“La coscienza è un fenomeno affascinante, ma elusivo, ed è impossibile specificare cos’è, cosa fa, o perchè si è evoluta. Niente che valga la pena di leggere è stato scritto a proposito” – Stuart Sutherland 1989
Che abbia ragione lo psicologo britannico Sutherland o meno, vero è, che relativamente a quello che il filosofo-scienziato australiano David Chalmers definisce giustamente “il problema difficile”, sono stati certamente spesi, da sempre, fiumi di parole. In realtà il pensiero di Chalmers è un pò più complesso e tende a suddividere il fenomeno della coscienza in problemi di più facile risoluzione, come per esempio i correlati neurali delle esperienze, e in problemi appunto difficili relativamente agli aspetti più qualitativi e soggettivi delle esperienze stesse. Ma è comunque bene sottolineare come, nel campo della filosofia della mente e della coscienza, a partire almeno dal dualismo mente-corpo d’impostazione cartesiana, i pareri non siano stati quasi mai concordi e un approccio quindi esclusivamente filosofico nei confronti di un tema così complesso, sebbene interessante, sembra essere spesso occasione di disputa più che di consenso.
Tuttavia, da qualche decennio a questa parte, e in particolare dagli anni sessanta del secolo scorso, lo sviluppo perentorio delle neuroscienze e delle scienze cognitive, sembra avere impresso al fenomeno della coscienza anche una forte vocazione scientifica. E nonostante le cose anche in campo scientifico non siano ancora molto definite e la ricerca sembra effettivamente essere ancora lontana dal riuscire a risolvere il gran numero di problemi legati alla cognizione e alla soggettività, perlomeno, seppure in un contesto caratterizzato da un emergente e necessario crossing disciplinare, si tende comunque a parlare un linguaggio comune. Siamo effettivamente ancora lontani da una definizione univoca e condivisa del concetto di coscienza, anche se la cosa non deve stupire più di tanto, se si pensa per esempio all’analoga situazione di difficoltà nel definire concetti estremamente complessi come quelli di tempo, vita, intelligenza o evoluzione biologica. Tuttavia, dopo decenni di ricerca, alcune idee sembrano essere oramai abbastanza mature e condivise nell’ambito della comunità scientifica, come quella, fondamentale, in cui mente, materia e coscienza diventano elementi dinamici di uno stesso scenario concettuale e dentro il quale si cercano panorami unitari e sistemici tra molteplici livelli descrittivi possibili.
Alla luce quindi di una scienza, che relativamente a certe aree d’indagine si presenta oggi rinnovata rispetto a vetuste visioni molto più rigorosamente riduzioniste e deterministe tipiche dei secoli scorsi, i concetti di sistemica, complessità ed emergenza diventano più che mai centrali. Sicuramente la coscienza esiste e ha a che fare con la vita, e come, secondo questa logica concettuale, il processo vivente può essere considerato, di fatto, come l’emergenza di un sistema autonomo dall’ambiente, così esistono moltissimi dati ed evidenze, come per esempio tutte quelle che derivano dalle conseguenze delle compromissioni di certe aree del cervello in seguito a patologie e/o traumi, che ci inducono a ritenere che anche la mente cosciente possa essere una proprietà emergente derivante dalla progressiva complessificazione delle strutture neurali. Che esista, infatti, una stretta relazione tra eventi mentali ed eventi cerebrali, è quantomeno fuori discussione. Oggi, nell’ambito della ricerca nelle neuroscienze cognitive, disciplina che oramai integra stabilmente le neuroscienze con la psicologia cognitiva, esistono tecnologie che sono in grado di leggere letteralmente il cervello mentre funziona e che stanno producendo risultati del tutto impensabili soltanto fino a pochi anni fa. Si pensi alla risonanza magnetica funzionale (fMRI), o alla tomografia a emissione di positroni (PET) o ancora alle tecniche di magnetoencefalografia, tecnologie generalmente denominate “metodi brain imaging”, e grazie alle quali si possono ricostruire delle vere e proprie mappe cerebrali in cui determinate aree sottendono a funzioni specifiche. Da questo tipo di ricerche è emerso per esempio che certe parti del cervello sono essenziali per la coscienza, mentre altre non lo sono; diverse aree della corteccia, in particolare il complesso talamo-corticale con interessamento principalmente della zona corticale posteriore che include anche le aree sensoriali (Koch et al. 2016), forniscono diverse modalità di coscienza, mentre l’integrità del cervelletto, per esempio, che pure è costituito da un numero di neuroni superiore a quello della corteccia, non è così determinante. Alcune lesioni corticali possono quindi causare disturbi della coscienza tali per esempio da modificare il comportamento, o rendere il paziente non più in grado di parlare, percepire i colori, o identificare parti di se stesso come proprie (Aguirre et al.1998).
