Ofelia (John W. Waterhouse, 1910)
Il sottile filo rosso
di Giorgio Masiero
Se una teoria materialistica non è suscettibile di ricadute tecniche, perché irriproducibile a priori, a che cosa serve?
C’era una volta il buon senso, nelle accademie oltre che nel popolo. Secondo il buon senso, che poi è la somma dei 5 sensi guidati dall’intuito, il mondo è fatto di cose che si possono misurare e di cose che non si possono misurare. Questa è una delle poche nozioni di geometria che sapevo già quando mi fu insegnata a scuola, essendoci arrivato da solo tra fette di torta e sacchetti di caramelle, di grandezze tanto commensurabili quanto di gusti incommensurabili. Ad un fenomeno misurabile si può associare un numero. Basta avere per ogni tipo di grandezza un’unità di riferimento e determinare quante volte questa è contenuta nella grandezza da misurare. Un’operazione che si fa dai tempi remoti in cui i nostri antenati impararono a contare 1, 2, 3… Quella corsa è lunga 50 m, il peso di quel sasso è 2 kg, il viaggio è durato 1 h e ½… I qualia invece non si misurano: quanto mi vuoi bene, tesoro mio? tanto, mamma! Tanto quanto? tantissimo, mamma!! L’amore, come i sapori, non ha un’unità di riferimento e, se ce l’avesse per decreto dispotico, questa non sarebbe confrontabile con quello in una scala numerica.
Oggi, alcuni filosofi e scienziati hanno perso il buon senso, conservato solo dai bambini e dalla gente che fa altri lavori. I pensieri? la mente? un’“illusione” (D. Dennett, neuroscienziato teorico). I sentimenti? l’anima? un’altra “illusione” (E. Boncinelli, genetista teorico); perfino “il tempo è un’illusione” (C. Rovelli, fisico teorico); e così via per tante altre cose che non si lasciano facilmente ridurre ai pregiudizi di questi maestri, per privilegio illuminati a non patire le illusioni di cui sono vittime gli altri. Si chiamano riduzionisti, affollano i salotti intellettuali orfani delle rivoluzioni di destra e di sinistra fallite nel ‘900 e vi predicano che in realtà ci sono molte meno cose, e molti meno generi di cose, e molte meno dimensioni di cose di quante la gente creda.
La versione più comune di riduzionismo è il materialismo, il credo secondo cui esiste una sola dimensione della realtà, la materia, e gli altri generi di apparenza – lo spirituale, il mentale, le stesse sensazioni – si possono spiegare con, o ridurre a, fenomeni materiali. Quando noi calcoliamo la √2, o giudichiamo che l’assassinio è male, o crediamo che Dio esiste (o non esiste), o percepiamo che l’erba è verde, tutti questi eventi A non sarebbero altro che trasformazioni B di particelle. Per il materialista non ci sono fenomeni immateriali che non siano spiegabili esaustivamente come fenomeni materiali. I fantasmi sono solo sogni, l’amore non è altro che chimica, l’evoluzione è solo la sopravvivenza del più adatto, la religione non è altro che superstizione, ecc., ecc., tutte le formule riduzioniste sono del tipo “A non è altro che B” o equivalentemente “A è solo B”, intendendo che non c’è nulla in A che trascenda B, ovvero non c’è un elemento X in A oltre a B. Ora, ammesso e non concesso che ad ogni fenomeno immateriale corrisponda un fenomeno materiale, ciò non dimostra che i fenomeni immateriali non esistano: la scoperta che ogni curva convessa del confine austriaco con l’Italia può essere spiegata con una curva concava del confine italiano con l’Austria dimostra forse che esiste solo l’Italia e che l’Austria è un’illusione?! Di fronte a questa obiezione i materialisti più ragionevoli fanno intervenire l’emergenza…
La coscienza e le sensazioni emergono, saltano fuori dai fenomeni fisico-chimici che accadono nel sistema nervoso. E come emergono? In qualche modo complesso, rispondono, un’altra parolina da loro amata. Per la gente comune complesso significa difficile (e anche, qualche volta, impossibile) da capire; i materialisti invece capiscono, solo che non riescono a ricreare artificialmente dalla materia l’“emergenza” immateriale per il ruolo decisivo che avrebbe nei fenomeni complessi la contingenza, aggiungono, la terza ed ultima loro parolina magica. E come giustificano le loro affermazioni? Con la scienza, naturalmente. E allora parliamo di scienza, di scienza naturale naturalmente.
