Le sabine con i figli s’interpongono tra i mariti romani e i padri sabini (Jacques-Louis David, 1799)
“Il più grande di tutti per stile e rigore storico”
di Giorgio Masiero
In memoria di Tito Livio, nel bimillenario della morte
Nel 1350, appena arrivato a Padova, Francesco Petrarca scorse all’interno della basilica di Santa Giustina una lapide funeraria antica, trovata pochi anni prima in un campo attiguo e attribuita alla tomba di Tito Livio (59 a.C. – 17 d.C.). In contemplazione davanti al documento dell’età augustea, scrisse lì per lì una “lettera” allo storico patavino, alla stregua di quelle che aveva già dedicate a Virgilio, Cicerone, Ovidio e ad altri illustri autori ed eroi dell’antichità. Le lettere sarebbero state raccolte in prosa latina nelle sue famose “Epistolae”.
“Oh! perché non concessero i fati a me la vita nei tempi tuoi, o a te nei miei? ché, o sarebbero tempi migliori, o per vederti d’appresso com’altri fecero non tanto fino a Roma ma pur nell’India dalle Gallie e dalla Spagna sarei venuto”: l’incipit dell’epistola di Petrarca evoca la prefazione del capolavoro di Livio, dove lo storico si rifugia tra gli eroi dell’antichità romana, dell’età dei 7 re e repubblicana, per dimenticare i suoi tempi disgraziati, quelli del principato, dove il denaro, il lusso e la prepotenza dei nuovi ricchi hanno sostituito la dignitosa povertà e le pie virtù degli avi. “Mentre ti leggo, io credo vedermi al lato Cornelio, Scipione Africano, Lelio, Fabio Massimo, Metello, Camillo, Catone, Regolo … e in mezzo a quei grandi, non fra i ladroni che veramente mi circondano, con dolce illusione mi penso di vivere”: qui il pensiero di tutti noi, che fin da piccoli siamo stati incantati dalle imprese di Romolo, Orazio Coclite, Muzio Scevola, Furio Camillo, Annibale, ecc., vola allo stupore e all’ammirazione provati allora per l’epopea trasmessaci da Livio.
Iniziato nel 27 a.C., il suo “Ab Urbe condita” si componeva di 142 libri narranti in forma annalistica la storia di Roma dalle origini (753 a.C.) fino ad Augusto. Dell’intera opera ci è pervenuta solo una piccola parte, per un totale di 35 libri. Gli altri ci sono conosciuti solo tramite frammenti e riassunti (“Periochae”), essendo immediatamente l’opera divenuta testo di studio e di formazione per ogni ragazzo della buona società imperiale. Nella sua lettera a Livio, Petrarca allude alle Periochae, quando lamenta che “questi nomi [di uomini illustri] … io leggo qua e là nelle opere altrui e specialmente in quel libro nel quale tu sei tutto intero, ma ristretto così che se nulla manca al numero, assai però manca alla sostanza”. La lettera si chiude: “Addio in eterno, supremo conservatore delle passate memorie. Dal mondo dei vivi, nell’Italia, ed in quella città che a te dette culla e sepoltura e a me è presente memoria, nel vestibolo della vergine Giustina e in cospetto della tua lapida sepolcrale, addì 22 di febbraio dell’anno 1350 dal nascere di Colui che avresti forse veduto, o di cui avresti udito esser nato, se poco più ti durava la vita”.
Livio era profondamente preoccupato della degenerazione dei costumi, straripata dopo la caduta di Cartagine del 146. La corruzione e la violenza erano diventati normali nell’Urbe e Livio condivideva i timori espressi cent’anni prima da Catone il Censore riguardo ad una società dove “un efebo è scambiato ad un prezzo superiore a quello di un campo ed un vasetto di pesce salato supera il salario di un conduttore di aratro”. Dopo le guerre puniche e la conquista della Grecia, i ricchi cosmopoliti avevano preso a vivere in modo scandaloso, dando cattivo esempio ai poveri: la sete di potere dei nobili e il malcontento dei plebei sarebbero sfociati nel fuoco delle guerre civili. “Con il graduale rilassamento della disciplina, la morale prima si è abbassata, poi è scivolata sempre più in basso e infine è sprofondata al punto presente, in cui noi non possiamo sopportare né i nostri vizi né una loro cura” (dalla Prefazione dell’Ab Urbe condita).
