Un omicidio quando viene strumentalizzato offende in primo luogo la memoria della vittima.
Quando giornalismo e magistratura cambiano la realtà e creano una narrazione.
The book of Matt – verita’ nascoste dietro l’omicidio di Matt Shepard
Il 7 ottobre 1998, a Laramie, nel Wyoming, un ragazzo di ventun anni viene trovato legato a una staccionata, inconscio e gravemente ferito. Era stato colpito alla testa con il calcio di una pistola, in modo così violento che la persona che lo trovò pensò inizialmente che si trattasse di uno spaventapasseri. Si trattava invece di Matthew Shepard, uno studente di college omosessuale. Quando, pochi giorni dopo, Matthew morì, il suo nome era ormai sinonimo di “crimine d’odio”. Per il suo omicidio vennero arrestati due giovani poco più grandi di lui, Aaron McKinney e Russell Henderson. Secondo la ricostruzione, i due sarebbero stati fatti oggetto di avance da parte di Matthew mentre si trovavano in un locale, e, infastiditi dalla cosa, avrebbero deciso di appartarsi con lui per fargliela pagare. Si trattava dunque di un’aggressione omofoba. La notizia dell’omicidio e del processo fece il giro del mondo, e ricordo che se ne parlò anche qui in Italia.
I due si dichiararono colpevoli e riuscirono a evitare la pena di morte, venendo condannati a due ergastoli ciascuno senza possibilità di chiedere la libertà condizionale. Il viso da efebo di Matthew, il suo cognome (shepard ha lo stesso significato di shepherd, cioè pastore), e la notizia (non vera, in realtà) che la posizione in cui era stato legato alla staccionata ricordava un Cristo crocifisso furono tutti elementi che contribuirono a farne il santo e martire della comunità gay, tanto che a suo nome venne persino creata una fondazione e uno spettacolo teatrale/cinematografico chiamato The Laramie Project (che, a quanto pare, viene messo in scena anche nelle scuole).
Vennero chieste a gran voce pene più aspre contro i “crimini d’odio” nei confronti delle minoranze, leggi che puntualmente arrivarono. Il 28 ottobre 2009, durante il suo ultimo anno di presidenza, Obama firmò il “Matthew Shepard and James Bird, Jr. Hate Crime Prevention Act”, dove James Bird è un ragazzo di colore che, a quanto pare, venne ucciso “perché nero”. La legge espande la legge federale del 1969 contro i crimini d’odio, includendo crimini motivati dal “genere reale o percepito della vittima, orientamento sessuale, identità di genere o disabilità”.
Le indagini di Stephen Jimenez
Ma le cose andarono davvero come raccontarono TV e giornali?
Nel 2000, quando i processi si erano ormai conclusi e i media avevano lasciato Laramie, il giornalista e scrittore Stephen Jimenez raggiunse la cittadina del Wyoming deciso a scrivere una sceneggiatura cinematografica su quello che lui (e il resto del paese) riteneva essere un caso aperto e chiuso di violenza omofoba. Essendo omosessuale lui stesso, Jimenez lo sentiva come un imperativo morale. Quello che però trovò a Laramie fu una matassa intricata di segreti, ma invece di voltarsi dall’altra parte e ribadire la versione ufficiale dei fatti, Jimenez portò avanti le sue indagini per ben tredici anni, presentando poi i suoi risultati al pubblico con il libro The Book of Matt.
La prima persona con cui entrò in contatto fu Cal Rerucha, il pubblico ministero che ottenne i due ergastoli per McKinney ed Henderson. Rerucha si mostrò molto disponibile con Jimenez e gli fornì molte informazioni. Per prima cosa, gli suggerì di informarsi su un altro caso di omicidio molto brutale, verificatosi a Laramie nel 1997, e notare il diverso trattamento che ricevette rispetto all’omicidio Shepard. La vittima era Daphne Sulk, una ragazzina di quindici anni il cui cadavere venne trovato in un bosco. Sul corpo aveva segni di bastonate e ben diciassette coltellate, e dall’autopsia risultò che era incinta di un mese. Del crimine venne accusato Kevin Robinson, un trentasettenne di colore che era stato l’amante della ragazzina. A quanto pare, Robinson voleva che Daphne abortisse, perché se si fosse scoperto che il padre era lui (all’epoca a Laramie la popolazione di colore era molto esigua), c’era il rischio che l’uomo perdesse la custodia dei due figli che già aveva. Daphne rifiutò di abortire e Robinson la uccise. L’uomo venne condannato a trentatré anni di prigione, ma per via della buona condotta può ora chiedere la libertà condizionale. Questo caso, però, restò confinato alla cronaca locale. I grandi media nazionali non se ne interessarono, e nessuna femminista fece della piccola Daphne la sua bandiera nei confronti del “maschilismo” o della “cultura patriarcale”.