Ma quello che si è capito di fondamentale importanza è che per il manifestarsi di un’attività mentale di tipo cosciente è necessaria l’integrità funzionale tra diverse aree del cervello, il cervello insomma deve funzionare come un tutt’uno. In tutte le compromissioni dello stato di coscienza generale, infatti, sia fisiologiche, come nel caso del sonno profondo senza sogni o delle convulsioni, che patologiche o indotte, come nei casi di coma, stato vegetativo, sindromi neurodegenerative, anestesia, morte cerebrale, si riscontra una perdita di unità funzionale delle attività cerebrali con notevole diminuzione dell’efficienza del flusso d’informazione. Si capirà bene, quindi, come una comprensione sempre più raffinata dei meccanismi anatomo-fisiologici che possono generare o no uno stato di coscienza, sia di fondamentale importanza clinica, ma anche etica, nella gestione per esempio di tutti quei pazienti con gravi lesioni cerebrali che apparentemente non manifestano espressione comportamentale di coscienza. Ma allora, che cosa s’intende effettivamente per coscienza? Lo abbiamo già anticipato, il concetto è ambiguo e sfida la definizione, tuttavia adesso, che abbiamo menzionato alcune situazioni cliniche o fisiologiche in cui è evidente almeno una perdita dello stato di coscienza, forse diventa meno difficile tentare di dare un significato.
Per coscienza, quindi, evitando il rischio di astratte definizioni pericolose o fuorvianti, si potrebbe intendere fondamentalmente uno stato continuo di consapevolezza di sé e della propria relazione con l’ambiente esterno e interno, che descrive il grado di veglia in cui un organismo riconosce ed elabora gli stimoli (Jellinger 2009). In altre parole, uno stato di conoscenza della propria esistenza e di quella dell’ambiente circostante. Una sorta di scenario di base minimo in cui potere inserire poi, a seconda dei casi, tutta una serie di abilità o facoltà intellettive di ordine superiore che possono andare dai vari tipi di memoria, all’auto-riconoscimento fino alla consapevolezza della consapevolezza o auto-coscienza (Zeman 2001). Sembra perciò possa essere sicuramente più appropriato pensare alla coscienza non come a uno schema unico e fisso, ma piuttosto come a una proprietà di espressione di una serie di facoltà mentali e intellettive che possano manifestarsi in modi e livelli diversi.
Ci sono per esempio delle strutture neurali filogeneticamente più primitive della corteccia, come per esempio il tronco encefalico, il sistema del mesencefalo e il sistema limbico, che hanno la funzione di generare eccitazione e risposte emotive di tipo primitivo (Gillette et al. 2009). Giunti a questo punto, quindi, e proseguendo nella logica di questo approccio neurobiologico allo studio della coscienza che sta, di fatto, guidando in maniera del tutto feconda l’attuale ricerca neuroscientifica, appare del tutto lecito e consequenziale introdurre almeno due altri tipi di questione ancora largamente dibattuti: l’origine filogenetica della coscienza, che molto probabilmente è da collocarsi in un periodo antecedente alla comparsa di Homo sapiens, e il problema della coscienza negli altri esseri viventi non umani. I recenti esperimenti di emergenza della coscienza dopo l’anestesia generale (Monti et al. 2013), per esempio, suggeriscono come strutture filogeneticamente antiche nel tronco encefalico e nel diencefalo, con un coinvolgimento neocorticale limitato, siano sufficienti a sostenere la coscienza fenomenica primitiva (Mashour et al. 2013). Il che potrebbe significare che allora anche molti altri mammiferi e gli uccelli, i quali possiedono queste strutture o i loro equivalenti, possono potenzialmente essere capaci di una qualche forma di coscienza (Panksepp et al. 2011), che è poi quello che starebbe emergendo indipendentemente anche dagli studi di etologia e dai numerosi esperimenti di psicologia cognitiva che vengono condotti su diverse specie di animali. Bene, ma siamo proprio sicuri di tutto questo? In realtà nella scienza non esistono quasi mai delle certezze o delle verità assolute, e rimane peraltro ancora da definire, in qualche modo, il notevole “gap cognitivo”, del tutto evidente, che differenzia comunque l’uomo da tutti gli altri animali, anche se dal punto di vista dell’approccio neurobiologico, appare perfettamente plausibile pensare che l’origine e l’evoluzione di una coscienza umana così speciale e unica, che ci dona la capacità di un pensiero astratto simbolico e di una vita mentale complessa, possano avere tratto un notevole vantaggio evolutivo da una peculiare e contingente interazione tra genetica, linguaggio e dinamiche di strutturazione sociale.