La scienza naturale non è nata con Galileo, c’era già nel Mediterraneo e in Europa almeno da 2.000 anni con Ippocrate, Aristotele, Archimede, Dioscoride, Tolomeo, Andronico, Filopono, Avicenna, Grossatesta… Galileo ebbe il merito di separare chiaramente la scienza naturale dal resto della filosofia, escludendo i qualia e la teleologia e definendo le specifiche procedure sulle grandezze. Nella terza lettera a Mark Welser (“Delle macchie del Sole, nella quale anco si tratta di Venere, della Luna e pianeti Medicei, e si scoprono nuove apparenze di Saturno”, 1 dicembre 1612), il pisano spiega chiaramente di non voler “tentar le essenze” delle cose, per limitarsi agli aspetti misurabili (le “affezioni”) e cercarne le relazioni numeriche. Il metodo scientifico sta in due tipi di operazioni:
- le “sensate esperienze”, vale a dire “ripetute” osservazioni delle affezioni per ricavare numeri (i dati), da realizzarsi attraverso i sensi, supportati da strumenti, come aste, orologi e cannocchiali;
- le “necessarie dimostrazioni”, che colleghino ipotizzate relazioni numeriche (le teorie) a nuove osservazioni, utili a controllare le previsioni delle teorie.
Le affezioni – i dati – hanno il vantaggio di essere oggettivabili in un numero e così uguali per tutti. Per esempio, affezioni delle macchie solari sono “il luogo, il moto, la figura, la grandezza, l’opacità, la mutabilità, la produzione e il dissolvimento”, tutti aspetti rapportabili a campioni omogenei e pertanto misurabili. Una macchia solare si riduce ad un’n-pla di numeri (a1, a2, …, an), ad indicare ordinatamente le coordinate della macchia, la sua velocità, l’area, ecc., e le teorie consistono in equazioni ipotizzate su quelle n-ple.
Gli inventori della scienza moderna (Galileo, Newton, Descartes, Pascal, Leibniz, ecc.) erano riduzionisti metodologici: neanche si sognavano, a differenza dei riduzionisti ontologici di oggi, che la macchia solare reale coincidesse con l’n-pla della fisica, né più né meno che nessuna persona di buon senso identifica la visione intersoggettiva del giallo solare con il numero ai = 570 (i nanometri della lunghezza d’onda elettromagnetica corrispondente), né identifica le riflessioni che tu, Lettore, ed io stiamo facendo in questo momento con le reazioni fisico-chimiche dei nostri neuroni! Anzi, quei padri fondatori non solo credevano ai qualia (la “res cogitans”) e alle cause finali, ma avevano esplicitamente basato la nuova scienza (v. il mio articolo I sottintesi teologici della scienza moderna) sull’esistenza di altri enti, invisibili oltre che non misurabili. Metafisici e teologici.
Fuori del metodo scientifico, il riduzionismo è una scelta arbitraria. La quale comincia dal significato di ragione, ridotta a processore logico e privata dell’intuizione e di ogni forma di sapienza contemplativa. Fatto questo passo, il successivo è immediato: gli oggetti sarebbero moltiplicati dall’intuizione, appunto, dal desiderio o dall’immaginazione. Eppure è facile dimostrare che il riduzionismo ontologico è autocontraddittorio e che l’esistenza di molte più cose di quante possiamo immaginare ci proviene dalle tre caratteristiche umane più apprezzate: la capacità di pensare qualcosa come vero, di scegliere qualcosa come giusto e di apprezzare qualcosa come bello.
