Divulgando la TRE in varie occasioni (conferenze, lezioni, interviste e video-interviste), ho cominciato a riflettere sulle problematicità più ricorrenti in termini comunicativi; la lezione più importante che ho imparato è la seguente: il finalismo non è mai morto, come se Charles Darwin non fosse mai esistito.
Il finalismo, detto in parole povere, è quell’approccio per cui scegliamo di spiegare il passaggio da uno stato A ad uno stato B di un sistema (in questo caso, l’evoluzione da una specie ad un’altra) cercando il fine per cui è avvenuto tale cambiamento.
Ancora oggi, molte persone credono che lo “sforzo” e la tenacia con cui un essere vivente cerca di sopravvivere e di riprodursi siano la causa di un cambiamento nel suo corpo o nel suo comportamento, come quando una persona si iscrive in palestra e attraverso l’impegno e la costanza sviluppa una forte muscolatura, perché i suoi muscoli si adattano all’esercizio fisico.
Questo modo di pensare, simile a quello di Lamarck, venne sostituito da quello di Darwin, fortemente anti-intuitivo, cioè contrario al modo comune di pensare: la lotta per la sopravvivenza non è il fattore che produce il cambiamento, ma è ciò che fa in modo che quei cambiamenti che implicano un vantaggio per la specie permangano, mentre quelli del caso contrario spariscano. È la componente più originale del pensiero di Darwin e che gli si deve riconoscere, infatti è ciò che viene insegnato sia a scuola sia in vari contesti divulgativi (libri e televisione). Volendo completare il discorso, l’aver tolto il finalismo è stato l’atto che ha reso Darwin una figura importantissima per la cultura in generale, per le implicazioni filosofiche e sociali.
In che senso allora affermo che il finalismo è ancora presente? Dobbiamo fare un passo indietro, allontanandoci dalle luci della filosofia, alzandoci dalla poltrona della sala congressi, uscendo dai salotti per tornare nei laboratori. Le teorie scientifiche, prima ancora di essere parte della cultura umana, sono semplicemente strumenti, come il martello, la pinza e la calcolatrice. Dimentichiamo allora le implicazioni extra-scientifiche e concentriamoci esclusivamente sul modo in cui si usa la teoria.
Siccome Darwin qualche ipotesi sull’origine del cambiamento vero e proprio doveva pur darla, all’inizio si parlava semplicemente di “variabilità”: esiste un certo grado di variabilità tra individui di una stessa specie. Da dove nasce questa variabilità? Darwin non poteva avere una risposta per tutto (è morto molto prima della scoperta del DNA, per esempio), per cui questa parte inizialmente era un po’ in ombra. Tale situazione ha fatto in modo che il discorso si spostasse soprattutto sul come applicare il concetto di selezione naturale. Solo che l’assenza di un vero criterio alternativo all’origine del cambiamento in sé (la comparsa delle novità) fa rientrare dalla finestra il finalismo cacciato dalla porta, come spiegherò meglio tra poco.
Non potendo dire “le novità compaiono quando…” ma solo “se capita che compaia una novità…” di fatto si sottrae agli applicatori della teoria uno strumento regolativo (stabilimento di una regola) e resta solo quello “esplicativo” (spiegazione concettuale).
Più precisamente, se considero una specie A da cui è discesa per evoluzione la specie B, il darwinismo mi costringe a chiedermi “quale vantaggio nella lotta per la sopravvivenza si è avuto nel passaggio alla forma B?”. Il guaio (o trappola mentale, se preferite) è che la risposta alla domanda precedente, nella stragrande maggioranza dei casi, la si trova ed è pure plausibile se non proprio semplicemente corretta…ma l’approccio usato di fatto è finalistico, perché solo conoscendo lo scopo da raggiungere per la sopravvivenza della specie A (per es. mangiare foglie o altri animali) potrò capire gli ostacoli che ha dovuto affrontare, che a loro volta ci permetteranno di rispondere alla domanda sul vantaggio nella lotta per la vita.
Di esempi se ne potrebbero fare a centinaia, un caso che ho ritrovato più volte è stato quello di un particolare tipo di orchidea, studiato da Darwin stesso, il cui stilo e ovario (quindi la parte cava, con polline e nettare) erano eccezionalmente profondi. Darwin intuì (e quindi, secondo molti, “predisse”) che doveva esistere un insetto dalla proboscide altrettanto lunga per poter raggiungere il nettare sul fondo di tale fiore, ma che nel farlo raccogliesse molto polline, necessario alla riproduzione del fiore. La successiva scoperta di tale insetto viene considerata una prova del ragionamento di Darwin (fin qui, sono pure d’accordo), ma se tale ragionamento viene considerato anche “evoluzionistico” non sono più d’accordo: Darwin ha analizzato il fiore, conoscendo le sue esigenze ha saputo trovare una funzione (quindi uno scopo) a quella forma particolare e la sua ipotesi è stata verificata…ma è il più puro finalismo. Si spiega un fenomeno grazie alla comprensione di funzioni e fini. Inutile precisare che chi conosce bene Darwin sa che non è un’applicazione del finalismo, come ho detto prima stiamo analizzando l’applicazione della teoria, non la sua struttura logica, originale quanto si vuole.
La più sfacciata applicazione del finalismo avviene quando si ricorre al più usato e comodo binomio del darwinismo, “pressione selettiva” e “risposta adattativa”.
Ora vi esporrò, per semplicità in forma di algoritmo (cioè di ricetta) come si ottengono le “spiegazioni evoluzionistiche coerenti col darwinismo”:
– prendete una specie qualunque, del presente o del passato (per esempio, la balenottera azzurra);
– considerate una sua caratteristica fisica o comportamentale (per esempio, l’eccezionale lunghezza);
– cercate di capire una funzione o scopo di tale caratteristica (in questo caso, può essere la banale ma efficace tecnica di predazione “apro l’immensa bocca, butto tutto dentro e chiudo, sfiato e mangio”);
– trovate l’ostacolo che si oppone per la specie in questione al raggiungimento di tale scopo (in questo caso, il numero finito di risorse e la concorrenza di altre specie predatorie)
– descrivete la funzione trovata prima come “risposta adattativa”;
– descrivete l’ostacolo come “pressione selettiva”;
– elaborate un testo o un discorso in cui l’ordine dei concetti sia l’inverso di quello dato da tale algoritmo, a partire da un generico precursore della specie in esame;
– avete ottenuto la vostra spiegazione evoluzionistica coerente col darwinismo!