Questi, sostanzialmente, alcuni elementi di una sintetica e grossolana narrazione del panorama, in realtà molto più raffinato, che sta emergendo dall’attuale programma di ricerca neurobiologica, il quale, pur dando un’importanza fondamentale al livello fine dei comportamenti neurali e rischiando così di cadere talvolta in facili derive riduzionistiche, non può comunque fare a meno, come dicevamo all’inizio, di un livello di descrizione prevalentemente sistemico. Descrizione in cui anche l’ambiente esterno dovrebbe essere in qualche modo incorporato nel sistema cognitivo in quell’imprescindibile accoppiamento strutturale sistema-ambiente, che caratterizza, di fatto, ogni sistema complesso e ne determina, tramite lo scambio continuo di materia, energia e informazione anche la continua modificazione strutturale e la riorganizzazione gerarchica tra gli elementi. Ognuno dei modelli finora proposti, infatti, e ricordiamo che esistono anche alcune teorie quantistiche, che in realtà hanno poco a che fare con i dati concreti delle neuroscienze, riesce a catturare soltanto una piccola parte dell’immenso problema. Tuttavia, la sempre più stretta convergenza tra scienze cognitive e fisica teorica, sta finalmente proponendo una nuova sfida concettuale che potrebbe portare presto alla costruzione di una teoria generale della coscienza, che, per quanto detto, non potrà comunque prescindere dal rapporto dinamico che inevitabilmente esiste tra una mente e il mondo.
Quel gioco di vincoli e di condizioni al contorno, tipico dei fenomeni biologici, che genera ogni volta il singolare “qui e ora” di un evento, il quale, in quanto unico, irripetibile e irreversibile, non potrà mai essere ridotto a un semplice correlato neurale e di conseguenza non potrà nemmeno essere descritto completamente, né previsto, nella sua particolare espressione soggettiva, da alcun modello o teoria.
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20 commenti
Ringrazio il dott. Vomiero per questo articolo aggiornato sullo stato dell’arte della ricerca sulla coscienza. È possibile dare una definizione non circolare di coscienza – che non ricorra a “consapevolezza”, “conoscenza di sé”, ecc. – e che sia invece una definizione operativa, sperimentalmete controllabile? Questo mi pare un primo grosso problema. Io sono del parere che, su questo punto, una risposta scientificamente soddisfacente potrà essere data solo se riusciremo a produrre robot coscienti.
Ciò però presuppone, a sua volta, lo sviluppo di una “scienza della coscienza” che non lasci gli information scientist a loro stessi e alla loro specializzazione cieca, fatta su circuiti elettronici e placche di plastica, ma nasca da una interdisciplinarità nuova: tra neuroscienze, filosofia, psicologia, fisica, informatica e antropologia. Mettere insieme i linguaggi di queste 6 discipline è una sfida più grande che mettere in una stanza 6 bambini di 6 lingue diverse e sperare che, un po’ alla volta, s’intendano. Ma è l’unica strada. Purtroppo invece, finora, ogni scienziato specializzato va avanti per la sua strada, “nel suo dipartimento”, o compartimento stagno, salvo incontrarsi una volta all’anno in un simposio con gli altri colleghi, dove ognuno fa il proprio discorsetto a giustificare le spese di viaggio pagate dal pubblico.
Grazie prof.Masiero. Concordo con le sue osservazioni. Il crossing disciplinare è sicuramente necessario, come scrivevo anch’io, mi pare però, che da questo punto di vista, siamo oramai sulla buona strada. Riguardo la definizione operativa, non lo so, ma la sperimentazione che si sta facendo nell’ambito della ricerca nelle neuroscienze è massiccia, e io infatti ho cercato di metterne in evidenza proprio alcuni aspetti fondamentali.
