Grotte di Lascaux (17.000 a.C.)
Convergenze scientifiche. Atto II
di Giorgio Masiero
Tecnologie avanzate ed arti nella cosiddetta età della pietra
Nel momento in cui lo colse la morte, era attrezzato per la permanenza isolata in alta montagna con un equipaggiamento di tal livello che oggi, 5.000 anni dopo, noi moderni non potremmo fare meglio, se non forse aggiungendo un telefono satellitare. Per coprirsi, portava berretto e suole in pelle d’orso imbottite di fieno; il perizoma, i gambali e la sopravveste erano in pelli di pecora e di capra (che aveva già addomesticate); le linguette dei gambali in pelle di cervo; i legacci fatti con tendini ed interiora di bovide. Per alimentarsi, teneva una scorta di carne secca di stambecco, un sacchetto di chicchi di farro, del prugnolo da masticazione. Si garantiva il fuoco, con cui arrostire la cacciagione e scaldarsi, per mezzo di due cilindri in corteccia di betulla dove conservava le braci, dopo averle avvolte in umide foglie d’acero. Aveva poi una stuoia intrecciata con erbe palustri, una gerla tessuta intrecciando nocciolo e larice, pece di betulla come collante e funghi come antibiotici da ingerire all’occorrenza. Per il bricolage e l’armamento, s’era dotato d’un set di selci ultra taglienti, d’un punteruolo in corno di cervo col manico di cordelle intrecciate in fibra di tiglio, d’un arco in legno di tasso, di frecce di viburno munite di penne d’uccello atte a stabilizzarne il volo, d’una faretra in pelle di capriolo, d’un pugnale col manico in frassino e di un’affilata ascia in rame massiccio. Infine, per curare l’estetica del corpo e l’identità dell’anima, s’era intagliato 61 tatuaggi sottili di carbone vegetale, eseguiti con perizia tecnica e gusto artistico.
Non so immaginare uno sfruttamento più esaustivo, efficiente e creativo delle risorse del regno minerale, vegetale ed animale presenti nel suo habitat, le Alpi Retiche, conseguito attraverso una conoscenza che non esito a chiamare scientifica, perché elaborata necessariamente in seguito a lunghe, transgenerazionali serie di osservazioni e allo sviluppo di applicazioni intelligenti (e simboliche) delle evidenze emerse.
Era il 19 settembre 1991 quando una coppia di alpinisti tedeschi, scendendo dalla Punta di Finale in Alto Adige verso il Rifugio del Similaun lungo la linea di confine tra l’Italia e l’Austria, scorsero spuntare disotto il ghiaccio a quota 3.208 metri i resti di questo nostro antenato. Allertata dalle notizie provenienti dal rifugio, la polizia austriaca pensò subito a recuperare la salma e le suppellettili, che finirono all’università di Innsbruck.
La mummia dell’Uomo del Similaun, alias Uomo venuto dal Ghiaccio, o Ötzi (dal toponimo del luogo di ritrovamento) era perfettamente conservata ed aveva un aspetto moderno, tanto che si pensò subito a qualche alpinista scomparso in anni recenti. Furono i risultati delle misure al carbonio 14 a lasciar tutti senza parole: Ötzi era vissuto intorno al 3200 a.C., la sua mummia aveva dunque 5.200 anni. A questo punto, le autorità italiane si svegliarono dal letargo per rivendicare i reperti che si trovavano “in territorio italiano a 92 metri e 56 centimetri dalla linea di confine”. Dopo un braccio di ferro durato 7 anni, che assunse subito l’aspetto non tanto d’una contesa tra due stati europei, ma piuttosto d’una lite di famiglia tra le due città tirolesi di Innsbruck e di Bolzano, la mummia di Ötzi riposa oggi in pace nello splendido Museo archeologico di Bolzano, in un locale temperato a 6 gradi sotto zero, aerato con un’umidità controllata e arredato da vetrine contenenti le sue suppellettili “tecnologiche”.
