali infrastrutture nazionali che ha inciso poco o nulla in termini di indebitamento (il debito pubblico e di poco superiore al 50% del Pil). Nel corso degli ultimi dieci anni, Hyundai, Volkswagen, Ferrero, Nestlé e tantissime altre imprese multinazionali hanno aperto propri stabilimenti in Polonia favorendo il dimezzamento del tasso di disoccupazione (15,2% del 2004 al 7,7% del 2014) e il rilancio della produttività interna. Non a caso, si tratta dell’unico Paese membro dell’Unione Europea a non essere mai entrato in recessione dal 2008 in poi. Anche Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia hanno imboccato processi di sviluppo paragonabili a quello polacco, beneficiando a loro volta della delocalizzazione degli impianti produttivi e dell’ampio margine di manovra in ambito di interventi statali sull’economia incoraggiati e permessi dalle regole europee.
Seppur in maniera indiretta, da tutto ciò ha tratto ampi benefici la Germania, che ha approfittato dei cambi depressi rispetto all’euro vigenti in tutti i Paesi dell’est facenti parte dell’Unione Europea ma non dell’eurozona per trasformarli in una sorta di “periferia fordista” deputata a rifornire l’hub industriale tedesco della componentistica dal basso valore aggiunto. Come scriveva nel gennaio 2009 l’economista Marcello De Cecco:
«la Germania, negli ultimi due decenni, ha sviluppato una struttura geografica e anche merceologica del commercio estero abbastanza simile a quella che aveva prima del 1914. È riuscita a costruire al centro dell’Europa un enorme blocco manifatturiero integrato [nel quale rientra anche l’Italia settentrionale, nda], includendo via via tutte le aree industriali ad essa vicine in una rete produttiva le cui maglie sono divenute sempre più strette. La misura dell’integrazione che la Germania ha ricreato al centro dell’Europa dopo la caduta del Muro di Berlino è data dal rango che nelle statistiche tedesche ricoprono piccoli Paesi della Mitteleuropa come Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria».
Gli impianti industriali impiantati in questi Paesi si occupano quindi di fabbricare i pezzi che poi vengono esportati in Germania, dove vengono assemblati e riesportati verso tutto il mondo. La costruzione di un blocco geoeconomico nel cuore dell’Europa e la compressione dei salari interni hanno impresso un’accelerata impressionante all’export della Germania, che da anni si classifica al primo posto mondiale nella graduatoria dei maggiori esportatori grazie a una macchina produttiva che assegna ai super-colossi Volkswagen, Daimler, Siemens e Deutsche Bank il compito di trainare la miriade di imprese tedesche di dimensioni medio-grandi che operano soprattutto nei settori legati all‘alta tecnologia. Tale risultato si deve tuttavia anche grazie alla sottovalutazione artificiale dell’euro. La quotazione della moneta unica risente infatti delle condizioni economiche disastrate in cui versano alcuni Paesi membri come la Grecia, le quali compensano in una certa misura il peso soverchiante assunto delle esportazioni tedesche.