Il risultato finale dell’esempio precedente è questo: “l’antenato più recente della balenottera azzurra ha subito la pressione selettiva della concorrenza nella predazione data da molte specie carnivore. Mentre queste ultime basavano la propria sopravvivenza escogitando strategie di caccia basate sulla cooperazione, lo sfiancamento, l’attacco a sorpresa o tecniche analoghe, la balena ha sviluppato come risposta adattativa un considerevole incremento delle sue dimensioni per realizzare una predazione basata semplicemente sulla sua grande mole”. Ecco fatto, non è stato difficile, vero? Trovatemi voi qualcuno che sia capace di negare del tutto che la mole della balena abbia almeno questo vantaggio adattativo. La banale veridicità di queste affermazioni e il loro carattere fortemente intuitivo le rendono subito accettabili da chi le legge, solo che vengono presentate come darwiniane, mentre in realtà si sta applicando un finalismo camuffato.
Il lettore volenteroso potrà divertirsi a scrivere nei commenti un’analoga spiegazione evoluzionistica per l’eccezionale velocità del ghepardo, il mimetismo dell’insetto stecco oppure di una specie a piacere.
Come cambia il discorso se passiamo al Neodarwinismo, con le mutazioni genetiche casuali?
A mio avviso le mutazioni genetiche casuali hanno solo peggiorato le cose, perché affidare a meccanismi “slegati dalla fitness”, che non seguano un set di regole a priori, la comparsa delle novità, non ha eliminato il finalismo ma al contrario, le mutazioni sono viste dai più come una specie di scatola nera che intenta a produrre i cambiamenti dei tratti. Le mutazioni diventano quindi un fenomeno che serve per tenere le nostre coscienze a posto in termini di rispetto della teoria attuale, per poi buttarci a capofitto senza sensi di colpa nel finalismo mascherato.
Da suo più grande avversario, all’atto pratico (non nelle generiche e astratte spiegazioni della teoria) il darwinismo, anziché eliminare il finalismo, è finito col dargli una giustificazione naturalistica, basta solo non chiamarlo col suo nome. Lascio sempre al volenteroso lettore dedurre quanto poco cambia se nella scatola nera delle mutazioni ci andiamo a buttare anche altri tipi di cambiamenti slegati dalla fitness, come quelli epigenetici o dell’evo-devo.
Tornado alle mie esperienze, all’inizio credevo che l’attaccamento al finalismo di molti miei interlocutori fosse dettata da semplice dimenticanza del vero pensiero di Darwin. Ironia della sorte, quando spiegavo in diverse occasioni che la risonanza di cui parlo nella TRE non è sinonimo di “adattamento all’ambiente che cambia”, alcuni restavano un po’ delusi da una chiave di lettura a-finalistica. “Il primo a-finalista è stato Darwin!” è la replica che sono costretto a fare. Magari nella prossima conferenza mi devo portare una lunga barba bianca finta, per far capire meglio cosa sia tipicamente darwiniano e cosa no: ogni volta che indosso la barba, sto divulgando Darwin, niente barba, niente Darwin.
La dimenticanza, purtroppo, non è la sola complicazione, perché non trovo quasi mai una testa “tabula rasa” ma spesso e volentieri una definizione diversa di “darwinismo” da testa a testa: il darwinismo come “evoluzione” oppure come “mutazione” oppure ancora come “selezione del modo migliore di adattarsi”, in quest’ultimo caso mescolando incautamente Darwin e Lamarck. Dimenticanza e confusione di termini, quindi, o meglio, libera interpretazione dei termini.
A chi potevo rivolgermi per risolvere questo problema divulgativo?
L’ideale sarebbe stato imitare chi compie il lavoro di divulgatore per professione.
Qui purtroppo scatta un terzo problema dopo la dimenticanza e la confusione, quello del cattivo esempio: anche quei divulgatori che fino ad un attimo prima, quando parlavano in generale spiegavano per bene l’a-finalismo dell’evoluzione secondo Darwin, magari esaltandolo per tale posizione “coraggiosa”, un attimo dopo, quando passano al caso particolare, ricorrono ad un linguaggio finalistico.
È finalista Telmo Pievani, quando nel parlare delle specie rimaste invariate rispetto al mesozoico (https://vimeo.com/236380355) dicendo che a volta la “strategia” giusta sia restare “fermi” senza cambiare, sfruttando una certa flessibilità, lascia intendere (involontariamente!) che gli animali “scelgano” talvolta di non cambiare per raggiungere il loro scopo principale, la sopravvivenza.
È finalista Marco Ferrari, quando su Focus (numero di Febbraio 2017, 292, p.56) spiega le ragioni del bipedismo degli australopitechi, dicendo che l’avessero raggiunto per poter accedere ai frutti dei rami più alti (di nuovo, inconsapevolmente, si sfrutta lo scopo per spiegare un cambiamento).
È finalista Alberto Angela quando in prima serata spiega la talassemia presentandola come semplice “adattamento” alla malaria, lasciando intendere che il corpo umano sia capace di provocare di sua iniziativa mutazioni genetiche fatte apposta per sopravvivere ad una grave malattia.
Ribadisco che in questa sede sappiamo tutti benissimo che il darwinismo sia a-finalistico, ma stiamo parlando della sua effettiva applicazione, che poi, grazie agli esempi, spesso coincide col contenuto principale di un’opera di divulgazione (cos’è una regola senza un esempio? Cosa resta impresso di più nella memoria?).
“Quando si divulga è normale semplificare mettendo da parte le finezze epistemologiche, devono capirti anche gli inesperti”, questo è ciò che mi sono detto spesso, come replica più scontata.