“Ci sono più cose in cielo e in terra di quante sogni la tua filosofia”, dice l’Amleto di Shakespeare, coetaneo di Galileo, a Orazio. Secondo i riduzionisti invece, si sbaglia a credere a troppe cose. Cosicché il ruolo dell’educazione dei giovani, da far svolgere alla tecnoscienza piuttosto che alla filosofia data la difficoltà al ben ragionare necessario in questa rispetto alla facilità d’uso dei gingilli di quella, è oggi la smitizzazione del senso comune. Ma non è questo l’esatto opposto di e-ducere (= portar fuori, in latino)? Nel pensiero classico, l’educazione era l’operazione di guidare lo studente fuori da un sistema d’idee angusto verso un mondo radicalmente più ampio. Per Platone ad esempio, la realtà ha più delle due dimensioni – la materia oggettiva e la mente soggettiva – in cui si crede dalla nascita; vuol dire immaginare altre dimensioni, a partire da quella delle Idee. La caverna di Platone, la metafora più famosa in tutta la storia della filosofia, e la teoria delle Idee, la teoria più famosa in tutta la storia della filosofia, spiegavano addirittura che non c’è solo un altro mondo, ma un intero genere di mondi oltre la coscienza di ognuno di noi e la materia resistente davanti a noi. L’educazione classica espandeva il pensiero da 2 ad infinite dimensioni, quella tecnica moderna lo comprime da 2 a 1. Con tendenza postmoderna verso 0, il nulla.
Forse Shakespeare, quando mise in bocca ad Amleto la succitata frase, non stava pensando alle Forme platoniche, ma ai fantasmi, cui il ragazzo di Ofelia credeva per aver incontrato lo spettro di suo padre, ma di cui Orazio dubitava, come la maggior parte di noi; o stava rimuginando sulla sopravvivenza dell’anima (“Essere o non essere, …”). Una convinzione però Platone e Shakespeare condividevano, che il comune pensare non erra a credere nell’esistenza di troppe cose, ma di troppo poche. La tendenza a ridurre, utile entro il metodo galileiano, risale al nominalismo di Occam che negava l’esistenza di universali oggettivi e pose il principio della parsimonia come un criterio di scelta tra teorie contrapposte. Ma ridurre è un’opzione arbitraria fuori del metodo scientifico, ed anzi controproducente quando si pretenda non tanto di simulare ciò che accade in natura in vista dell’utilità, ma piuttosto di sapere ciò che vi è accaduto in vista della verità. Gli eventi del passato sono immutabili, cristallizzano una verità permanente che, ammesso si possa trovare, va ricercata senza economie. Nessuno storico indaga, né alcun tribunale sentenzia sul passato in base al criterio dell’ipotesi più semplice!
