(… qualche idea contro-corrente)
“La medicina non soltanto imputa categorie discutibili con entusiasmo inquisitorio, ma lo fa con un tasso di errore che nessun sistema giudiziario potrebbe tollerare“.
Ivan Illich1
Che cos’è la malattia? Si tratta di una domanda difficile, che ha portato e porta con sé una gran quantità di problemi: non a caso è un argomento che è scivolato dalle mani a non pochi studiosi di spessore. Nonostante tutto, credo sia possibile avanzare alcune ipotesi e certe osservazioni, magari non molto politicamente corrette.
Ma, prima di tutto: perché discutere di malattia? Questa è invece una domanda quasi banale, alla quale si risponde in poche battute. La grande questione bioetica passa ancora oggi attraverso questo terreno scivoloso: per definire l’uomo, per tracciare i limiti della sua inviolabile dignità (casomai qualcuno fosse ancora di quest’idea, il che non è affatto scontato), occorre definire anche che cos’è la malattia, che cosa significa per un essere umano “essere malato” e se e a quali condizioni questo suo “essere malato” possa in qualche modo incidere sulla sua umanità, ovvero su quel nocciolo (su quella essenza, direbbero i filosofi) che fa dell’uomo un essere speciale, con diritti (e doveri) speciali.
La mia tesi è presto detta. La reificazione della malattia, la sua materializzazione come ente a sé, dotato di una sua garanzia ontologica di cui solo la Tecnica può disporre è stata l’operazione strumentale che ha permesso di ridurre il malato (quindi l’essere umano, nella sua totalità) ad oggetto disponibile alla Tecnica stessa. Con la promessa della riduzione del dolore e della fine della malattia, si è data una accelerazione formidabile al processo che porta al post-umano: ad un essere definito dal Dominio, nell’orizzonte del nichilismo estremo dell’Occidente. Un essere di cui è la Tecnica a decidere su vita e morte, senso e significato della malattia compresi.
E’ una storia che ha molte tappe importanti: una di queste è la regolamentazione dell’aborto. Non a caso la pratica che porta all’uccisione dell’essere-umano nel grembo di una donna, con la scusa di una “maggior sicurezza” nell’esercizio dell’omicidio, viene compiuta negli apparati pensati per curare le malattie: gli ospedali. Ma di quale malattia si tratta?
Si tratta di una contraddizione clamorosa, che pure viene passata sotto silenzio grazie al martellante bombardamento di immagini socialmente imposte e socialmente condivise, che promuovono una visione distorta ed accondiscendente di ciò che l’uomo è – e non può non-essere.
D’altra parte, abbiamo già visto in alcune precedenti riflessioni come questa posizione ontologica sia tutt’altro che pacificamente accettata da tutti e che anzi oggigiorno assistiamo ad un grande successo delle credenze animaliste ed antispeciste (il cui panorama è assai variegato ma che qui per comodità e brevità riduciamo ad un unico fronte), in un generale movimento che assume i contorni di un riduzionismo estremo, volto ad equiparare sostanzialmente uomini e animali, per dominarli entrambi allo stesso modo.
A questo proposito, ci siamo occupati in particolare del tema della sofferenza, osservando che si tratta prima di tutto di un evento mentale e chiedendoci che senso potrebbe avere l’affermare che qualche essere vivente soffre, senza che possa averne coscienza. (Cfr. per es. qui e qui)
Pensare l’impensabile – ovvero che ci siano realtà percepite da un soggetto, senza però che il soggetto stesso ne abbia consapevolezza – è un decadimento logico ed antropologico parallelo a quello che ha sottratto all’uomo il suo destino più evidente, quello che solo dà senso alla sua consapevole umanità. Heidegger lo chiamava “Sein zum Tode” (Essere-per-la-morte)2.
“L’uomo occidentale ha perso il diritto di presiedere all’atto di morire“, scriveva da parte sua Ivan Illich3.