Purtroppo, non credo che sia questo il caso: sono d’accordo col togliere i tecnicismi, i concetti troppo complicati, pur di spiegare la scienza a chi non è del campo, ma il concetto che scelgo di comunicare non deve essere l’opposto di quello che intendo.
Se chi mi ascolta non capisce niente di matematica ma devo spiegargli la funzione “esponenziale”, gli posso dire che è come una bomba (espansione esplosiva), ma non posso paragonarla per esempio ad un lago (chiuso, relativamente piccolo e calmo): non ho semplificato, ho mentito.
Analogamente, se trasmetto il messaggio che l’adattamento, dal punto di vista materiale, sia qualcosa che in qualche modo si realizza ma non importa come, perché è roba da biologi, mentre uso un linguaggio finalistico per spiegare l’evoluzione, ma un’evoluzione secondo Darwin, allora inganno il destinatario. Gli sto presentando una versione annacquata del darwinismo, non solo scorretta ma anche incoerente con gli elogi del pensiero “anti-intuitivo, coraggioso, staccato dal pensiero dei millenni precedenti”, come si usa dire.
Per questo a volte mi chiedo, dove sarebbe il darwinismo oggi se non fosse mai esistita la possibilità di annacquarlo con un finalismo mascherato?
La mia personale soluzione a tali problemi divulgativi, almeno per ora, quando mi trovo a spiegare di persona l’evoluzione e la TRE, è di segnalare le parole problematiche, principalmente due: “cambiamento” (dannatamente generica, specie se seguita dall’aggettivo “ambientale”) e “adattamento” (dannatamente intuitiva e dal facile finalismo).
Come consiglio che do a me stesso e a chi mi legge, per semplicità, concludo con una piccola lista di regolette divulgative figlie dell’esperienza maturata finora, ad uso sia di curiosi sia di aspiranti divulgatori (non solo professionisti). Chiunque è libero di aggiungerne altre, purché siano regole che tengano conto dei problemi sollevati nel resto di questo articolo.
1) Prima di usare le parole “evoluzione” e “darwinismo”, non date per scontato che chi vi ascolta abbia in testa la stessa definizione che intendete voi.2) Se dite “le specie si evolvono per adattarsi ad un ambiente che cambia”, chiunque vi capirebbe, ma non è affatto un bene.
3) Quanto più la scala ecologica di riferimento è alta (nicchia, ecosistema, ambiente), tanto più le affermazioni banalmente vere (cioè inutili) sono dietro l’angolo (es. “se 100 specie si estinguono per un cataclisma e solo 10 no, le restanti 10 occuperanno le nicchie liberate e si evolveranno…anche perché di sicuro non si evolve una specie estinta e l’evoluzione non ha fretta, non è un fenomeno tra l’oggi e il domani).
4) Quanto più usate la matematica, tanto meno vi capiranno.
5) Quanto meno usate la matematica, tanto più troverete definizioni diverse per la stessa parola.
6) Se usate metafore tratte dal comportamento umano (risposta, strategia eccetera) sappiate che saranno inevitabilmente finalistiche. Potete anche chiamarvi Richard Dawkins, è così e basta.
7) Esempi perfettamente calzanti in un discorso, proprio perché “perfetti”, non possono essere usati in un altro discorso anche se simile al precedente, creereste solo confusione (ergo, basta giraffe e falene colorate, se volete andare oltre le nozioni apprese a scuola).
8) Maggiore sarà il numero di argomenti introdotti da voi, da chi vi asseconda e da chi vi critica, maggiore sarà la probabilità che uno di voi tre dica cose vere insieme a qualche fesseria. Less is more. More is only caciara.
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“Il primo a-finalista è stato Darwin!”
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Naturalmente non in senso assoluto.
“Democrito che il mondo a caso pone”.
“… nihil prohibet naturam non facere propter aliquid, neque facere semper quod melius est. Invenimus enim quandoque quod ex aliqua operatione naturae provenit aliqua utilitas, quae tamen non est finis illius naturalis operationis, sed contingit sic evenire; … dentes, anteriores scilicet, sint acuti et apti ad dividendum cibum, et maxillares sint lati et utiles ad conterendum cibum. Non tamen ita quod propter istas utilitates natura fecerit dentes tales vel tales: sed quia dentibus sic factis a natura propter necessitatem materiae sic decurrentis, accidit ut talem formam consequerentur, qua forma existente sequitur talis utilitas. Et similiter potest dici de omnibus aliis partibus, quae videntur habere aliquam determinatam formam propter aliquem finem.
… a principio constitutionis mundi, quatuor elementa convenerunt ad constitutionem rerum naturalium, et factae sunt multae et variae dispositiones rerum naturalium: et in quibuscumque omnia sic acciderunt apta ad aliquam utilitatem, sicut si propter hoc facta essent, illa tantum conservata sunt, eo quod habuerunt dispositionem aptam ad conservationem, non ab aliquo agente intendente finem, sed ab eo quod est per se vanum, idest a casu. Quaecumque vero non habuerunt talem dispositionem sunt destructa, et quotidie destruuntur;”
Empedocle, citato da Aristotele, nel commento di San Tommaso.
Il paradosso è, guest, che il darwinismo filosofico – quello per cui “il non senso dell’evoluzione, cioè la sua mancanza di una direzione finalistica,
appare a mio avviso limpidamente dalle conoscenze scientifiche attuali” (Pievani) – con la sua pretesa impossibile di addomesticare il metodo scientifico alla propria causa, finisce per auto-distruggersi… nel finalismo!
Un’idea rivoluzionaria potrebbe essere proprio quella di fondare l’evoluzione su basi scientifiche. E’ possibile che nessuno ci abbia mai pensato prima?
Per prima cosa, si potrebbe cambiarne il nome: evoluzione è un termine troppo suggestivo; secondariamente, scegliere come fondatore uno scienziato che ha fatto una scoperta scientifica in campo della genetica; e finalmente, relegare gli inventori di procedimenti meccanici di mitopoiesi alla letteratura fantastica.