Roma ha conquistato il mondo, ma ha perduto l’anima. Gli uomini devono tornare ad essere coraggiosi e a prendersi responsabilità della cosa pubblica, perché “con la partigianeria e la riverenza verso le cose private, sempre si sono offesi e si offenderanno gli interessi di tutti” (Libro III). La vita domestica e la castità sono compiti altrettanto importanti che riguardano le donne, come sta a testimoniare l’atto eroico delle sabine, interpostesi coi figlioletti a pacificare i mariti (che le avevano rapite) con i padri e i fratelli (cui erano state sottratte): “Da una parte supplicavano i mariti e dall’altra i padri. Li pregavano di non commettere un crimine orribile, macchiandosi del sangue di un suocero o di un genero e di evitare di macchiarsi di parricidio verso i figli che avrebbero partorito, figli per gli uni e nipoti per altri … Se il rapporto di parentela che vi unisce e questi matrimoni non sono di vostro gradimento, rivolgete contro di noi l’ira; noi siamo la causa della guerra, noi siamo responsabili delle ferite e dei morti sia dei mariti sia dei genitori. Meglio morire piuttosto che vivere senza uno di voi due, o vedove o orfane” (Libro I); o come testimonia il sacrificio estremo di Lucrezia Collatino: “Da oggi in poi, più nessuna donna romana vivrà nel disonore!” (Periochae I). Così, nei suoi libri, Livio inframezza sistematicamente il racconto temporale con episodi senza tempo, in cui il coraggio e la pietà sono premiati e il cattivo comportamento è punito. Ancora, nel Libro XXII narra come nel 217 Gaio Flaminio avesse accettato il consolato, lanciandosi in una campagna militare contro Annibale senza aver prima celebrato i doverosi, antichi riti religiosi. Molti senatori, ricorda Livio, trovarono la decisione di Flaminio oltraggiosa, “una guerra non contro un nemico, ma contro gli dei”. Quando poi il console subisce la disfatta al lago Trasimeno, Livio non torna a rimproverarlo, piuttosto descrive il dolore dei parenti dei caduti in battaglia. Ma il suo messaggio è chiaro: gli dei hanno punito i Romani.
Augusto che, con qualche sorrisetto verso i moralismi bigotti veneti e i barbarismi lessicali padovani dello storico pur lo ammirava, ne condivideva l’analisi severa, tanto che nelle sue legislazioni sul lusso e sul matrimonio incentivò un ritorno ai costumi antichi. Quella di Livio non era però piaggeria propagandistica a supporto del Princeps, ma la convinzione personale di un conservatore affezionato alla verità storica e a nient’altro. Un solo esempio. I Romani avevano l’usanza che il comandante che uccideva un generale nemico in duello, di ritorno in patria ne avrebbe offerto le spoglie (“spolia opima”) a Giove Feretrio, nel tempio più sacro dell’Urbe. Questo rito era di grandissimo prestigio e soltanto due comandanti repubblicani l’avevano mai celebrato: Cosso nel tardo V secolo e Marcello nel 222. Nel 29 a.C., un comandante, tal Marco Licinio Crasso (nipote del triumviro), reclamò il diritto a offrire le spolia opima. Ad Augusto la pretesa parve eccessiva, troppo onore per un comandante qualsiasi, e così l’imperatore s’inventò un pretesto per negarla: solo i consoli avevano diritto all’onorificenza di Giove Feretrio. Purtroppo Cosso non risultava essere stato console, ma Augusto, essendo come Pontifex Maximus penetrato nel tempio, pretendeva di avervi letto un’iscrizione comprovante il consolato di Cosso. Quando però Livio descriverà la vittoria di Cosso (Libro IV), metterà in chiaro che l’eroe di guerra era stato un tribuno, non un console, e annoterà il disaccordo della decisione di Augusto con tutta la tradizione storica. Incalzerà domandandosi come sia possibile che tutte le liste dei magistrati contenessero un così vistoso errore. Insomma Livio non accusa esplicitamente Augusto di essere un bugiardo che si comportò ingiustamente con Crasso per invidia, ma il suo messaggio è chiaro. Ancora una volta.