Siamo così lungo la strada che porta alla completa sottrazione della morte dal nostro orizzonte costitutivo: spacciata come atto di libertà soggettiva, per affare privato sul quale solo il singolo deve avere l’ultima parola, la morte è presto diventata questione di diritto degli Stati sulle vite che a parere di qualcuno “non sono più degne di essere vissute” (nel “best interest” del paziente, come si dice oggi: pensiamo al caso Charlie Gard e a quelli che sono seguiti e che – c’è da scommetterci – purtroppo seguiranno più numerosi e più ravvicinati nel tempo, fino ad essere completamente accettati come pseudo-eutanasie messe in atto nell’interesse del malato – pseudo, in quanto perché si possa parlare di eutanasia occorrerebbe almeno la richiesta esplicita del soggetto o almeno il consenso di chi ne fa le veci, elemento non irrilevante, che negli ultimi purtroppo ben noti casi è del tutto mancato).
Ma non solo la morte viene sottratta alla nostra essenza costitutiva per essere consegnata nelle mani della Tecnica: lo stesso avviene – come abbiamo detto – per la sofferenza stessa.
Ed è proprio il tema della sofferenza ad essere più che mai indicato per un passaggio all’altro vastissimo e difficilissimo tema: quello della malattia.
Torniamo dunque alla domanda iniziale: che cos’è la malattia?
Intuitivamente, sappiamo tutti di cosa stiamo parlando: siamo malati, quando in qualche modo non stiamo bene. Ovvero: quando soffriamo o in qualche modo il nostro essere nel mondo è minacciato dall’infermità. Ma anche se questa sommaria idea di malattia sembra intuitivamente accettabile (o comunque perfezionabile con poco sforzo), in realtà una sua definizione filosofica e scientifica è uno degli obiettivi più difficili che si possano immaginare.
Sulla grande Enciclopedia Medica Treccani, per esempio, leggiamo che
“uno sguardo anche superficiale alla storia del pensiero medico mostra chiaramente come nei secoli si siano avvicendate numerose definizioni tra loro contrastanti”4.
Per definire il malato occorre poi richiamare il suo opposto dialettico, ovvero il sano. Ma non basta: occorre anche tirare in ballo il concetto di normalità. Che cos’è “normale” per l’uomo? Essere sano o essere malato?
Sempre l’Enciclopedia Treccani ci informa che
“La normalità di un carattere non può […] essere identificata con un singolo valore, ma va concepita come un intervallo entro il quale viene compresa una rilevante percentuale degli individui appartenenti alla popolazione che è definita sana. Sia nella ricerca biomedica sia nella pratica clinica, l’intervallo solitamente usato per stabilire i valori normali di un parametro in una certa popolazione è quello entro il quale cade il 95% dei soggetti scelti come campione di quella popolazione. In base a questo criterio, non normali e quindi patologici sarebbero i valori che si collocano al di fuori di quelli estremi relativi a tale percentuale. Questo concetto di ‘stato normale’ trova il suo fondamento nell’analisi statistica dei fenomeni e si basa su criteri quantitativi rigorosi e controllabili”.
Dunque “sano” e “malato” avrebbero prima di tutto una loro giustificazione e relativa collocazione concettuale partendo da un’osservazione statistica. Il che è interessante e dà luogo ad altri problemi: se per ipotesi nelle prossime generazioni si dovesse verificare un innalzamento della percentuale che ne so, dei bambini nati sordi, fino a raggiungere (stiamo parlando di esperimento mentale, ovviamente) la percentuale del 95%, allora in base a questo paradigma “normale” e quindi “sano” sarebbe l’uomo sordo?
Un’altra notevole questione teorica che riguarda la malattia coinvolge la sua dimensione ontologica. Dal momento che le malattie non sono oggetti o cose, sorge la questione se di esse si possa parlare allo stesso modo con il quale, appunto, si parla di cose facilmente osservabili.