Otto mesi dopo il suo primo incontro con Rerucha, Jimenez tornò a Laramie per fargli leggere la prima bozza della sceneggiatura, prima di inviarla a un produttore di Hollywood. Mentre Rerucha la leggeva, Jimenez ricontrollava alcuni documenti relativi al processo, e fra di essi scoprì una lettera anonima. L’autore della lettera si diceva stupito dell’accusa di omofobia verso McKinney ed Henderson, poiché entrambi non solo frequentavano persone omosessuali e locali gay, ma spesso si prostituivano con uomini. Prima di lasciare Laramie, inoltre, Rerucha confidò a Jimenez di aver rifiutato un invito alla Casa Bianca da parte del presidente Clinton. Alcuni dei suoi colleghi si erano uniti a Judy Shepard (la madre di Matthew) per fare pressione sull’amministrazione Clinton in favore di una legge federale sui crimini d’odio, e si erano detti “sconvolti” per questa decisione di Rerucha. A cosa era dovuta?
Ѐ a questo punto che Jimenez decide di mettere da parte la sceneggiatura e di proseguire le indagini per conto suo.
Verità nascoste
Una delle prime cose che scoprì fu che Matthew Shepard e i due assassini non erano degli sconosciuti, poiché si frequentavano già da diversi mesi. Il contenuto della lettera anonima, inoltre, era corretto. Henderson e McKinney (pur essendo fidanzati, e l’ultimo aveva anche un bambino piccolo) si prostituivano con uomini per soldi, e almeno in un’occasione McKinney ebbe un rapporto con Matthew. Inoltre, la madre della fidanzata di McKinney e la madre della fidanzata di Henderson avevano una relazione, e i due non avevano niente da ridire. Ma perché ai due uomini servivano così tanti soldi da dover addirittura prostituirsi? Tra l’altro nel 1995 McKinney aveva anche ricevuto un risarcimento di 100.000 dollari dovuti a un intervento di isterectomia sulla madre andato male e che causò la morte della donna quando il giovane aveva sedici anni. Nel giro di tre anni i soldi erano finiti.
Ciò che al processo non venne fuori, infatti, era che i tre uomini non solo consumavano metanfetamina (crystal meth), ma la spacciavano. Poiché McKinney aveva bisogno di soldi, aveva deciso di rubare a Matthew sei once di droga. La furia omicida sarebbe quindi stata scatenata dalla resistenza di quest’ultimo e soprattutto dallo stato alterato di McKinney causato dalle droghe (McKinney stava consumando metanfetamina da una settimana). Henderson, invece, non partecipò direttamente all’omicidio, nel senso che non colpì Matthew. Anzi, tentò addirittura di fermare l’amico dall’infierire ulteriormente sulla povera vittima, ma venne colpito a sua volta. La colpa di Henderson fu quella di non denunciare subito l’accaduto. Se l’avesse fatto, probabilmente Matthew avrebbe potuto salvarsi. Tuttavia, poiché temeva di essere condannato alla pena di morte, accettò un patteggiamento in cambio di due ergastoli, ma lo stesso Rerucha era convinto che non avesse partecipato fisicamente al pestaggio di Matthew.
Il motivo principale per cui McKinney ed Henderson accettarono le accuse di omofobia e tutta la versione ufficiale dell’omicidio risiede nel timore di ritorsioni da parte degli spacciatori, alcuni dei quali erano dei pezzi grossi che facilmente avrebbero potuto colpirli anche dietro le sbarre. Rubare sei once di droga proveniente dal crimine organizzato è un reato piuttosto serio nel mondo della malavita. Inoltre, anche alcuni poliziotti e membri delle forze dell’ordine di Laramie erano coinvolti nello spaccio, e furono proprio loro a pompare la versione del “crimine d’odio” a discapito di quella che aveva a che fare con le droghe. Inoltre, confessare di aver colpito Matthew in seguito alle sue avance sembrò a McKinney e ai suoi avvocati un buon modo per dimostrare che in realtà l’omicidio non era stato intenzionale.