Suicidio di Lucrezia (Tiziano, 1515)
Nell’epistola a Livio, Petrarca ad un certo punto scrive: “Salutami tra gli antichi [storici] Polibio, Q. Claudio, Valerio Anziate e gli altri tutti dei quali la gloria rimase offuscata dalla tua: tra i più moderni Plinio Secondo veronese di patria e a te vicino e Crispo Sallustio …”. Valerio Anziate, chi era costui?
Anche gli storici hanno un’anima: quella dei “conservatori” (come Livio) ama la tradizione più di quanto apprezzi le novità, quella dei “progressisti” il contrario. È quindi comprensibile che uno stesso fatto sia visto, tramandato, giudicato dagli storici in maniera diversa. La narrazione, che sia storica o politica, scientifica o economica, non è mai neutrale. Anziate fu uno storico di appena un paio di generazioni antecedente a Livio, ma di sentire opposto, amante di tutto il nuovo proveniente dalla Grecia e cultore delle mode orientaleggianti. Confronterò, per finire, l’uno all’altro nella descrizione di uno stesso fatto.
Siamo nel 189. Un romano ottimista di allora avrebbe detto che le difficoltà a Oriente per Roma sono finite. Il console Tito Quinzio Flaminino aveva ridotto all’impotenza Filippo in Macedonia, i Greci erano stati severamente puniti e in Asia Antioco era stato eliminato da Scipione come fattore politico. Le sole potenze orientali degne di considerazione, l’Egitto, Pergamo e Rodi, erano alleate dei Romani, le ultime due con un particolare debito di riconoscenza in considerazione del riassetto dei poteri progettato in Asia da Roma. Eppure un romano pessimista avrebbe potuto vedere la metà vuota del bicchiere e pensare che i guai a Oriente erano per Roma appena iniziati. I Greci erano stati sconfitti, è vero, ma non sbaragliati del tutto, e serbavano rancore per il trattamento subito. Più seria ancora per i Romani era la mancanza di basi militari sulla costa adriatica orientale, come conseguenza della decisione, in teoria lodevole in pratica discutibile, di non espandersi a Est. Un problema questo che si sarebbe risolto solo dopo la terza guerra illirica del 168. La decisione di auto-limitarsi era collegata alla contingente prevalenza in Senato di forze, come quelle rappresentate da Catone il Censore, contrarie ad un imperialismo suscettibile di annacquare i valori della tradizione romana con quelli di altre culture.
Tito Livio fa lezione agli studenti patavini – Affresco all’università di Padova (Massimo Campigli, 1939)
Veniamo ora all’episodio controverso, tema d’una requisitoria di Catone. Dei provvedimenti più severi dei censori, come l’espulsione di un membro dal Senato o il sequestro dei cavalli ad un senatore, la regola era che se ne pubblicasse un verbale, ma in questo caso nessun atto fu registrato e noi disponiamo solo di varie versioni storiche della requisitoria di Catone. La più rilevante riguarda un potente, il fratello del console Flaminino vincitore su Filippo e i Greci, tal Lucio Quinzio Flaminino, cui nella guerra greco-macedone era stato affidato il comando della flotta, con il compito di proteggere le coste italiane dalle incursioni nemiche.
La versione di Tito Livio: “I censori Marco Porzio [Catone] e Lucio Valerio [Flacco] scelsero di ispezionare il Senato, in un clima di suspense misto a paura. Dei 7 senatori che infine espulsero, uno in particolare si distingueva per l’alto lignaggio e per il successo politico, Lucio Quinzio Flaminino, un uomo di rango consolare … Catone lo rimproverò per un episodio riguardante un ragazzo cartaginese noto degenerato, che Flaminino amava e si era portato con sé via da Roma in una provincia della Gallia con la promessa di grandi regali. Il drudo, disse Catone, era solito ai banchetti fare una battuta lasciva: rimproverava al console di averlo portato via da Roma proprio all’epoca dei giochi gladiatorii per comprare i suoi giochi amorosi. Una sera, mentre stavano cenando ed erano sotto l’effetto di abbondanti bevute, fu annunciato l’arrivo di due nobili Boi, padre e figlio, aventi l’intenzione di disertare per passare con i Romani. I due Galli volevano incontrare di persona il console e avere da lui un salvacondotto. Fatti introdurre nella tenda, continuò Catone, il maggiore dei Boi iniziò a parlare al console per mezzo di un interprete, mentre Flaminino si rivolse al suo amante con le parole: ‘Dato che hai perso gli spettacoli dei gladiatori a Roma, vuoi vedere qui uno spettacolo altrettanto cruento?’ E al cenno positivo anche se non del tutto serio dell’amante, Flaminino impugnò una spada e colpì alla testa il Gallo che stava ancora parlando. Poi, mentre questi fuggiva chiamando in aiuto i Romani e gli altri ospiti, il console lo trafisse da parte a parte”.