Le “ripetute” esperienze della lettera a Welser alludono alla procedura induttiva della scienza naturale, volta ad ottimizzare la corrispondenza tra teorie e dati. I limiti epistemici dell’induzione sono però noti: aver osservato finora solo cigni bianchi non esclude l’esistenza da qualche parte di cigni d’altro colore. Nelle sue indimenticabili Lectures on Physics (1964 e segg.) Feynman scriveva: “Se le predizioni della nostra intuizione sono in accordo con gli esperimenti, possiamo dire che è giusta? No, semplicemente non siamo riusciti a dimostrare che è sbagliata, ma c’è sempre la possibilità che in futuro nuovi esperimenti la dimostrino sbagliata … Nella teoria di Newton, per secoli nessuno trovò una discrepanza con le osservazioni dei pianeti, fino a che un minuscolo errore fu trovato … Una teoria scientifica può essere considerata temporaneamente giusta, ma mai essa è dimostrata”. 25 anni prima l’aveva detto Popper e 700 anni prima ancora Tommaso d’Aquino: “Ci sono due modi diversi di render conto di una cosa. Il primo consiste nello stabilire con una dimostrazione sufficiente l’esattezza di un principio da cui la cosa deriva … Il secondo, non dimostrando il suo principio con una prova sufficiente, ma mostrando come gli effetti si accordino a un principio precedentemente posto. Così, in astronomia si rende conto degli eccentrici e degli epicicli per il fatto che, con queste ipotesi, si possono salvare le osservazioni relative ai moti celesti; ma non è questo un motivo sufficientemente probante, perché questi moti apparenti si potrebbero salvare per mezzo di un’altra ipotesi” (ST, I, q. XXXII, a. 1). Eh già, Dottore Angelico, tutte le traiettorie celesti descritte nella teoria copernicana sono descrivibili (con equazioni diverse, meno semplici) in quella tolemaica! Idem in meccanica quantistica, abbiamo visto in un recente articolo, dove teorie opposte in alcuni postulati fanno le stesse identiche predizioni. Quanto ai fini, non è che la scienza non li ha trovati in natura, è che proprio non può trovarli col suo armamentario, anche quando fossero evidenti ad un bambino…
“Ciò che non posso creare, non lo capisco”: la lavagna di Feynman del 14 febbraio 1988, il giorno prima della sua morte.
Per il suo canone riduzionistico e induttivo, la scienza non dà verità, ma potenza sulla natura. Una potenza sotto gli occhi di tutti che rappresenta l’unica ragione per cui Homo sapiens può attribuirsi un’evoluzione, rispetto alle altre specie viventi incatenate al ciclo eterno di stagioni sempre uguali: il progresso tecnologico. Le api non evolvono, gli apicultori sì. Il progresso tecnologico è il frutto di teorie replicabili, risultanti in tecnologie – meccaniche, chimiche, elettriche, elettroniche, atomiche, ecc. – integrabili e ricomponibili prima in laboratorio e poi in fabbrica, cresciute gradualmente l’una sull’altra come piramidi di atleti circensi. Per loro mezzo la tecnoscienza ci permette di simulare gli accadimenti fisici e di controllare la natura almeno in parte, a nostro vantaggio. Ma se una teoria materialistica non è, per qualsiasi ragione, replicabile, che cos’è? che cosa sono tutte le teorie contenenti “se”, “potrebbe”, “è possibile che”, ecc. che riempiono da anni le riviste scientifiche senza uno straccio di applicazione? La mia risposta è che si tratta solo di letteratura (poiesis), di miti portati avanti spesso con la passione che si riserva alla verità, una parola che nessuno pronuncia seriamente nemmeno in presenza della teoria scientifica più corroborata e fertile.
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28 commenti
Grazie Girogio per questo articolo (e rimpiango di non aver letto quello sua meecanica quantistica del 15 maggio scorso a causa dell’impossobilità che avevo di connettermi sulla pagina di CS)
Sul fondo della tua tesi siamo d’accordo e cioè che il discorso scientifico non ha come vocazione quella di cercare la verità, ma di essere uno strumento (socialmente) efficace capace di predizioni suffficienti nel contesto storico e tecnologico nel quale si imposta. Una teoria scientifica incapace di predizioni e di falsificazioni è un magma ideologico puro.
Personalmente sono un anti-platonico assoluto.
Vorrei giusto commentare un paio di punti tuoi, secondari rispetto alla tua dimostrazione, ma che meritano secondo me una riflessione a parte:
(1) Il tempo non esiste in sé e in questo ben capisco Rovelli (tra ‘altro in una società che ha deciso di fare tabula rasa del passato e della fine dell’umano il solo progetto, non c’è più bisogno di questa nozione), però il cambiamento esiste in sé: le equazioni di moto possono essere espresse senza la nozione di tempo (e di spazio) e descrivono esattamente lo stesso sistema fisico guardando all’impulsione di ogni particella e all’energia.