Mi sono sempre posto una domanda: ma è il cervello che produce il pensiero oppure è il pensiero che usa il cervello? Il pensiero infatti non può essere definito come una secrezione del cervello perché non è riducibile a materia come invece lo sono tutte le altre secrezioni del corpo.
Buongiorno sig.Bianchi. Da quello che ho potuto vedere nella mia ricerca, l’approccio scientifico allo studio della coscienza è fondamentalmente di tipo neurobiologico. Esiste quindi un substrato biologico, il cervello appunto, che produce l’attività mentale di tipo cosciente. Un assunto inferenziale che, anche se non completamente dimostrato, è molto plausibile e necessario per poter procedere con una ricerca che, di fatto, si sta dimostrando molto feconda e coerente. Certamente poi esistono anche altre ipotesi, a mio avviso però, dal punto di vista logico, molto più audaci.
Dott. Vomiero buon giorno sono d’accordo dal punto di vista scientifico con la sua affermazione però secondo me per poter dimostrare la sola componente biologica bisognerebbe poter interagire biologicamente anche negli aspetti caratteriali e ideologici che ogni individuo aquisisce nel tempo in maniera del tutto autonoma modificando cioè anche le opinioni e le proprie idee ad esempio nel campo della fede o della politica. Una prospettiva veramente inquietante!
Certamente sig.Bianchi, sono d’accordo con lei. Guardi, secondo me, la scienza sperimentale ha un grosso vantaggio rispetto a tutte le altre forme del sapere. Costruisce modelli, sempre più raffinati, basati su osservazioni, con i quali non si ha la pretesa di definire delle verità assolute, ma piuttosto delle strade feconde o meno, allo scopo di fornirci delle forme di comprensione teoriche e operative dei sistemi studiati.
Potrei ripetere la stessa frase, Vomiero, sostituendo la storia che e’ la mia scienza prediletta, alla scienza sperimentale che e’ la scienza prediletta da lei. A seconda dei gusti, un altro metterebbe la letteratura o l’arte o qualsiasi altro studio.
Le strade più feconde per le comprensioni dei sistemi fanno parte del gusto di ognuno.
Secondo il passo di Eccles, più sotto citato da Benigni, l’ipotesi che sia il cervello (fisico) a “produrre” il pensiero è la più audace – nel senso di più assurda – di tutte.
Certo, senza un cervello funzionante come lo stabiliscono i neurologi, non c’è pensiero. Ma come la fisica e la chimica del cervello possano produrre qualcosa di non fisico né chimico come il pensiero appare inconcepibile.
“La coscienza è un fenomeno…”, questa è la proposizione principale del periodo di Sutherland, che regge tutte le altre. Si tratta di un enunciato palesemente falso, giacché, il cosiddetto “enigma della coscienza”, sorge proprio perché la coscienza n-o-n è un fenomeno, di cui questa è una definizione (non mia, catturata con copia/incolla): “Qualsiasi fatto o evento suscettibile di osservazione diretta o indiretta”. Se si accetta la definizione, la coscienza non può essere un fenomeno, per due basilari ragioni:
1°, la coscienza è il “quid” (difficilissimo, se non impossibile, da definire, ma per parlare del quale dobbiamo sottostare all’obbligo della reificazione; tuttavia, sempre nella vigile consapevolezza che la reificazione è un espediente che ci viene imposto dai limiti del linguaggio), l’ a priori che consente l’osservazione, e senza il quale (a priori) nessuna osservazione sarebbe possibile. Chi lo nega, dovrebbe essere capace di osservare in stato di sonno, o di convincere un sasso a osservare qualcosa.
2°, fenomeni e classi di fenomeni, all’interno dell’ambito scientifico, devono essere misurabili, prima o contemporaneamente alla loro matematizzazione, e modellizzazione. La coscienza non ha estensione, né qualità, nè attributi, non è soggetta a mutamento; è o non è. Analogamente alla luce; per quanta fioca, crea una frattura ontologica, prima che fisica, con le tenebre. Quella frattura, per quanto sopra, non potrà mai essere colmata dalla scienza; è un dominio preclusole dai suoi stessi presupposti.
Ci sarebbero altre possibili osservazioni.