😉
L’idea di cambiare il nome, per rifondare su basi scientifiche lo studio dell’abiogenesi e dell’origine delle specie, ha costituito proprio nei giorni scorsi il tema di un mio confronto con alcuni amici scienziati e professori. La mia proposta era di usare il termine “trasformazione”, per ribadire lo stacco dal darwinismo e tenere conto dei “salti” (in termini di epoche temporali, ma soprattutto di intere reti genomiche, che caratterizzano la differenza tra una specie e l’altra e che non ammettono il continuismo di passaggi intermedi “viventi” – ciò che sta nella definizione di “organismo”), ma i miei amici – che scrivono nelle riviste scientifiche – hanno detto che la battaglia contro il paradigma va condotta meglio non sui nominalismi, ma sulla ricerca dei meccanismi concreti sui quali può essere avvenuta la macro-evoluzione interspecifica, che nel darwinismo resta miracolistica.
Nella gravitazione Einstein ha rimpiazzato Newton senza cambiare la parola, anche se nella relatività generale non ci sono più, nemmeno alla lontana, i vecchi concetti di forza istantanea a distanza della gravitazione originaria.
Io sarei d’accordo sia con lei, mi pare che il termine “trasformazione”possa rappresentare un’efficace alternativa, si tenga presente che anche Darwin stesso non usò mai la parola evoluzione, e sia con i suoi interlocutori, in quanto certo, al di là dei nominalismi, nella scienza certamente poi contano i “fatti” (evidenze scientifiche).
Sì, contano le evidenze empiriche. Non i termini usati, dott. Vomiero, quando ci si intende sul loro significato. E le evidenze sono, a mio parere (e di tanti altri), che l’evoluzione può essere avvenuta solo per strappi, mentre Darwin (e con lui il commentatore Luca, per esempio, insieme a tutta la didattica di massa) parla di continuità. E se è avvenuta per salti, le mutazioni casuali e la selezione naturale contano davvero poco. Questo è davvero il punto che mi divide dai darwinisti e per cui giudico che siamo a zero, come 2000 o 150 anni fa, sull’origine della vita e delle diverse specie.
Seguendo le discussioni dei giorni precedenti, prof. Masiero, anche a me è venuto in mente che un chiarimento terminologico aiuterebbe molto la comunicazione in questo campo.
Ho pensato, ma chiunque ne sappia di più mi corregga, che un termine chiave da rispolverare (perché già presente in biologia) “speciazione”, che molti usano come sinonimo di evoluzione. Solo che ne amplierei l’uso da “nascita di una nuova specie” a “nascita delle specie da altre specie” In questo modo si potrebbe dire che Darwin è stato tra i primi (anche se non il primo) a teorizzare la “speciazione” di tutti i vivienti. Così potremmo parlare di “evoluzione” come del meccanismo con cui lui spiegava appunto questa “speciazione”.
Così si risolverebbero molte incomprensioni ad esempio questa:
I darwinisti sostengono che la genetica ha confermato l’evoluzione.
Alcuni antidarwinisti sostengono che la genetica ha smentito l’evoluzione.
Invece si può affermare che la genetica ha confermato la “speciazione”, dimostrando la parentela tra le specie viventi (già suggerita ai tempi di Darwin dall’anatomia comparata e da studiosi come Cuvier – anche se Cuvier poneva un limite a livello di philum). Il fatto è che molti per “fatto dell’evoluzione” intendono proprio la speciazione.
Al tempo stesso si può affermare che la genetica ha messo in crisi l’evoluzione come meccanismo graduale.
Un termine alternativo potrebbe essere “cognatismo”, inteso come “ipotesi di un rapporto di parentela tra tutte le specie viventi”.
In un prossimo articolo mostrerò come evidenze genetiche recenti mettano in dubbio la “parentela”, nel senso di discendenza, tra le diverse specie. In fondo i dna delle diverse specie sono programmi scritti in un linguaggio comune. Ma due diversi programmi scritti in Pascal non derivano necessariamente l’uno dall’altro, anzi non lo sono quasi mai (eccetto che in update diversi dello stesso software).
E sarà un articolo molto interessante ma, per quanto seri siano i dubbi di cui lei è a conoscenza, ci vorrà una spiegazione alternativa della biodiversità molto credibile per abbandonarne una che si adatta così bene ai dati attuali. L’esempio che lei fa dei programmi scritti in Pascal è utile a riflettere. Due programmi scritti in un linguaggio di programmazione non sono necessariamente derivati uno dall’altro (o proposito “derivazione” può essere un altro buon termine per indicare l’ipotesi evolutiva”. Ma se ho milioni di programmi, di cui alcuni differiscono per poche righe finali, altri per qualche caratteristica in più, e tutti hanno caratteristiche di base simili, allora è abbastanza naturale accorparli e considerarli in qualche modo correlati.
Le propongo altre due analogie. La prima è filologica: i manoscritti di un testo antico che differiscono per una caratteristica sola sono considerati giustamente come derivazioni di un testo originario. Se più modifiche/refusi sono presenti e più versioni di un testo sono conservate è giustamente considerato più antico quello che contiene meno variazioni rispetto ai manoscritti che si suppongono suoi “discendenti”
È interessante anche l’analogia con la linguistica (e infatti gli studi di linguistica comparata andavano per la maggiore ai tempi di Darwin e possono aver contribuito a questa ipotesi biologica): l’italiano è considerato discendente del latino insieme alle altre lingue neolatine per le caratteristiche comuni che hanno. Se per ipotesi non sapessimo nulla di storia e trovassimo un testo in italiano, uno in francese uno in latino e uno in greco, con gli strumenti della critica scientifica saremmo in grado di dire che il terzo è un antenato comune dei primi due, mentre per il quarto bisogna ipotizzare un diverso e più antico antenato comune. La paleontologia ha seguito più o meno gli stessi ragionamenti.
Comunque si può continuare questo discorso quando avrà pubblicato l’articolo.