Ma allora com’è possibile che già dal giorno seguente l’aggressione tutti i media parlassero di omofobia? A quanto pare, i responsabili furono due amici di Matthew, Alex Trout e Walt Boulden. Non appena vennero a sapere dell’aggressione, i due contattarono un loro amico gay e giornalista e diverse organizzazioni gay in Wyoming e Colorado. Subito dopo, l’Associated Press e altri media nazionali ripresero la notizia ripetendo la versione dell’attacco omofobo. Rerucha disse a Jimenez: ”Una volta iniziato, divampò come un incendio e niente avrebbe potuto fermarlo. Trout e Boulden telefonavano all’ufficio dell’avvocato distrettale e ai media, dicendo che il fatto che Matthew era gay non doveva passare inosservato.” Aggiunse anche che la versione “crimine d’odio” venne alimentata anche da due poliziotti di Laramie, che non poterono resistere alla tentazione di apparire davanti alle telecamere, e che le prove di un crimine d’odio non c’erano, era qualcosa che Trout e Boulden avevano deciso. Infatti, durante il processo, nessun giudice aveva trovato i due imputati colpevoli di un crimine d’odio, poiché vennero condannati per felony murder (che grosso modo potrebbe essere equiparato al nostro omicidio di primo grado).
La versione ufficiale venne alimentata anche dalle fidanzate di Henderson e McKinney, cioè rispettivamente Chasity Pasley e Kristen Price, su istruzione dei due uomini. Per loro stessa ammissione, furono proprio le due ragazze a far sparire dalle loro case tutto ciò che poteva collegare i loro fidanzati con la droga.
Come accennato più su, si era mentito anche sulla posizione in cui Matthew venne trovato. La versione riportata sui media diceva che Matthew era stato trovato “crocifisso” alla staccionata. Anch’io ricordo di aver sentito questa versione, e l’immagine è talmente potente che a distanza di quasi vent’anni la ricordo ancora. Tuttavia, è falsa. Matthew era stato legato con le mani dietro la schiena a uno dei pioli del recinto, e col passare delle ore era scivolato a terra, per cui quando venne ritrovato era praticamente inginocchiato, col sedere sui talloni e la schiena reclinata in avanti. Secondo Rerucha, la versione falsa venne messa in giro da qualcuno all’interno delle forze dell’ordine durante una delle prime conferenze stampa.
Durante il processo nessuno mise in luce i legami dei tre giovani con la metanfetamina. L’unico a parlare di droghe fu l’avvocato di McKinney, ma lo fece solo in relazione al consumo personale del suo assistito, e non in relazione al suo coinvolgimento in un’ampia rete di spaccio. Anzi, negli USA il traffico e il consumo di metanfetamina era cresciuto praticamente indisturbato, soprattutto nei locali gay e nei club. Parlando con Jimenez, Rerucha disse: “Se Aaron McKinney non fosse stato coinvolto con la metanfetamina, Matthew Shepard sarebbe ancora vivo. Ѐ stato un omicidio orribile, causato dalle droghe.” Alcuni anni dopo la morte di Matthew, le autorità del Wyoming dissero che perlomeno il 70% dei crimini in quello Stato era dovuto alla metanfetamina.
Un altro fatto piuttosto inquietante è che, poco dopo l’inizio del processo, Rerucha iniziò a ricevere telefonate anonime, in cui gli veniva detto che, se non avesse fatto giustizia, ci avrebbero pensato “loro”. Addirittura una sera qualcuno sparò all’interno del salotto di casa sua, per fortuna senza ferire nessuno. Inizialmente, infatti, Rerucha non aveva chiesto la pena di morte per i due imputati, poiché si rendeva conto che non era una decisione da prendere alla leggera. Durante tutto il processo, inoltre, sia lui che il detective Rob DeBree vennero tenuti sotto controllo da agenti federali.
Jimenez, invece, in un paio di occasioni venne messo in guardia dall’andare a rovistare nel sottobosco dello spaccio della metanfetamina, e lo stesso McKinney gli disse che avrebbe rischiato di sollevare un vespaio.
A questo punto può essere interessante anche dare una rapida occhiata alle vicende personali dei tre protagonisti della vicenda.