Qui – riassumendo – abbiamo due posizioni diverse:
“Mentre per i patologi d’impostazione morfologica le varie malattie si identificano con le diverse alterazioni strutturali e vengono quindi distinte in base a tali alterazioni, studiosi di diversa impostazione hanno messo in discussione l’idea stessa che le malattie esistano come tali e che rappresentino entità reali, identificabili e distinte […] Il problema è stato analizzato da molti autori secondo prospettive diverse. Oggi la malattia è concepita come un processo in cui la realizzazione della finalità essenziale all’organismo viene nel suo complesso ostacolata e impedita […]. Le varie malattie, poi, non possono più essere identificate direttamente: esse infatti non sono enti osservabili, ma costrutti teorici, appartenenti al grande edificio concettuale della conoscenza scientifica e, come tali, soggette allo stesso processo continuo di mutamento e di perfezionamento cui vanno incontro tutti gli altri concetti scientifici. Le malattie, però, non esistono solo come costrutti teorici, ma fanno anche parte del mondo fisico reale come sequenze relativamente fisse e costanti di eventi. Queste ultime costituiscono delle alterazioni rispetto al comune evolversi dei fenomeni vitali e riducono, in misura più o meno rilevante, la capacità di un organismo di sopravvivere e di perpetuare la specie”.
Come si vede, sembra possibile pensare a queste due posizioni contrapposte non come vicendevolmente escludentesi, ma come complementari. Quello che però mi preme mettere in evidenza, nel passo citato, è l’accenno alla posizione epistemologica di fondo che vede la scienza come un work in progress senza fine, i cui risultati sono di volta in volta perfettibili e quindi sempre provvisori. Anche – e direi soprattutto – da un punto di vista teorico. Questo ci porta a prendere in considerazione, ancora una volta, il paradigma contemporaneo, a mio parere spesso superficialmente e frettolosamente fatto derivare da quello cartesiano.
Anche per quanto riguarda il tema della malattia, infatti, il paradigma esplicativo (e quindi prima ancora conoscitivo) è ancor oggi quello meccanicistico-positivista che (in questo caso) erroneamente viene fatto risalire a Cartesio. In base a tale modello i fenomeni dei corpi viventi (compresa dunque la malattia) risultano conoscibili solo se sono riconducibili a fenomeni fisici e chimici e quindi in sostanza quantitativamente e matematicamente misurabili. Sostengo che Cartesio è spesso ingiustamente incolpato di essere il principale responsabile di questa concezione in quanto se da un lato è a lui che si deve far risalire l’idea che il corpo umano funzioni come una macchina, dall’altra è proprio a Cartesio che si deve attribuire il merito di aver ribadito che nell’uomo esiste anche la dimensione spirituale e che anzi è l’anima che costituisce più propriamente del corpo l’essenza umana. L’antropologia medica contemporanea ha dunque accolto il dualismo cartesiano mente – corpo, ma in modo distorto, finendo col negare la dimensione ed il ruolo dell’anima, che invece in Cartesio è non solo essenziale per definire l’uomo ma che costituisce anche la sua vera ed unica essenza. Nell’accogliere questo dualismo la medicina moderna ha quindi negato alla mente qualsiasi ruolo di controllo sul corpo e qualsiasi possibilità di influire sui processi fisiologici, finendo con il ridurre l’essere umano a sola “macchina cartesiana” ed annullando in questo modo la sua umanità.
Per inciso, vorrei far notare che aborto ed eutanasia sono diventati pensabili, quindi possibili, e di seguito socialmente accettati proprio nella misura in cui questo riduzionismo antropologico che piega l’uomo alla sua sola dimensione materiale ha avuto successo e si è diffuso. Mentre per Cartesio la prospettiva va rovesciata: il corpo umano funziona perché è mosso dall’anima, mentre ciò non vale per gli altri esseri viventi che sono mossi solo meccanicamente.
Da quanto si è visto fin qui, mi sembra sia possibile concludere che non solo la sofferenza è un fatto mentale, ma lo è l’intera malattia, in ogni sua declinazione. Un fatto mentale, inteso come naturalmente umano: solo l’uomo, infatti, pensa sapendo di pensare. E da qui, subito un’altra considerazione – sulla quale vorrei soffermarmi un attimo: non solo sofferenza e malattia sono prima di tutto eventi mentali, ma proprio per questo sono anche socialmente condizionati. Ed è questo il punto debole, in cui il Dominio si è inserito passo dopo passo, in modo direi impercettibile e visibile solo assumendo una prospettiva diversa da quella comune.
Non si tratta certamente di un’idea nuova, ma credo che valga la pena riproporla, anche e soprattutto per le sue conseguenze sul piano bioetico: che cosa succede quando si accetta implicitamente che la realtà umana (latu sensu) sia solo storicamente determinata?