Ed io Le faccio un altro esempio, Zimisc, di “specie” fisiche distinte, che pur usano lo stesso “linguaggio” composto, non di 4 lettere com’è per il dna delle specie biologiche, ma di 3 lettere (n, p, e), e che non sono affatto derivate l’una da un’altra. Lo cito perché è ad una “evoluzione” fisica simile a questa, molto più complicata di quella ingenua (antropomorfica e finalistica, nonostante i buoni propositi) immaginata da Lamarck o Darwin, che io penso per la biologia.
Si tratta delle migliaia di specie di isotopi diversi, raggruppati nella Tavola di Mendeleev in un centinaio di “elementi chimici”, e che si differenziano solo per numero di protoni (p), neutroni (n) ed elettroni (e). La formazione di questi isotopi avviene nelle caldere stellari, come ho descritto in un articolo, nel tempo di una decina di miliardi di anni, attraverso quel processo ben noto ai fisici che si chiama nucleosintesi stellare.
Anche se gli isotopi più complessi compaiono dopo quelli più semplici (come avviene per le specie biologiche), nella nucleosintesi la speciazione isotopica non è certo rappresentabile in un albero filogenetico!
Io però credo prof.Masiero, mi permetta l’appunto, che gli esempi usati come termine di paragone tra sistema vivente e sistemi della materia inanimata, siano difficili da trattare perché facilmente fuorvianti. Mi pare che di ciò se ne sia occupato molto bene a suo tempo il biofisico Mario Ageno. Il punto è che la vita, una volta che si è creata, si può considerare fisicamente come una forma di emergenza, e ciò significa che il nuovo sistema avrà acquisito delle proprietà che sono sì compatibili con le proprietà chimiche e fisiche della materia inanimata, ma non potranno più essere da queste deducibili, in quanto la natura stessa del sistema e le sue relazioni con l’ambiente si saranno modificate in modo irreversibile. Rieccoli qua, quindi, di nuovo i soliti concetti di sistema complesso, emergenza, storicità e contingenza, dei quali peraltro, io parlo spesso. Perchè alla fine questa è la sostanza della biologia e questa è anche la sostanza descrittiva dell’intera storia evolutiva.
Non capisco. L’emergenza di nuove proprietà nei sistemi complessi non è una caratteristica del vivente, ma anche dell’inanimato. Così come la contingenza.
La vera questione, pare a me è quella di capire perché l’albero – il tipo più semplice di grafo matematico – sarebbe adeguato a spiegare la speciazione vivente, quando non lo è neanche per le strutture molto più semplici della speciazione isotopica (che è inanimata).
Insomma: i biologi evolutivi come Ageno & C usano l’albero (con sviluppo a 2 rami) perché è soggettivamente la matematica più facile o perché è oggettivamente la matematica scelta dalla natura?
In ultima analisi il sistema ad albero è giustificato, nel caso dei viventi, dal fatto che oggi escludiamo la generazione spontanea. La escludiamo anche per i viventi più semplici, tanto più per quelli complessi. Da ieri sto cercando di immaginare uno scenario in cui i viventi si siano formati indipendentemente senza antenati comuni (almeno da livello di famiglia in su), ma non riesco a concepire ne’ dove ne’ come ne’ quando.
Se si tentasse un’analogia con la nucleognesi stellare ciò implicherebbe che strutture biologiche (catene di acidi nucleici, proteine, tessuti) potessero reagire tra loro in modo diverso che con l’accopiamento. Che in un qualche ambiente potrei, che so, fondere materiale biologico di un’anatra e un di un castoro per ottenere un ornitorinco.
Se invece pensassi ad un’analogia con la formazione dei minerali, dovrei immaginare delle megastrutture biologiche, dove i principali gruppi di viventi si sono “cristalizzati’. Ma questo sarebbe come immaginare un brodo primordiale apposito per ogni gruppo di viventi (uno per imenotteri, uno per i felini…). Insomma è tutto molto più complicato e assurda di un albero dei viventi.
Il Suo problema d’immaginazione, Zimisc, dipende forse dalla persistenza a ragionare sulla base della gradualità, della continuità. La gradualità è falsificata dalla paleontologia (e confutata dalla matematica), per questo Damiano e Giuliani si sono inventati la TRE.
Io escludo come Lei la generazione spontanea e ammetto l’esistenza di antenati comuni. Anche la speciazione isotopica non è “spontanea”, e con l’eccezione del capostipite, l’idrogeno, tutti gli isotopi hanno antenati comuni, man mano che aumenta il peso atomico. Però il grafo non è qui un albero (cioè un grafo connesso e non orientato) come, contro l’evidenza empirica, pare a me, è l’albero filogenetico del paradigma evoluzionistico corrente.
Uhm allora ciò che mi sfugge è la differenza tra l’avere antenati comuni e l’essere imparentati. E anche cosa intende lei per antenato comune. Una specie definita e (teoricamente) rintracciabile dai paleontologia? E inoltre, potrebbe fare un esempio di come rappresenterebbe lei il grafo della comparsa dei viventi? Un darwinista prende per buona la schematizzazione di Linneo aggiungendovi una linea temporale (per quanto alcuni aggiustamenti siano stati fin da subito necessari – prima di tutto l’eliminazione del regno minerale). Al contrario un creazionista rappresenterebbe tante linee parallele senza contatto, come le frange di una tenda (in realtà, è vero, anche Linneo era creazionista ma credeva con i suoi raggruppamenti di ricostruire le idee da cui era partito Dio per creare le specie reali).
Se mi illumina su questi due punti questo credo di poterla capire meglio, dopodiché potrò rifletterci ed eventualmente tornare sull’argomento in un post più a tema, non voglio inflazionare troppo i commenti qui.
Dimentichiamoci linearità e continuità. Dimentichiamoci il fenotipo (che non può agire sul genotipo!).
Pensiamo solo a livello fisico-chimico, di dna. La speciazione avviene nella formazione dei (forti) legami 3’5’ fosfodiesterici lungo la sequenza degli acidi nucleici. Qui, chimicamente, i monomeri polimerizzano in ordine; e qui, ciberneticamente, sta la formazione del programma in
quanto determinazione di una sequenza ordinata di istruzioni per la produzione d’una proteina e poi con le altre sub-routine del polimero per la sintesi successiva di biofunzioni concorrenti allo sviluppo d’un organismo.