La versione di Valerio Anziate è simile, ma non uguale: “Mentre si trovava in missione a Piacenza, fu l’accusa di Catone, Flaminino invitò a cena una famosa donna del posto, della quale si era perdutamente innamorato. Nell’occasione si vantò con gli ospiti della sua severità nell’amministrazione della giustizia e di quanti criminali avesse catturato e fatti condannare alla pena capitale, alla cui esecuzione intendeva personalmente provvedere. Al che la donna, strusciandoglisi contro il petto, disse che non aveva mai assistito ad una decapitazione e ne era smaniosa. Subito l’amante generoso ordinò che gli fosse portato uno dei condannati e lo decapitò con la sua spada … Nell’ultima parte della sua accusa, Catone propose in Senato a Flaminino un aut aut: se negava l’episodio, sarebbe andato incontro ad un processo; se confessava, avrebbe forse potuto sperare che qualcuno si addolorasse della sua disgrazia di avere, succube del vino e della lussuria, giocato col sangue di un uomo ad una festa”.
Tito Livio si compiace di mettere in evidenza i punti comuni tra la sua versione e quella di Valerio Anziate: l’atto del console è riportato da entrambi come selvaggio e crudele, perché nel mezzo di una festa, dove è usanza dedicare le libagioni agli dei e impetrarne la benedizione, accadde invece che per soddisfare un capriccio, la mensa fosse insozzata del sangue di un uomo. Altrettanto evidenti però, aggiungo io, sono le differenze delle due narrazioni: in Livio, ad aggravare il comportamento del console contro i costumi antichi dei Romani e i loro interessi politici attuali, l’amante è un maschio e la vittima un nobile Gallo simpatizzante; nell’Anziate, ad attenuare la condotta del console fino quasi a giustificarla, l’amante è una donna barbara, cioè una normale preda di guerra, e la vittima un reo già condannato a morte da un tribunale legale.
L’atto di Flaminino è riferito da una decina di altri autori, romani e greci, da Cicerone a Seneca, da Cornelio Nepote a Plutarco, ciascuno in una versione che è una combinazione delle due principali e opposte di Livio e dell’Anziate. Quale la più veridica? Oggi, che la storiografia dà fede a priori, salvo prova contraria, a Tito Livio – quasi a condividerne il giudizio di un altro storico del I secolo d.C., riportato da Tacito, come del “più grande di tutti per stile e rigore storico” –, giudicherò che a farci la figura più bella è anche in quest’occasione il patavino, il quale si lascia guidare solo dalla sua onestà; e dopo di lui metto Valerio Anziate, la cui partigianeria è limpida e tutta d’un pezzo; mentre gli altri autori, che s’industriano a dare un colpo al cerchio e uno alla botte, vengono per ultimi nella stessa fascina.
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7 commenti
Ringrazio il prof. Masiero per ricordarci che la scienza non è solo storia naturale, ma anche – o dovrei dire prima di tutto? – storia umana. Le scienze umanistiche sono trascurate nella nostra epoca, tutta intenta ad educare bravi lavoratori, tecnici specializzati e ubbidienti. Eppure quante più cose sull’uomo, sulla sua natura, sui suoi vizi e virtù che non evolvono mai, ci insegna la storia rispetto a ogni altra scienza!
Grazie, Nadia.
Le scienze naturali (lo dice la parola) c’insegnano come funziona il corpo. Ma sono le scienze storiche, e le scienze umanistiche in generale, che ci dicono come agisce l’anima. Il che, a mio parere, è infinitamente più importante e anche interessante.