Dal dibattito filosofico sul tema che ha avuto un punto di svolta negli anni settanta e ottanta del Novecento, sappiamo già che la malattia è un fenomeno socialmente determinato. Da allora in poi, una visione naturalista ed essenzialista della malattia è stata discussa: fra numerosi medici che si occupavano di epidemiologia e di sociologia della medicina, di politica sanitaria o di etica medica, come abbiamo brevemente ricordato più sopra, è andata via via affermandosi l’idea secondo la quale la malattia non è tanto quel fenomeno naturale che avevano ritenuto Ippocrate e i medici dopo di lui, ma piuttosto un fenomeno costruito dall’ambiente sociale, nel quale un certo paziente si trova inserito. In contrapposizione alla concezione naturalistica della malattia, si è venuto configurando un nuovo paradigma della patologia, spesso chiamato paradigma psicosociale, secondo il quale la maggioranza delle malattie croniche della nostra epoca trovano in ultima istanza la loro base soltanto in rapporti sociali.
Osservano Giovanni Boniolo e Paolo Vidali che la prima concezione della malattia sulla base di questa nuova prospettiva è stata esposta dal filosofo e sociologo austriaco Ivan Illich (1926-2002) in un celebre libro, “Nemesi medica. L’espropriazione della salute“, pubblicato nel 1976 sotto l’influsso del particolare clima culturale e politico degli anni settanta5. Infatti, secondo il sociologo viennese, “la malattia non può essere considerata sempre nel medesimo modo, ma deve essere valutata in maniera differente nei vari momenti storici”. Ma non solo. La malattia, “contrariamente a quanto hanno sempre creduto i biologi e i medici, non è affatto una realtà indipendente dalla percezione sociale e nemmeno un’entità con un’esistenza in sé stessa, indipendente dalla percezione del medico o del paziente”.
Dal che deriva – e qui la nostra attenzione deve farsi massima – che ogni singola malattia non è solo un fattore che rientra semplicemente nel mondo dei fenomeni naturali, ma piuttosto una realtà socialmente creata, determinata, interpretata e valutata. Una realtà che oggi sembra essere pericolosamente condizionata dall’ideologia che ha pervaso l’intera società: la fede nel potere salvifico della Tecnica, di cui l’ideologia medica è figlia diretta.
L’argomento con il quale Illich giunge alla sua conclusione, – sempre seguendo la linea tracciata da Boniolo e Vidali – si distacca radicalmente da tutti i discorsi comuni sulla natura della malattia. Mentre un tempo la medicina si proponeva di valorizzare i fenomeni che avvengono spontaneamente in natura, la medicina moderna ha perso ogni contatto con la natura e tende soltanto a rendere materialmente disponibili i sogni della ragione.
Secondo Illich, l’avventura della medicina moderna è cominciata con la Rivoluzione francese, quando la malattia ha cessato di essere un fenomeno privato per diventare un fenomeno pubblico.
“Successivamente, con la Restaurazione, il compito di eliminare la malattia è stato affidato dalla classe dominante a una casta di cittadini, i medici, i quali fecero della malattia un fenomeno tecnico, creando così un’ideologia nella quale i processi patologici acquisivano lo status di entità con un’esistenza indipendente dal malato e dal medico. Dal momento in cui la malattia acquistò la dignità di fenomeno autonomo, vennero creati i grandi ospedali moderni, che mutarono la natura dei luoghi di ricovero, trasformando quelli che erano luoghi di soccorso in luoghi di didattica e di ricerca In tal modo, le malattie vennero inventariate, descritte e catalogate, e i medici codificarono i modi con i quali diagnosticare e curare i vari processi morbosi”.
La malattia – così com’è oggi pensata – è insomma un prodotto della società: ma non si tratta di un prodotto neutrale o naturale, bensì teleologicamente orientato. Detto in altri termini, il modo con cui la malattia viene presentata è in sé uno strumento di dominio sull’uomo.