Io chiamo antenati comuni di due specie esistenti quelle specie estinte i cui dna hanno partecipato (per meccanismi fisici ancora ignoti. La risonanza?) alla formazione di interi tratti funzionali, come geni e reti di geni, dei dna delle due specie.
Credo di capire vagamente, forse ci sarà occasione di spiegarsi meglio in futuro. Il suo punto di vista mi ricorda un libro in cui mi sono imbattuto tempo fa, piuttosto datato ma il cui autore era un serio biologo. Se non lo ha letto glielo consiglio caldamente:
https://www.amazon.it/teoria-semantica-dellevoluzione-Marcello-Barbieri/dp/8833900010
Anche secondo questo autore l’accento era posto soprattutto sui fenomeni molecolari. Nonostante il titolo, più che sull’evoluzione si concentra più sulla abiogenesi e sulla formazione dei primi batteri. Lo spunto più interessante è il ruolo di primo piano dato ai ribosomi nella “progettazione” della cellula (in un certo senso sembra ridurre DNA e RNA a una specie di “memoria di lavoro”). Inoltre è molto ben scritta anche la prima parte in cui ripercorre le teorie finora formulate sulla comparsa della vita e la loro costruzione.
P.S. Noto ora che nella copertina compare il modello ad albero che lei contesta. Ma le assicuro che ha poco a che fare con il discorso contenuto all’interno.
La ringrazio. Ammiro molto l’originalità delle ricerche di Barbieri.
Attenti con la nozione di “emergenza”: la compatibilità del nuovo sistema con le strutture che lo compongono in realtà esprime l fatto che nulla nel nuovo sistema può essere in contraddizione con il sottostrato che lo compone, né tale sottostrato si comporterà mai al di fuori delle proprie leggi. La rottura di cui si parla è nominale non essenziale: cioè sulla scelta degli strumenti di misura da inventare e del linguaggio che vi è correlativo. In altre parole se parlo di dinamica di particelle mi invento strumenti che misurano posizioni e movimenti, se guardo un gas invento strumenti misura della temperatura e della pressione: ma mai il comportamento di un gas indurrà le particole che lo compongono ad agire fuori dalle leggi della dinamica.
“Emergenza” vuol solo dire che si decide, per varie ragioni, di inventare e di scegliere altri e nuovi strumenti di misura, e quindi di mito “scientifico” esplicativo e operazionale: ma in nulla può cambiare il reale in quanto tale, il quale è sempre costituito degli stessi elementi costitutivi.
Scusate questo parziale OT rispetto a quello che state discutendo, ma vorrei riallacciarmi, passando dal concetto di emergenza, a quanto scrito da Vomiero in un post precedente quando scriveva «ritengo che il pensiero scientifico contenga già al suo interno un naturale pensiero filosofico», quasi a dire che tale pensiero filosofico sia, in un certo senso, qualcosa di “asettico”, di puramente logico: nulla più di un ragionamento condotto rettamente a partire da certe evidenze (almeno, così m’è parso di interpretare lo scritto di Vomiero).
Ebbene, la nozione di “emergenza” è intimamente legata ad altri concetti (*), primo tra tutti quello di “fisicalismo ontologico” riducibile ulteriormente a quello di “monismo ontologico”. D’accordo o meno che si possa essere con siffatte ontologie una cosa è certa: le dottrine sottese a certi concetti viepiù utilizzati in ambito scientifico ed epistemologico sono tutto meno che il risultato di un naturale (nel senso di spontaneo) pensiero filosofico, ma si rifanno a precise concezioni metafisiche quando non a delle vere e proprie cosmovisioni. Ciascuno tragga le proprie conclusioni.
(*) Come mostrato da el-Hani & Pereira in ‘Higher-level Descriptions: Why Should We Preserve Them?’ in Peter Bøgh Andersen, Claus Emmeche, Niels Ole Finnemann, and Peder Voetmann Christiansen (eds.)
Come sempre mi fa riflettere su concetti che dò per scontati. Avrei avuto bisogno di un Feyman o un Masiero tra i miei docenti.
Il n. 1 a livello mondiale della divulgazione dell’evoluzionismo, Richard Dawkins, fu colto con le “mani nella marmellata” del finalismo già in un famoso articolo di Enzo Pennetta di 7 anni fa: http://www.enzopennetta.it/2011/06/dawkins-e-la-scalata-al-monte-improbabile/
In sintesi, la confutazione matematica di Schützenberger al darwinismo è tutta qui: per superare l’impotenza del caso ad integrare la serie delle micro-evoluzioni nel DNA necessarie a comporre una macro-mutazione interspecifica il neodarwinista si affida, di prima botta, con le masse, “agli infiniti corridoi bui” dei tempi cosmici e a tante altre metafore in cui sono esperti i romanzieri; e di seconda botta, con gente che sa eseguire il calcolo delle probabilità nel tempo fisico di 10^17 secondi, al finalismo.
Darwinismo e Intelligent Design sono due storielle uguali ed opposte: delle cause aristoteliche, quella finalistica non appartiene al metodo scientifico.