Ed è in tale contesto che l’euro, grazie al quale la Francia di Mitterrand si illudeva di ingabbiare la Germania costringendola a rinunciare al marco, manifesta tutta le sue potenzialità destabilizzanti. “Eurolandia” si configura infatti come un’unione monetaria costruita attorno a una Paese strutturalmente esportatore, e quindi creditore. Si tratta di una condizione assolutamente anomala, perché in genere la nazione egemone dal punto di vista geopolitico lega gli altri a se stessa mediante la stampa di moneta necessaria all’importazione dei loro beni e servizi. Qui invece il Paese nodale esporta verso le aree periferiche dell’unione beni e servizi altamente competitivi che vengono pagati a debito, ovvero assolvendo a quella funzione di emissione monetaria che in condizioni “normali” spetterebbe al fulcro del sistema. In tali condizioni, la Germania drena risorse dalla aree “periferiche” dell’eurozona. E lo fa anche sfruttando i differenziali tra i tassi di interesse vigenti all’interno dell’eurozona, come si è visto con il caso greco. Come spiegò con disarmante chiarezza l’ex premier italiano Massimo D’Alema:
«in Germania il costo del denaro è bassissimo e quindi le banche tedesche raccolgono denaro a un costo quasi nullo. Con quei soldi comprano i titoli della Grecia, che essendo un Paese a rischio paga tassi altissimi, il 15%. In questo modo guadagnano una montagna di soldi. In altri termini, attraverso la differenza dei tassi d’interesse, enormi risorse si trasferiscono da un Paese povero, la Grecia, a un Paese ricco, la Germania. Il Paese povero si impoverisce sempre di più, il Paese ricco si avvantaggia sempre di più». Come se non bastasse, ha continuato D’Alema con il suo ragionamento, «quando la Grecia non è più in grado di pagare, arrivano gli aiuti europei. Noi abbiamo dato alla Grecia 250 miliardi di euro. Di questi 250 miliardi, ben 220 sono andati direttamente alle banche tedesche, francesi e, molto marginalmente, italiane. Gli aiuti non sono quindi serviti per versare le pensioni dei greci, ma per pagare gli interessi alle banche tedesche. Di questi soldi i greci non hanno nemmeno sentito l’odore».
Il sistema costruito dalla Germania grazie anche all’inadeguatezza di gran parte dei politici europei rischia tuttavia di andare in pezzi per effetto del programma neoprotezionista promosso da Donald Trump, il quale intende introdurre misure atte a riequilibrare i rapporti commerciali tra gli Stati Uniti e i loro partner. Per farlo, il presidente ha introdotto dazi sull’acciaio ai quali potrebbero andare a sommarsi tariffe del 20% sull’importazione di automobili fabbricate all’estero. Provvedimenti di questo tipo potrebbero innescare una guerra commerciale suscettibile di mettere in grave crisi non solo le case automobilistiche tedesche, ma l’intera impalcatura mercantilista su cui si basa il sistema economico della Germania. Non a caso, la Merkel si è presentata sugli spalti di Davos per pronunciare parole di condanna dalla politica di Trump, a cui ha fatto seguito l’apertura di un fitto dibattito interno – indotto anche dal ritiro unilaterale degli Usa dall’accordo sul nucleare iraniano, destinato a colpire le aziende europee che avevano riallacciato accordi economici con Teheran – circa la necessità di rivedere il rapporto tra la Germania (e l’intera Unione Europea) e gli Stati Uniti. Il settimanale «Der Spiegel» – tradizionale megafono della classe media tedesca – ha parlato ad esempio della necessità di predisporre «una resistenza intelligente, per quanto bizzarra e assurda possa sembrare. Resistenza contro l’America». L’articolo tende ad attribuire l’intera responsabilità delle crescenti tensioni interne al fronte atlantista alla figura di Donald Trump, dimenticando che le stoccate inflitte dagli Usa alla Germania (Dieselgate, Datagate multe comminate dal Dipartimento del Tesoro alle banche tedesche) risalgono a ben prima dell’ascesa al potere del tycoon newyorkese e che gli interessi statunitensi e quelli europei tendono a divergere ormai da parecchio tempo. Al tempo stesso, però, un’uscita del genere appare indicativa degli umori che stanno attraversando la Germania. Stesso discorso vale per il crescente pressing sui Paesi del vecchio continente affinché acconsentano alla creazione di una forza di difesa comune europea – della cui guida si occuperebbe naturalmente il “direttorio franco-tedesco” – indipendente dalla Nato, per la prospettiva – lasciata trapelare da anonimi funzionari europei all’emittente «Russia Today» – di abbandonare il dollaro negli scambi bilaterali con l’Iran in favore dell’euro, di favorire la ristrutturazione del sistema finanziario internazionale verso l’adozione di una forma di gold standard rivisitata e corretta e, soprattutto, per lo sdoganamento dell’idea di rendere la Germania una superpotenza nucleare così da trasformare il Paese in un gigante politico e militare, oltre che economico. «L’indipendenza richiede che la Germania si doti di una deterrenza nucleare. La cosa rientra nei nostri vitali interessi nazionali», ha affermato pubblicamente lo scienziato politico Maximilian Terhalle facendo eco al direttore della «Frankfurter Allgemeine Zeitung», che nel novembre 2016 aveva esortato i tedeschi a “pensare l’impensabile” alludendo alla costituzione di una force de frappe tedesca.