Secondo Illich – ricordo che siamo negli anni ‘70 – è iniziata un’altra fase di questo processo di trasformazione progressiva dell’idea di malattia. L’intera società è diventata una clinica e i cittadini sono diventati pazienti, cosicché si è venuto a creare un nuovo concetto di fenomeno morboso. La malattia ha cessato di essere un fenomeno naturale, che il medico studia in modo quanto più possibile obiettivo, ed è diventata un prodotto voluto dalla società che utilizza la classe medica come strumento per ottenere i suoi scopi. “È il medico – sostiene Illich — che, diagnosticando una malattia, getta in modo surrettizio e amorale la colpa sulla vittima e stabilisce che è l’individuo che non si sa adattare ad un certo ambiente costruito da altri”6. In questo modo, “l’entità-malattia si può considerare come la materializzazione di un mito politicamente conveniente [alla classe dominante]che assume sostanza nel corpo dell’individuo, quando questo corpo si ribella alle richieste che gli vengono fatte dalla società industriale”7 .
Così che insieme alla malattia è diventato possibile ed anzi si ritiene legittimo eliminare anche l’uomo.
Per concludere questa breve riflessione propongo un passo tratto da Nemesi medica. L’espropriazione della salute, in cui Illich critica la tesi per cui la malattia sarebbe un fenomeno avulso da ciò che accade nell’ambiente sociale in cui si diagnostica:
“Ogni malattia è una realtà creata socialmente. Il suo significato e la risposta ch’essa ha suscitato hanno una storia. Lo studio di questa storia ci consentirà di capire sino a che punto siamo prigionieri dell’ideologia medica in mezzo alla quale siamo cresciuti. […] Le società industriali avanzate hanno tutto l’interesse a salvaguardare la legittimità epistemologica delle entità morbose. Finché la malattia è qualcosa che s’impossessa degli uomini, qualcosa che questi ‘prendono’ o da cui sono ‘colti’, le vittime di questo processo naturale possono essere esentate da ogni responsabilità per la loro condizione. La diagnosi medica di entità morbose a se stanti che prenderebbero forma nel corpo dell’individuo è un modo surrettizio e amorale di gettare la colpa sulla vittima. Il medico, che fa anche lui parte della classe dominante, stabilisce che è l’individuo a non sapersi adattare a un ambiente costrutto e amministrato da altri professionisti, anziché accusare i suoi colleghi di creare ambienti ai quali l’organismo umano non può adattarsi. L’entità-malattia si può quindi considerare come la materializzazione di un mito politicamente conveniente, che assume sostanza nel corpo dell’individuo quando questo si ribella alle richieste che gli vengono fatte dalla società industriale. In ogni società la classificazione della malattia (nosologia) rispecchia l’organizzazione sociale”8.
Credo che sia ovvio considerare che quello che vale per la malattia, vale anche per la morte.
Alessandro Benigni
1 Ivan Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Mondadori, Milano 1977, p. 104.
2 Su questo punto – fondamentale – ci sarebbe molto da dire. In breve, ricordiamo che nella seconda sezione di Essere e tempo Martin Heidegger intreccia la sua analitica esistenziale con le categorie della temporalità e mette in luce il rapporto dell’angoscia con i caratteri ontologici fondamentali dell’Esserci (sinonimo di uomo o dell’esistenza del singolo). Nel lessico heideggeriano l’Esserci – il Da-sein – (l’uomo), si caratterizza prima di tutto per la propria possibilità. Tra le tante possibilità che si offrono all’uomo, ce n’è una che ha delle caratteristiche particolari per l’uomo: la possibilità della morte. Non si tratta di una possibilità come le altre. Innanzitutto è esclusiva di ogni Esserci (io posso morire per un altro, ma non posso morire la morte di un altro); inoltre è la possibilità che rende tali tutte le altre possibilità, cioè rende l’Esserci quello che è: se infatti l’uomo fosse eterno (non fosse mortale), non sarebbe un uomo, perché davanti a sé non avrebbe possibilità tra le quali scegliere, ma avrebbe perlopiù certezze. Io devo scegliere tra diverse possibilità, e da questa scelta dipende il fatto che io sono un uomo, cioè un Esserci, costituito da possibilità. Nonostante questa sua importanza, la morte nel corso dell’esistenza