Sono d’accordo con Lei, Francesco, che la coscienza non è un “fenomeno”. La coscienza è il tribunale inosservabile da cui si osservano i fenomeni!
Purtroppo per i psicologi, come è Sutherland, è comune confondere coscienza (inosservabile) con comportamento (osservabile). Per questo serve l’interdisciplinarità, in particolare servono i filosofi, a cominciare dall’esigenza di purificare il linguaggio.
Se però la frattura, come Lei la chiama, non può essere “colmata” dalla scienza – ed anche su ciò sono d’accordo – essa può essere resa, forse, in parte consapevolizzata da uno sforzo interdisciplinare. Sarebbe già qualcosa.
Gentile Professore, mentre digitavo il sostantivo “frattura”, mi è venuto in mente quello da Lei usato – nella Sua notevole monografia, “I 3 salti dell’Essere” – “salto”, appunto. Entrambi i termini, che credo siano nel contesto pressoché sinonimi, stanno a marcare una discontinuità di principio; tanto che questo potrebbe essere uno dei casi in cui sia del tutto appropriato l’uso del termine “trascendenza” (termine spesso non esente da equivoci e trappole semantiche).
Ho abbandonato, circa una quindicina di anni fa, lo studio di quell’ambito definito “scienze cognitive”, perché, del tutto prescindendo dagli indiscutibili apporti della neuro-fisiologia e della neuro-psicologia, ci si trovava continuamente a districarsi in una rete di circolarità e petizioni di principio. Strabiliante, come persone di cultura non se ne avvedano, soprattutto considerando la provenienza di molti dall’area analitica.
Lei, molto correttamente, lamenta la divisione in comparti. Una tra le tante prove della rigidità quasi marziale di molta “scienza” universitaria (limitatamente alla nostra questione), un caso per tutti è la scarsissima considerazione per il lavoro, per me geniale, dello psicologo Charles Tart, e la sua prospettiva di “Scienze specifiche a uno stato”.
Aggiungo che l’impossibilità di affrontare fenomenologicamente la coscienza – oltre a quanto esposto in precedenza – è data dal fatto che essa non è relazionabile con alcunché; essendo piuttosto ciò per cui la relazione fenomenologica può darsi.
Buongiorno Francesco m, sempre un piacere sentirla. La sua osservazione è molto interessante, come sempre. Nel caso specifico però ho qualche dubbio che la coscienza non possa o non debba considerarsi un fenomeno. Anche se infatti facciamo ancora fatica a definirla, tutti però sappiamo cosa vuol dire avere un’esperienza cosciente e avere una vita mentale interiore. Io credo invece che dal punto di vista scientifico la coscienza sia chiaramente un fenomeno osservabile, sia in modo diretto che indiretto, tanto è vero che, come riportavo nell’articolo la sperimentazione sul campo è molto vivace. Se non fosse un fenomeno come faremmo a sperimentarla?
“Se non fosse un fenomeno come faremmo a sperimentarla?”
Grammaticalmente parlando, la coscienza è soggetto, tanto che Lei scrive “…come faremmo …” noi, soggetti, a farne esperienza. In realtà, sta dicendo questo: come farebbero le nostre coscienze a sperimentare se stesse? Uhm … non so se si è accorto che le cose si sono appena complicate.
1°, “nostro” è aggettivo possessivo, bene, chi sarebbe l’agente proprietario della coscienza? Oppure, in forma più sfumata: chi sarebbe l’agente per il quale la coscienza è una proprietà o un attributo? Se ve ne fosse uno, ci troveremmo in presenza di due soggetti in uno; il primo la coscienza, l’altro l’agente che ne è proprietario, o di cui la coscienza è una proprietà; che significa una cosa del genere?. Avevo già scritto che la coscienza è caratterizzabile (non definibile) solo negativamente, poichè è priva di estensione. Come si misura un … “non so cosa” non misurabile?
2°, quando si fa introspezione, ciò che si osserva non può essere l’osservatore; ma quel campo fenomenico psichico definito ego. La coscienza permane sempre immutabile, l’ego cambia di continuo, essendo il più volatile e illusorio dei processi.
L’ego Dr: Vomiero e l’ego francesco m sono diversi è irripetibili, legati a due storie che non potranno mai essere replicate; la coscienza che permette di cogliere questi ego, per quanto possa sembrare incredibile e probabilmente incomprensibile e assurdo, è la medesima.
Chi è il proprietario della luce solare?