(2) Le nozioni di fenomeni emergenti sono una scusa per fare abdicare la ragion scientifica dal dover rednere conto del fenomeno considerato: è cioè la proiezione verso il futuro dell’anti-scientifico assunto che nel passato non c’è stata causalità ma sola casualità (il che è l’equivalente di dire che il tempo non esiste)
(3) Rispetto a quel tuo articolo su EPR che ho scoperto solo oggi ma che citi, vorrei fare un’osservazione che in un certo modo si connette al tuo osservare che oltre all’aut aut c’è il vel vel: in realtà, la problematica sollevata da EP risiede essenzialmente nel fatto che si solo ricorra ad un sottoinsieme dei sillogismi aristotelici e quella corrispondente all’algebra booleana. Questa scelta, efficace nel contesto socio-storico ai tempi di Boole in seguito a Newton, è però non giustificata a comprova quando, descrivendo EPR i sillogismi booleani non sono capaci di renderne conto, mentre quelli aristotelici, in cui il termine medio deve essere provato esistere in realtà, ne sono capaci. Il mondo reale “è” aristotelico.
Grazie, Simon.
Nemmeno io sono platonico, però stimo molto Platone (credo che abbia affrontato tutte le questioni di filosofia e che dopo di lui nessun’altra si sia immaginata) e qui l’ho citato soltanto per mettere a confronto l’approccio classico multidimensionale del pensare e quello moderno monodimensionale (tecnico).
Quanto al tempo, tutte le “grandezze” della fisica (la massa, la lunghezza, la carica elettrica, ecc.) sono idealizzazioni della realtà. Però ti chiedo: come potresti enunciare il secondo principio della termodinamica senza il tempo?
Andrei a pizzicarla da Shannon, tipo: qualunque cambiamento in un sistema chiuso implica perdita di informazione nello stesso o, perlomeno, non ne crea nuova.
Mi pare, Simon, che col secondo principio così ri-enunciato, nelle parole “cambiamento” e “perdita” sia già implicita la freccia del tempo…, ma mi sbaglierò!
Il cambiamento, cioè il passaggio dalla potenza all’atto, non è dipendente da nessuna nozione temporale a priori: ad esempio i cinque postulati della geometria euclidea contengono in potenza tutte le situazioni geometricamente possibili in uno spazio euclideo. I teoremi e lemmi che se ne deducono ne sono un’attuazione possibile: non è la stessa cosa enunciare solo i cinque postulati o un insieme di teoremi da essi dipendenti: vi è dunque un cambiamento, nell’ordine della logica che non è temporale. Detto ciò prendendo certi teoremi come postulati non è sempre possibile dimostrare i cinque postualti fondanti , vi è quindi perdita di informazione nell’ordine logico (se tutte le dimostrazioni fossero dello stile ” se e solamente se” avremmo conservazione dellinformazione iniziale) e crescita di entropia.
Leggere un articolo così è un vero piacere ma anche un impegno a riflettere.
Scusate per la lunghezza. L’asterisco significa citazione.
* Ad un fenomeno misurabile si può associare un numero.
Definizione di misurabile. Ci sono fenomeni cui non si può associare sensatamente un numero.
* Basta avere per ogni tipo di grandezza un’unità di riferimento…
Condizione sufficiente, ma non necessaria. Per alcuni fenomeni non si hanno unità di misura specifiche ma sono possibili ordinamenti abbastanza ripetibili per cui la misura della qualità è assunta uguale posizione.
* Oggi, alcuni filosofi e scienziati hanno perso il buon senso…
Particolarmente quelli che si son messi a filosofare?
* il materialismo, il credo secondo cui [] le stesse sensazioni [] si possono spiegare con, o ridurre a, fenomeni materiali.
Forse per le sensazioni è possibile. Come definiamo sensazione? Come la distinguiamo da sentimento?
* Per il materialista [] la religione non è altro che superstizione
Non sono d’accordo neppure alcuni non credenti ma intelligenti.