Matthew Shepard da adolescente venne sottoposto a un trattamento sperimentale con ormoni della crescita, a causa di un ritardo della pubertà. Soffrì inoltre del disturbo da deficit di attenzione e depressione. Da ragazzino e da adolescente venne più volte molestato e violentato e proprio pochi giorni prima di morire identificò tre dei violentatori. All’età di quindici anni venne arrestato per molestie su due bambini di otto anni, e in seguito tentò addirittura il suicidio. Nel 1995 fu protagonista di un altro terribile evento. In quel periodo suo padre era stato chiamato in Arabia Saudita per motivi di lavoro e quindi si era trasferito lì con la moglie, mentre Matthew era stato mandato a proseguire gli studi in Svizzera. La scuola che frequentava organizzò una gita a Marrakech e una mattina, senza essere visto, Matthew sgattaiolò fuori dall’albergo e iniziò a vagare per il Quartiere vecchio. Qui venne circondato da una gang di uomini che lo violentarono per ben sei volte. Negli anni precedenti all’omicidio divenne sempre più dipendente sia dai farmaci che dalle droghe. Alle superiori aveva iniziato con marijuana e cocaina, per poi passare a quelle più pesanti, comprese la metanfetamina. Qualche settimana prima di essere ucciso, infine, rivelò a un amico di essere sieropositivo.
Aaron McKinney, come abbiamo visto, perse la madre a sedici anni. Il padre era camionista e quindi era spesso via e la madre non era in grado di gestire il ragazzo da sola, che spesso si mostrava violento, anche a scuola, e fin dalle medie era noto alla polizia. Alcune delle persone che lo conoscevano dicevano che a volte sembrava che non avesse una “coscienza”.
La madre di Russell Henderson, Cindy Dixon, era un’alcolista e lo partorì prematuro a diciannove anni. Il bambino trascorse due settimane nell’incubatrice, mentre alla madre sembrava non interessare nulla di lui, poiché per giorni si rifiutò di vederlo. Nemmeno al padre interessava vederlo, per cui venne affidato ai nonni. Quando aveva cinque anni, Cindy si risposò, stavolta con Bob Henderso, che adottò il bambino e gli diede il suo cognome. Nel giro di pochi anni, però, i due divorziarono e Russell venne affidato al patrigno, per poi ritornare, stavolta definitivamente, dai nonni. Nel 1999 Cindy venne trovata morta in fondo a un canyon, con evidenti segni di violenza sessuale. Il suo assassino (che spacciava e faceva uso di metanfetamina) venne condannato a quattro anni di prigione. Anche in questo caso si disse che i due non si conoscevano, ma la cosa è piuttosto improbabile, dato che anche la donna faceva uso della stessa droga. Alcune delle fonti di Jimenez hanno anche suggerito che l’omicidio di Cindy Dixon sia stato un messaggio per Russell, per fargli capire che doveva tenere la bocca chiusa.
Le reazioni al libro
Com’era prevedibile, il libro ha suscitato reazioni molto diverse. Come spiega Jimenez in questo articolo una parte dello comunità LGBT ha apprezzato il suo lavoro e diversi giornalisti e associazioni omosessuali lo hanno intervistato e hanno accettato senza problemi i risultati della sua indagine. Al contrario, la famiglia di Matthew Shepard e la Matthew Shepard Foundation lo hanno attaccato duramente, affermando che il libro si basava su “voci e insinuazioni” e che avrebbe “macchiato” la memoria di Matthew. Jimenez si è quindi offerto di sedere a un tavolo con la famiglia di Matthew e rappresentanti della fondazione, in modo da poter esaminare tutto il suo archivio. Ha anche affermato che l’archivio verrà messo a disposizione dello University of Wyoming’s American Heritage Center, in modo che tutti possano consultarlo.
L’Huffington Post si rifiutò di pubblicare quest’intervista all’autore, mentre la settimana successiva pubblicò un nostalgico articolo scritto dalla madre di Matthew. Altri, invece, come il giornalista Neal Broverman, definirono il libro come un oltraggio alla verità, senza però averlo letto.
Le critiche più forti, però, sono venute da Media Matters, un sito che si prefigge di “monitorare, analizzare e correggere la disinformazione conservatrice sui media statunitensi”. Secondo questo sito, il libro si basa su fonti inaccurate e omette fatti importanti, e tutta la comunità LGBT l’ha rigettato (cosa che, come abbiamo visto, non è vera). Il sito ha anche attaccato una giornalista del Guardian, Julia Bindel, che scrisse un articolo positivo sul libro. Quando la Bindel ha chiesto agli autori di Media Matters se volevano essere intervistati, si sono rifiutati . Anche la Matthew Shepard Foundation ha rifiutato un’intervista con la Bindel, rispondendo con un comunicato che avevano già usato un anno prima.