Nadia condivido in pieno il tuo bel commento.Da appassionato di Storia(e non soltanto appassionato….) mi accorgo dell’abissale stupidità umana propio in questo settore della scienza-cultura;mancando in pieno,molte volte,la minima conoscenza degli avvenimenti (fondamentali)che hanno forgiato la nostra e le precedenti generazioni.Un vuoto,come dicevo anche mesi orsono, che si riscontra pure nei quizzes “leggeri”,propinati dalle varie tv.
Grazie, Maurizzio. Il “vuoto”, come Lei lo chiama, coinvolge soprattutto i ceti subalterni della società, acritici. E purtroppo si va estendendo anche nel mondo della ricerca scientifica, organizzata sempre più come un’industria. Se da 100 anni, dopo la relatività e la meccanica quantistica, non si è più scoperta una nuova teoria fondamentale in fisica, nonostante il numero dei ricercatori si sia moltiplicato per 100 o per 1000, io lo attribuisco alla cultura esclusivamente tecnica della massa dei ricercatori, privi di quella cultura classica e storico-filosofica, che apparteneva invece agli Einstein, Schrödinger, Heisenberg, Bohr, De Broglie, ecc.
Nei ruoli di CEO dei grandi gruppi e delle multinazionali sembra invece che siano i dipartimenti umanistici (e in primo luogo, le facoltà di filosofia) a far man bassa. Come mai?!
Come al solito è un grande piacere leggere il Prof. Masiero, non è da tutti riuscire ad essere rigorosi e appassionati assieme!
L’articolo mi ha suscitato un pensiero, forse un meta-pensiero, che alla fine tutto si riduce ad un’unica cosa, politica, azione militare, costumi, rapporti sociali, tutto si riduce all’essenza comune: la morale.
Che si tratti di eccesso di morale (moralismo – puritanesimo) o di mancanza di morale (progressismo – materializzazione e svilimento della morale) o di equilibrio morale, sempre di morale si tratta; i primi frenano, i secondi accelerano, i terzi ponderano.
Sembra a me, che l’uomo fatichi a trovare la “risonanza” con la morale, la capacità di mettersi in fase con essa ma che piuttosto tenda a mettersi in quadratura, in anticipo o ritardo, secondo la propria indole o il proprio interesse?
Ho trovato molto interessante l’accenno alla preoccupazione morale di Livio, in fin dei conti anche nella nostra società viviamo un grave problema morale.
Che i giovani tendano ad essere progressisti è naturale, è successo anche a me e penso alla maggioranza di noi, fatte salve le rarissime e fortunate eccezioni, poi con l’età si tende a diventare conservatori.
Secondo me, qualsiasi società è destinata all’autodistruzione quando gli “anziani” non riescono a liberarsi della sindrome progressita-adolescenziale e mi sembra che oggi viviamo in uno di quei tempi.
Ovviamente c’è chi ne approfitta, avendo capito perfettamente la questione, e alimenta pro domo sua questa sete pre-adulta.
Grazie, Valentino.
Sembra che appartenga alla natura umana sia una tendenza all’empatia e alla cooperazione, sia quella all’egoismo e al comportamento antisociale. E quale scienza troverà l’equilibrio a questo bipolarismo, ingenito in noi, tra i diritti della comunità e quelli dell’individuo se non l’etica? Persino Feynman riconosceva che l’etica sta fuori della scienza naturale. Ma chi lo spiegherà ai fisicalisti oggi di moda?
Grazie anche per lo spunto che mi ha dato sugli “anziani”. Ne riparleremo con Cicerone!
Prego, ma lei, assieme a qualcun altro che scrive su questo spazio, è ormai catalogato nella sezione “buone letture”, è veramente un piacere leggerla, riconosco semplicemente un evidente merito.
Spiegare? Non ne vale la pena perchè è tempo perso, si può spiegare ad una mente vuota o parzialmente piena che desidera confrontarsi e mettere e mettersi in discussione; spiegare a chi ha la mente stracolma di luoghi comuni è perfettamente inutile, meglio scrollarsi la polvere dai calzari, non crede?
Il tempo è bene impiegarlo per qualcosa di più produttivo, coltivando chi è recettivo piuttosto che tentando di scalfire le mura difensive di certe persone.
Aspetto con ansia Cicerone 🙂