P.s.
Un osservatore può osservare la propria immagine oggettivata, come in uno specchio, ma quella è, appunto, un simulacro, non l’osservatore stesso. Il fuoco non può bruciare se stesso, Dr. Vomiero.
La scienza esperimenta, non sperimenta.
Io non ho dubbi sul fatto che nessuno può sperimentare (nel senso di vivere) la mia coscienza, al di fuori della mia autocoscienza. Così come non ho dubbi che solo la sua autocoscienza, Vomiero, può sperimentare la sua coscienza.
Gli scienziati poi cosa fanno? non sperimentano le coscienze di nessuno al di fuori delle loro proprie, ma esperimentano (cioè misurano) reazioni fisico-chimiche dei cervelli degli altri.
Sperimentare o esperimentare vengono utilizzati allo stesso modo e hanno un significato ben preciso, per cui dire che la scienza sperimenta è corretto Nadia. Per il resto, se si riferisce al problema filosofico delle “altre menti”, appunto, il problema è filosofico, nella ricerca neuroscientifica mi risulta che il problema non sussista in questi termini, visto che se per ipotesi conoscessi come funziona la mia coscienza potrei plausibilmente inferire su come funzionano anche quelle delle altre persone geneticamente e fenotipicamente molto simili a me.
È vero che se potessi eseguire misure (=esperimentare) sulla mia coscienza, da come funziona la mia potrei plausibilmente inferire su come funzionano anche le coscienze delle altre persone. Nessuno scienziato però fa (né potrebbe fare) esperimenti sulla sua coscienza, ma solo sperimentarne (=viverne) l’esistenza. Da ciò l’unica conclusione che può inferire è l’esistenza di coscienze nelle altre persone.
Aggiungo, ringraziando il dott. Vomiero per il bell’articolo, il punto di vista di John Eccles:
https://alebenigni.wordpress.com/2018/02/22/john-eccles-perche-la-coscienza-non-puo-derivare-dalla-materia/
Grazie a lei dott.Benigni. La prospettiva di Eccles mi sembra interessante, credo però sia viziata alla base da un’aspettativa scientificamente scorretta. Non c’è nessuna legge fisica che potesse prevedere l’origine della coscienza, così come non c’è nessuna legge fisica che potesse prevedere l’origine della vita. Le leggi della fisica infatti descrivono classi di eventi mentre l’origine della coscienza o della vita sono eventi unici, in cui i vincoli e le condizioni al contorno del momento diventano quasi più importanti e determinanti delle leggi stesse. Non dobbiamo infatti mai confondere una classe di spiegazioni generali con il qui e ora della singolarità. E’ questo che ci insegna la biologia rispetto alla fisica, per esempio. Da questo punto di vista, quindi, nessuna sorpresa.
Secondo me, Eccles nel suo riferimento alle leggi della fisica, intende ribadire soltanto che, per essere scientifica, ogni spiegazione riguardante la vita, come per ogni altro fenomeno, deve comunque rispettare le leggi note della fisica. Altrimenti dovremmo più correttamente parlare di spiegazione miracolistica!
Ora, siccome la coscienza non è né un tipo di materia né un tipo di energia, come può essere un “prodotto” di trasformazioni fisiche? Questa, oltre ad altre, è la principale obiezione di Eccles (e di molti altri premi Nobel, come Bohr, Schrödinger, ecc.) al fisicalismo. E, per quanto mi riguarda, rimane tuttora formidabile ed insuperata.
Mi permetto di intervenire
salutando tutti voi di Critica Scientifica,
È moltissimo che seguo con molto piacere e attenzione i vostri articoli e le vostre discussioni, siete ormai diventati una tappa quotidiana nel mio navigare.
Volevo solo scrivere un considerazione a proposito del pensiero in sè che io vedo scisso da quello che invece è lo specchio della nostra autocoscienza.
Il pensiero non può essere in un certo qual modo essere assimilato ad un senso per il fatto che come so di vedere o udire so anche di pensare?
E questo non farebbe dell’intuizione , il sapere di sapere, qualcosa di irraggiungibile al pensiero?
Come l’occhio che sì permette di vedere ma non distingue?
Vedo in questa Intuizione la stessa cosa che il punto rappresenta nello spazio geometrico o l’attimo presente nello scorrere del tempo:
Fondante ma esterno.
Un grande saluto a tutti!