Questa bella e raffinata analisi di Htagliato mi trova molto concorde. Direi un’ottima lezione di divulgazione del darwinismo, in cui si mettono in risalto le principali criticità. Perchè come ha detto lei, molto correttamente, l’idea sottile del rivoluzionario pensiero di Darwin è in realtà molto contro-intuitiva, indipendentemente secondo me dai tempi, essendo probabilmente di fatto, proprio una questione antropologica. Siamo fatti così, vediamo istintivamente scopi e finalismi anche dove non ci sono, ci sono molti studi di neuroscienze e psicologia cognitiva che mostrano questo comportamento intrinseco della natura umana, probabilmente retaggio di un qualche vantaggio evolutivo ottenuto dai nostri antenati preistorici. Io direi Htagliato però, che i problemi di comunicazione che lei incontra nel parlare di evoluzione siano abbastanza ubiquitari per tutti quelli che vogliono parlare di scienza in generale. E’ per questo che poi un Pievani può anche sembrare un finalista, anche se le assicuro che è esattamente il contrario. Essere costretti a semplificare troppo può comportare dei rischi. Il punto è, secondo me, che l’habitat in cui viviamo e cresciamo è di fatto molto tecnologico, ma molto antiscientifico, è questo il problema. Siamo pieni di miti e pregiudizi sbagliati, estendendo per esempio concettualmente i contenuti del recente articolo di Masiero dalla scienza alla società, basta guardarsi attorno per capirlo. Astrologia, omeopatia, magia, ciarlataneria, medicina alternativa, gioco d’azzardo e superenalotto, antropocentrismo spinto, e chi più che ha più ne metta. E mi fermo qui, piuttosto, Htagliato, a parte la sua interessante attività divulgativa della TRE, le volevo chiedere, a che punto siete presso la comunità scientifica specialistica? C’è qualche risultato positivo? Grazie.
È vero, dott. Vomiero, che Pievani è tutt’altro che finalista. L’errore di cui io l’accuso – un errore grave, per un filosofo – è di credere di ricavare dalla scienza l’assenza di finalismo (per corroborare la sua concezione filosofica a-finalistica), mentre la scienza esclude il finalismo a priori, nel suo metodo, e quindi sul finalismo la scienza può solo tacere. Come un macellaio non può vendere pesce.
Io, che sono metafisicamente finalista, lascio in pace la scienza su questo tema. I “creazionisti” dell’ID invece fanno l’errore uguale e contrario di Pievani, credono di ricavare dalla scienza la prova di finalismo.
Questo che lei tocca, prof.Masiero, è un punto molto importante dal punto di vista epistemologico, secondo me, e che forse evidenzia dove le nostre concezioni di scienza un po’ divergono. Lei infatti, giustamente sottolinea, anche quando per esempio io parlo di scienza in articoli o commenti, come io stesso in quei momenti stia facendo filosofia. Ecco, io questa radicale suddivisione tra scienza e filosofia non tendo a farla, perché ritengo che il pensiero scientifico contenga già al suo interno un naturale pensiero filosofico. Io per esempio credo che tutti (o quasi) i biologi che studiano l’evoluzione siano degli a-finalisti, lei dirà perché magari fanno della filosofia che non compete loro. Io invece direi che questo, secondo me del tutto lecitamente, deriva dal fatto che tutte (o quasi) le evidenze scientifiche di cui disponiamo nell’ambito del programma di ricerca ci fanno ritenere plausibilmente che… deduzione filosofica che diventa anche scientifica e viceversa, perfettamente normale dal mio punto di vista, nessuna invasione di campo. E lo stesso dicasi riguardo il problema opposto. Perchè la scienza allora, come di fatto poi succede, dovrebbe accettare di essere per così dire “tenuta sotto controllo” dalla filosofia, in questo caso chiamata epistemologia? Probabilmente anche proprio perchè un bravo macellaio non è detto poi che non sappia vendere anche pesce. Non crede?
Un macellaio può vendere pesce, ma lo farà in due botteghe diverse con diversi allestimenti. Così un biologo può il filosofo e viceversa, ma applicherà in un caso il metodo sperimentale e tanta matematica, nell’altro solo la ragion pura.
Se confondiamo la filosofia con la scienza, io da credente Le dico – come san Paolo nella lettera ai Romani – che tutta la creazione, cosmica e biologica, è lì a dimostrare l’esistenza di Dio. Ma non passerò mai la linea rossa.
Bellissima spiegazione e messa in evidenza di quel che costituisce l’essenza della tautologia fondante del mito evoluzionistico: l’uso di un finalismo nel discorso mitologico come filo narrativo.
In effetti, il discorso scientifico è, per defnizione, un discorso, non solo, ma anche un discorso strutturato che tenta di mettere in evidenza una ragione o un senso a quel che avviene: in questo esso è mito, nell’accezione originaria di questo termine che vuol dire “parola” (esattamente come logos, ma con un accezione discorsiva che logos non ha).
Il mito non necessita di sposare la realtà dell’oggetto di cui racconta l’avvenire, ma solamente di renderlo operazionalmente accessibile nel quadro del linguaggio nel cui si esprime: linguaggio poetico, matematico, grafico, etc. È un discorso finalizzato ad essere espresso in quel contesto linguistico: sottolineo “finalizzato” perché come ogni attività ed invenzione umana esso ha un fine, ad esempio in questo caso l’essere compartito con altre persone che possiedono tale linguaggio.
Raccontare un mito sul balenottero azzurro sarà quindi sempre l’espressione di una tautologia che avrà le sembianze di un discorso fnalistico. In altre parole è intrinsecamente impossibile al discorso scientifico nel quadro della prorpia competenza (a) affermare se un evento preso individualmente è fnalistico oppure no, (b) esprimerlo in termini mitici altri che finalistici.
Di conseguenza qualunque affermazione circa l’esistenza di una finalità oggettiva o la sua assenza non è dell’ambito scientifico in quanto tale: chi travalica in un senso o nell’altro è semplicemente disonesto intellettualmente (a prescindere dalla responsabilità personale che una persona specifica ha nello sviluppo della propria disonestà che è un tutt’altro discorso: alcuni lo sono di buona fede per mancanza di preparazione ed i rigore di pensiero o lavaggio di cervello).
Ma il discorso scientifico non può esimersi da un discorso mitico finalistico che gli è congenitale a costo, nei casi estremi come quello evoluzionistico illustrato da Htagliato, di esprimere banali tautologie: uscirne vuol dire abbandonare il discorso mitico per quello logico ( del logos), cioè cambiare paradigma cognitivo e fare filosofia seria.