L’Uomo di Similaun e il suo equipaggiamento (Museo Archeologico di Bolzano)
Sarebbe senza senso chiedersi se Ötzi fosse cisalpino o transalpino: all’epoca le Alpi erano l’estrema propaggine meridionale d’un continente che si stava riempendo di popoli stanziali e, allo stesso tempo, la muraglia di contenimento del bacino mediterraneo intorno al quale si stavano affacciando numerose città e prossime grandi civiltà. Piuttosto chiediamoci che ci faceva lassù, in un passo elevato e quasi impraticabile, obbligato solo per chi voglia andare direttamente dalle valli dell’Adige a quelle dell’Inn. La postazione è un ottimo punto d’osservazione verso le due vallate e si presta perciò da avamposto per controllare il transito di animali e nemici. Era un cacciatore alpino? un guerriero? una sentinella? Certamente egli appare una creatura padrona del proprio mondo, un uomo libero nel breve intermezzo in cui una neonata agricoltura ed un’embrionale metallurgia – l’alta quantità di arsenico trovata nei capelli suggerisce che Ötzi si lavorasse in proprio i minerali di rame – integravano la caccia e la pastorizia senza soppiantarle e, soprattutto, senza vincolare i ritmi naturali della vita. Come accadde per i pellerossa nordamericani o i pastori del Corno d’Africa fino alla colonizzazione dell’uomo bianco, Ötzi visse nell’intervallo in cui il cibo fornito dal lavoro della terra con gli strumenti ricavati dalla miniera era ancora un accessorio rispetto ai frutti gratuitamente forniti dalla natura.
Negli immensi spazi selvaggi delle sue Alpi, egli si ergeva ancora solo (o quasi…) al cospetto dell’universo, similmente alla creatura affascinante di cui ci racconta Hemingway in un racconto: “Presso la vetta, c’è la carcassa stecchita e congelata di un leopardo. Nessuno ha saputo spiegare che cosa cercasse il leopardo a quell’altitudine” (Nevi del Kilimangiaro, 1936).
In alto a destra la cima del Similaun, vista dalla Punta di Finale. Sulla sua pendice, lungo il crinale che delimita il ghiacciaio e separa l’Austria dall’Italia, è stato trovato l’Uomo venuto dal Ghiaccio. In mezzo a sinistra, si scorge la valle austriaca Ötztal, che gli ha dato il nome. Si noti anche la valanga di roccia al centro in basso, digradante di detriti verso la valle.
Le analisi cliniche, eseguite dalle equipe mediche di Innsbruck e di Bolzano, hanno rivelato che Ötzi morì di morte violenta a circa 46 anni, un’età ragguardevole in un’epoca in cui l’aspettativa di vita non superava i 30-35 anni. Le circostanze però restano ignote. Ci si può accontentare d’una spiegazione semplice, pensando che, sorpreso da una tormenta d’inizio autunno, sia morto assiderato e che poi le successive nevicate abbiano conservato il cadavere intatto per 52 secoli. C’è però la traccia di una freccia nella scapola sinistra e allora si è portati ad immaginare un atto di violenza da terzi di cui Ötzi sia stato vittima: la punta gli avrebbe danneggiato un’arteria causando il decesso per rapido dissanguamento. Altri esami clinici hanno aggiunto al foro sulla spalla un trauma cranico precedente alla morte, nonché una serie di manifestazioni di stress psico-fisico che l’avrebbero immediatamente preceduta. Un duello con un nemico tribale?
L’ipotesi più affascinante viene da una recente ricerca interdisciplinare di un’università inglese, che oltre alla medicina ha coinvolto studi di fisica, astronomia, storia, filologia e lingue antiche. Tutto è partito dalla decifrazione d’una tavoletta assira conservata al British Museum di Londra, la K 8538, reperita nelle circostanze che ho descritto nel passato articolo. Esamineremo quest’ipotesi sulla morte di Ötzi nel prossimo, conclusivo articolo.
(continua)
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2 commenti
Sono d’accordo con lei. Anch’io non esito a chiamarle conoscenze scientifiche. Grazie prof.Masiero.
Grazie a Lei. Contavo che fosse d’accordo con me.