In occasione dell’uscita del libro in versione brossura, Jimenez ha aggiunto una prefazione di venti pagine, in cui parla della “macchina del fango” di Media Matters e fa anche i nomi di alcune fonti che, per la prima edizione del libro, avevano chiesto di apparire sotto falso nome.
E poi ci sono quelli che dicono che non importa per quali motivi Matthew fu ucciso, dato che dalla sua morte è venuto un bene (che per loro sarebbe la legge federale sui crimini d’odio). In pratica, secondo queste persone, manipolare la morte di una persona per i propri fini è una cosa giusta.
Oppure ci sono quelli secondo cui (come si può leggere in questo articolo ) dicono che non importa che lo spettacolo The Laramie Project si basi su una ricostruzione errata dei fatti: lo spettacolo è talmente bello, commovente e suscita emozioni così forti che è giusto continuare a rappresentarlo.
Insomma, a queste persone non interessa nulla della verità dei fatti (o perlomeno della ricerca della verità): se una bugia è (secondo loro) bella e utile, la si può continuare a tenere in vita.
Purtroppo oggi assistiamo sempre più spesso a situazioni del genere. Notizie false o distorte vengono strombazzate sulle prime pagine di tutti i giornali, mentre le notizie vere vengono bollate come false o come hate speech. E la cosa peggiore è che poi, sulla base delle notizie false fatte passare per vere, si approvano leggi che avranno conseguenze sulla vita di tutti (come la legge sui crimini d’odio approvata dopo la morte di Matthew Shepard).
Volendo restare nell’ambito LGBT si potrebbe citare brevemente un altro caso, verificatosi nel 2010. Il diciottenne Tyler Clementi, al primo anno di università, si suicidò buttandosi da un ponte. Poco prima aveva fatto sesso, nella camera del suo dormitorio, con un trentenne appena conosciuto su internet. Il suo compagno di stanza, Dharun Ravi (lui e Clementi si conoscevano da meno da un mese), infastidito dal fatto di essere stato sbattuto fuori dalla camera, utilizzò una webcam per trasmettere su internet immagini dei due a letto insieme. Scoperta la cosa, Clementi si suicidò. Ovviamente tutta la comunità LGBT salì sul carrozzone dell’omofobia, dicendo che occorreva combattere gli omofobi per evitare un’epidemia di suicidi tra i giovani gay. Peccato che il gesto di Ravi (pur deprecabile e da punire) non era dovuto all’omofobia, ma solo all’irritazione per aver dovuto lasciare la sua stanza perché il suo amico doveva fare sesso.
Persino i famosi disordini dello Stonewall si basano su una narrativa falsa. Secondo la versione ufficiale, la polizia fece irruzione nel famoso locale gay di Christopher Street, a New York (siamo nel 1969), perché si trattava appunto di un locale gay e quindi volevano chiuderlo. In realtà la polizia voleva chiuderlo perché si trattava di un locale gestito dalla mafia, in cui si vendevano alcolici senza licenza, anche ai minori, e in cui i suddetti minori venivano coinvolti in attività sessuali con adulti. Non appena i poliziotti iniziarono a condurre in questura alcuni dei clienti, fuori della strada si radunò una folla che prese a tirare contro il locale sassi, bottiglie, secchi della spazzatura e persino un parchimetro. Qualcuno si procurò anche del gas infiammabile. Il mattino dopo lo Stonewall era carbonizzato e quattro poliziotti erano all’ospedale. È abbastanza ridicolo che oggi quel giorno venga ricordato come il Gay Pride Day.
A proposito della falsa mitologia creata intorno al soldato Jessica Lynch durante la guerra in Iraq, la giornalista Ellen Goodman disse: “C’è qualcosa di terribile nell’alchimia che cerca di trasformare un essere umano in un simbolo.. Per trasformare un essere umano in un simbolo, devi togliere tutta l’umanità.”
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3 commenti
Grazie Emanuela!
Allucinante
Tra l’altro tempo fa avevo letto da qualche parte che anche Harvey Milk (sul quale fecero un film anni fa, e che è considerato uno dei padri dei “diritti” gay) aveva degli scheletri nell’armadio, ma non ricordo dove l’ho letto.