Von Mises in uno dei suoi ultimi libri e in una sola riga si dichiarò non credente. Eppure considerava la religione con grande rispetto per due caratteristiche, primo: la sostanziale stabilità che permette l’accumulo di esperienza sulle norme del convivere e secondo: una prudente capacità di adattarsi a situazioni nuove. Insomma, non tutti gli atei sono beceri e violenti. E non tutti i credenti sono potabili.
* [Per i materialisti] La coscienza e le sensazioni emergono [] dai fenomeni fisico-chimici …
Dipende da cosa si intende per sensazione. Ritengo che molti animali abbiano “coscienza di sé” e provino empatia. Mi ripugna pensare che noi siamo solo un fenomeno fisico-chimico quanto meno perché la natura è innocente, ma l’uomo no.
* Galileo ebbe il merito di separare chiaramente la scienza naturale dal resto della filosofia, …
La filosofia inizialmente era tutto ma gradualmente se ne sono distaccate la geometria, la matematica, la logica. Oltre alla filosofia naturale, cioè tutte le scienze. Divisione del lavoro? Forse molto di più.
* escludendo i qualia e la teleologia e definendo le specifiche procedure sulle grandezze …
Alcuni qualia sono trattabili con ordinamenti. Forse allora smettono di essere tali o forse no, dipende dalla definizione. Per me è decisivo il fatto procedurale. Mi dispiace che le definizioni operative non siano più di moda.
* Gli inventori della scienza moderna [ ] erano riduzionisti metodologici: neanche si sognavano
[di essere] riduzionisti ontologici
I riduzionisti ontologici sono gli stessi che hanno trasformato la fisica in metafisica? Nemesi storica?
Grazie, Mojoli.
Gli animali hanno un’anima, proprio perché provano sensazioni. E considero molto profonda la tua considerazione sulla non-innocenza dell’uomo – la responsabilità etica – come manifestazione di non esclusiva materialità.
Dispiace anche a me che le definizioni operative non siano più di moda negli articoli scientifici, ci risparmierebbero tanta fuffa… e cattiva letteratura.
Grazie a te per l’articolo. Ma, visto che sono cattivo e più noioso di Nestore, ecco il seguito. Se vorrai criticare, imparerò di più, anche a esprimermi meglio.
* … nessuna persona di buon senso identifica la visione intersoggettiva del giallo solare con il numero ai = 570 (i nanometri della lunghezza d’onda elettromagnetica corrispondente),
Io manco di buon senso. La visione intersoggettiva comune ai non daltonici per me non è quella cosa che accade nel cervello, ma il fatto che diciamo tutti giallo quando ci mostrano un cartoncino giallo. E’ quella cosa che definiamo meglio osservando lo spettro e benissimo nel caso di una riga p.e. 570 nm.
* I sottintesi teologici della scienza moderna
Ottimo articolo. Il titolo fa sobbalzare. Ma si scopre che non è provocatorio e basta. Mi ha fatto anche ripensare a T. Kuhn. La scienza non nasce dal nulla. Come la geometria deve pur iniziare da postulati.
Un tempo tali postulati erano ritenuti verità assolute, oggi no. Esistono diverse geometrie. Però sembra ancora (e forse sarà per sempre) irrinunciabile la necessità (esaudita) di un inizio al nostro ragionare.
* Fuori del metodo scientifico, il riduzionismo è una scelta arbitraria.
La filosofia è arbitraria almeno nel senso banale che due filosofi difficilmente concordano. Per altro anche i modelli scientifici sono arbitrari. Si accettano se funzionano e sono in precario equilibrio nel mezzo tra non predire nulla e spiegare tutto.
* tre caratteristiche umane più apprezzate: la capacità di pensare qualcosa come vero, di scegliere qualcosa come giusto e di apprezzare qualcosa come bello.
Doloroso costatare che il bello sia in cattiva salute, come l’Autore ha descritto altrove. Quanto al vero non è di moda il nostro, ma si accettano volontieri intransigenti verità altrui.