Anche la legge la più universale che sia “dS >0”, il mito di tutti i miti, della quale anche la TRE è partecipe, esprime in realtà una tautologia che al contempo indica una direzione e cioè dove si trova il fine dell’universo e cioè dove e quando S è massima. In realtà nulla ci dice, di per sé, circa il fatto di sapere se il mondo reale è oppure no finalistico: il logos del mondo reale è fuori dal suo campo di investigazione ed è solo del filosofo e del suo discorso che è di per sua natura logico e non mitico.
Caro Achille intanto complimenti per il tuo articolo magistrale !
Poi due considerazioni sulla divulgazione riferite alla mia esperienza di divulgatore della statistica. Hai perfettamente ragione quanto alla necessità di bilanciare matematica (poco fraintendimento difficile comprensione) e senso comune (molto fraintendimento facile comprensione) credo però che (magari con la statistica viene più facile..) esista la possibilità di arrivare a un minimo condiviso di formalismo che permetta di salvare capra e cavoli e che questo minimo sia il livello a cui si situa quello che in statistica si indica come non trivial determinism. È il livello del coefficiente di correlazione delle semplici funzioni trigonometriche e dei concetti di distanza tra vettori. Ora la mia esperienza mi suggerisce che questi concetti profondamente compresi garantiscono un confronto rigoroso sulla gran parte dei fenomeni biologici…sotto questo livello c’è il fraintendimento sopra smettiamo di capirci tra diverse discipline. Scopo della scuola dovrebbe essere fare arrivare gli studenti a questo livello prima di iniziare gli studi universitari.
Ed ecco la bella spiegazione finalistica di Marco Ferrari su Focus di cui parla Damasco nel suo articolo:
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Penoso.
Interessante, ma credo di non riuscire ad aderire, intanto il discorso del macellaio secondo me non tiene un gran che, cosa impedisce al macellaio di vendere pesce? L’abitudine dei clienti ad acquistarlo in pescheria? Il fatto che abbia più conoscenze a Tombolo che a Chioggia? Perchè ci sono leggi sanitarie che lo impediscono? Secondo me nulla ma propro nulla impedisce ad un macellaio di inventarsi un nuovo negozio, la macelpescheria, poi non riesco condividere totalmente l’impostazione del “metafisicamente finalista che lascia in pace la scienza sull’argomento”, credo di capire dove sta il problema: la scienza non ha i mezzi per dimostrare nulla di metafisico per cui non se ne parla, però se non può dimostrare il finalismo non può nemmeno dimostrare la sua assenza. Io, da Wagneriano (Richard, non Adolph) sono per l'”unità” (Wort, Ton, Drama) e non riesco ad accettare completamente la separazione fra fisica e metafisica, cioè, la capisco benissimo ma mi disturba.
È vero però che sebbene le parti componenti possano non esser separabili, pena il ritrovarsi un’unità mutila, esse possono tuttavia esser distinte. E, nel caso in oggetto, vanno necessariamente distinte se non vogliamo incorrere nuovamente in quella confusione esiziale – ove affondano le radici dello scientismo moderno nonché le ragioni che condussero all’infelice questione galileiana.- che nella veteromodernità fecesro sì che la nascente scienza della natura fosse scambiata per una nuova filosofia naturale, invece che riconoscere nella prima una “nuova” (almeno per certi versi) impresa.
Mi pare che non è questione di unitá o separazione ma di gerarchia. Per far scienza prima dobbiamo definire cosa sia scienza è per far questo dobbiamo usare la filosofia. Perciò la scienza potrá fare quello che la scienza avrà definito.
Posto che la gerarchia si dà nell’unità, bisogna precisare che la gerarchizzazione delle discipline non significa “asservimento” dell’inferiore rispetto alla superiore cosicché quella deve fare ciò che ha preventivamente stabilito questa. Infatti i termini “superiore” o “inferiore”, qui, non si riferiscono di certo all’autorevolezza o all’importanza, bensì al grado di astrazione formale rispetto al quale si definisce il genere di oggetti proprio dell’indagine di ciascuna scienza.
Così ogni scienza superiore è fondativa rispetto a quella inferiore, ma ogni disciplina è autonoma rispetto alle altre disponendo di mezzi di indagine e principi suoi propri. Così, scienza fondativa per eccellenza è (o meglio, sarebbe, perché oggi le cose per una serie di vicissitudini stanno in maniera affatto diversa) la filosofia prima dato che è quella che considera le ragioni supreme dell’essere (e infatti la metafisica di Aristotele aveva proprio questa funzione: oggi la chiameremmo “teoria dei fondamenti”) senza che per questo sia direttiva rispetto al resto delle scienze.
È questo il senso proprio di “gerarchia” in questo contesto, non altro.
“non significa “asservimento” dell’inferiore rispetto alla superiore cosicché quella deve fare ciò che ha preventivamente stabilito questa“
In qualche modo si deve farlo, perchè è la superiore che determina lo scopo, e perciò i limiti, della inferirore. Quello che non deve è ese servile cioè falsare i suoi risultati per favorire visioni della superiore.
Nel commenti precedenti ho cercato di far vedere proprio il contrario: le scienze superiori fondano le inferiori, non ne determinano lo scopo.
E poi, anche storicamente, sappiamo benissimo che la metafisica, che appunto è scientia rectrix per eccellenza, la prima e più generale, è venuta secoli dopo l’inizio della speculazione dei cd presocratici, speculazione che è stata essenzialmente una filosofia della natura (e quindi gerarchicamente inferiore). Ma anche l’epistemologia, se è per questo, è nata in funzione della scienza moderna (tanto che ne viene definita ancella) e, per come è stata sviluppata sino ad oggi, non ha mai avuto un ruolo normativo nei confronti di quella.
Tanto basta, per quanto mi riguarda, a dimostrare che la necessità di dover iniziare dalla scienza gerarchicamente superiore non si dà. Anzi, direi invece – sulla scorta dello stesso Aristotele – che è bene iniziare da ciò che è più intelligibile quoad nos per giungere a ciò che è maggiormente intelligibile quoad se. E questo, guardacaso, è proprio ciò che è stato.
PS. In ogni caso una definizione di scienza, o meglio, di ciò che rende scientifica una disciplina già l’abbiamo, quindi non vedo dove sia il problema.