Il problema, per Berlino, è dato dal fatto che gli Usa non accetteranno mai una prospettiva di questo genere, e che l’amministrazione Trump si è già mobilitata per minare i tentativi tedeschi di gettare le basi per un accenno di riposizionamento geopolitico della Germania (l’analista Hans Kundnani ha parlato addirittura di “svolta post-occidentale” di Berlino) in favore di Cina e soprattutto Russia, per mezzo del raddoppio del gasdotto Nord Stream, del sostegno agli sforzi di Putin di trovare una soluzione alla crisi siriana e dell’apertura di discussioni interne circa la possibilità di rimuovere le sanzioni contro Mosca (molto dannose per l’economia tedesca) comminate sull’onda della crisi ucraina. Washington ha predisposto una strategia particolarmente insidiosa, perché fa perno sui Paesi dell’Europa orientale che costituiscono le fondamentali propaggini del blocco geoeconomico tedesco. È infatti alle repubbliche baltiche e alla Polonia, alleati di ferro degli Usa nonché avamposti della Nato ai confini della Russia, che Trump ha proposto di incrementare – magari a prezzi scontati – le importazioni di gas naturale liquefatto statunitense per contrastare l’intesa energetica russo-tedesca. Varsavia e gli altri governi interpellati da Washington sembra abbiano accolto con favore l’offerta di Washington, e ciò potrebbe significare un imminente strappo tra la Germania e i suoi satelliti economici che, fiutata l’aria che tira, si dissociano da Berlino per mettere in crisi l’affare energetico con Gazprom. La reazione tedesca consisterà con ogni probabilità nel promettere ai Paesi dell’est, all’interno dei quali tende a consolidarsi la convinzione che l’avvenire economico non sia più legato all’appartenenza dell’Unione Europea, dividendi ancora maggiori dell’adesione all’area geoeconomica tedesca come contropartita per una loro presa di distanza dall’agenda “divisiva” di Washington. In altre parole, la “spartizione” dell’Europa orientale tra Stati Uniti e Germania, con i primi che le imponevano la propria egemonia geopolitica e i secondi la loro potenza economica, non è più una soluzione sostenibile in epoca di avviato multipolarismo in cui il declino statunitense si accompagna all’emergere di alcune forze anti-egemoniche (Russia e Cina su tutte) in grado di mettere in crisi l’ordine mondiale a cui il mondo si è abituato nel corso degli ultimi decenni. Naturale conseguenza di ciò è il diffondersi del caos e dello scoordinamento internazionale, con conseguenti scontri sia all’interno dell’establishment che determina gli orientamenti della potenza dominante che tra lo Stato egemone a e le nazioni ad esso subordinate. Il subbuglio dei “mercati” non è altro che un’espressione dell’instabilità tipica delle fasi di transizione come quella attuale. La Germania, alla quale gli Usa hanno concesso ampi benefici pur di agganciarla allo schieramento atlantista all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, si è progressivamente accreditata come uno dei maggiori fattori critici del sistema su cui si fonda l’egemonia statunitense.
In tali condizioni, la posizione che assumeranno i Paesi (l’Italia in particolare, la cui crisi istituzionale vede i tedeschi collocati da un lato della barricata e il governo statunitense – con i suoi portavoce più o meno ufficiali – dall’altro) dell’Europa mediterranea, situati letteralmente tra l’incudine tedesco e il martello statunitense, è destinata a rivestire un’importanza capitale nel determinare gli equilibri futuri non solo europei.
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2 commenti
Ringrazio l’ egregio Gabellini per questo lavoro, che condivido sulle mie piattaforme.
Le analisi di Giacomo Gabellini sono di un livello accademico.