inautentica viene comunemente rimossa o dimenticata. Occorre invece accettare la morte e orientare la propria esistenza in un «essere per la morte», se si vuole realizzare la propria esistenza autentica. Con la decisione consapevole della morte possiamo operare le nostre scelte più autentiche in conformità alla possibilità della nostra essenza di esseri umani finiti. “Essere-per-la-morte” è così un concetto per Heidegger legato strettamente a quello di angoscia: l’angoscia ci «segnala» che la nostra vita è finitezza, che ha come orizzonte la morte, che le nostre scelte possibili hanno sempre lo «scacco» della morte come possibilità incombente in qualsiasi momento della nostra vita. La vita autentica è possibile se nasce la coscienza di tutto ciò: «Il poter-essere autentico dell’Esserci consiste nel voler-aver-coscienza. In conformità al suo senso d’essere, questa possibilità esistentiva raggiunge la sua determinazione esistentiva attraverso l’esser-per-la-morte». Heidegger analizza con molta finezza il concetto dell’essere-per-la-morte, collegandolo alle tre categorie della temporalità (futuro, presente, passato) e alla Cura come totalità di tali strutture. Ed è l’angoscia, come abbiamo visto, che nella Cura opera il passaggio, o le condizioni per il passaggio, dalla vita inautentica alla vita autentica. A questo punto angoscia, vita autentica, vivere-per-la-morte, convergono nel concetto di libertà, cioè nell’individuazione di questa nel-la presa di possesso delle mie possibilità di scegliere, di «progettare».
3 Ivan Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Mondadori, Milano 1977, p. 222.
4 Cfr. Enciclopedia Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/malattia_(Universo-del-Corpo)/
5 Cfr. G. Boniolo, P. Vidali, Argomentare, vol. 5, Bruno Mondadori, 2003, pag. 213
6 Ivan Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, op. cit., pag. 170
7 Ibidem.
8 Ivan Illich, op. cit., pp. 168-170
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4 commenti
Articolo raro, profondo, che fa pensare. È chiaro che nessuno mette in discussione né l’esistenza della malattia, né i progressi della scienza medica e del loro valore per la qualità della vita. Però…, c’è sempre un’altra faccia dietro le più belle imprese del genio umano, nel caso della tecno-scienza c’è soprattutto la spinta all’eterogenesi dei fini, quando l’organo creato per svolgere una funzione si fa organizzazione autoreferenziale al cui mantenimento i vecchi fini sono assoggettati per la protezione di nuovi fini (il denaro, il potere, ecc.). Nel mondo della sanità, come segnalano anche scandali quotidiani – dalle multinazionali farmaceutiche ai primari di ospedali – la deriva è forse più avvertita dalla gente che in altre discipline scientifiche, ma la deriva tecnocratica, di cui lo scientismo è l’ideologia partitica, è universale.
Doppiamente grazie, professor Masiero. Lusingato per l’apprezzamento (lo sono sempre, ma quando viene da studiosi del suo calibro, lo sono anche di più) ma anche riconoscente per la sintesi direi cristallina di tutto quanto esposto. A me sembra che non sia tardi (almeno lo spero) per una discussione che parta dal basso, su temi che toccheranno il destino di tanti di noi e di nostri cari. Il riferimento all’eutanasia e al “trattamento” riservato a bambini forse inguaribili ma certamente non incurabili (Charlie Gard, Alfie Evans, e tanti altri purtroppo) è decisamente voluto.
Pingback: Che cos’è davvero la malattia?
Visto che siamo su un piano puramente filosofico, se si considerasse la nostra vita come una semplice parentesi, si potrebbero evitare tutti questi assilli a dare una importanza eccessiva a questa parentesi esistenziale e lasciare che la natura o il fato faccia il suo corso quando non si riesce a guarire la disfunzione, perche’ la vita si puo’ apprezzare e godere solo coscientemente. L’incoscienza e’ paritetica alla morte e pertanto non vita, dal punto di vista filosofico: se non penso, non sono. Rimango dell’idea che la malattia sia e resti semplicemente una disfunzione del nostro corpo e della nostra mente, e pertanto un fatto oggettivo.
Anche nelle disfunzioni comportamentali e’ presto detto cosa e’ malattia e cosa no: quando si danneggia se stessi e gli altri senza coscienza, e’ disfunzione.