* Secondo i riduzionisti [] l’educazione dei giovani [è] da far svolgere alla tecnoscienza piuttosto che alla filosofia data la difficoltà al ben ragionare [] di questa rispetto alla facilità d’uso dei gingilli di quella
I gingilli hanno portato a durate di attenzione di una manciata di secondi, si veda M. Spitzer, medico, in Demenza digitale e Solitudine digitale. Poi si confronti con Michel Serres, filosofo. Non solo di gingilli si tratta. Già venti anni fa una professoressa di matematica mi diceva: ho rinunciato a pretendere le dimostrazioni, ma le definizioni le pretendo! Immagino abbia rinunciato. Rimango della opinione che quasi tutte le dimostrazioni matematiche siano ragionamenti più impegnativi di quasi tutti i sillogismi.
* L’educazione classica espandeva il pensiero
Purché non si confonda educazione classica con liceo classo… Leopardi si estende fino allo Zibaldone.
V. Pareto, Regio Istituto Tecnico, Scuola di Applicazione per Ingegneri, incolto? B. Croce unico colto il Italia? E che dire del classicissimo Hegel, particolarmente quello di “Filosofia della natura”?
* I limiti epistemici dell’induzione sono però noti
Li ha imparati anche il cappone induttivista il giorno del ringraziamento.
* Feynman [] Popper [] e 700 anni prima ancora Tommaso d’Aquino
Ottimo aver ricordato le parole di Tommaso, impressionanti. Oggi si svaluta tutto il passato, compreso Popper (è superato!). Opportuno quindi accostalo a Feynmann.
* la scienza non dà verità, ma potenza sulla natura [] progresso tecnologico.
E’ così, questo è il suo limite intrinseco. Però insegna il rispetto della verità.
* Le api non evolvono, gli apicultori sì.
Vero, ma non ne farei una asserzione assoluta. La cornacchia che ha imparato a raccogliere una noce, alzarsi in volo, farla cadere sulla strada e non sul prato, così si rompe e lei la mangia, non avrà inventato, ma ha imparato, evidentemente dopo la comparsa di uomo e strade.
* che cosa sono tutte le teorie contenenti “se”, “potrebbe”, “è possibile che”
Immagino siano congetture. Se sono sensate.
Devo confessare una mia debolezza. Ogni volta che vedo un articolo iniziare con una lode del buon senso mi viene in mente una lettura che feci anni fa. Un saggio che conteneva diversi richiami al buon senso, contrapposto alla mentalità scientifica. Un saggio che citava Bacon, Descartes, Netwon, Locke e Smith come i principali responsabili del paradigma del mondo meccanico, che secondo l’autore ha intossicato la nostra società negando, fra le altre cose, il concetto di trascendenza e di spiritualità.
Quel saggio era Entropia, di Jeremy Rifkin, a lungo considerato un guru di una certa visione del mondo no global. Leggerlo fu un’esperienza pesante, viste le sciocchezze che c’erano scritte, ma anche molto istruttiva. Da allora, ogni volta che leggo un testo che parla di scienza inizando con una lode al buon senso, mi torna in mente Rifkin. È un pregiudizio, lo so. Ma quando si parla di scienza — o meglio, quando se ne parla seriamente, non chiacchierando al bar — il buon senso dovrebbe essere trattato con estrema prudenza. Perché se scienziati come Einstein, Bohr, Darwin o Keplero, giusto per nominarne alcuni, si fossero limitati al buon senso, oggi non parleremmo di loro e delle loro grandi conquiste scientifiche.
Fatta questa premessa, passo ad alcune osservazioni e domande su questo articolo:
1- Perché parla con toni vagamente derisori di complessità? Perché la tratta come se fosse una parolina magica usata per giustificare un sistema di pensiero? Lo trovo curioso, contando che lei in passato ha più volte citato uno scienziato come Stuart Kauffman, che la complessità la studia seriamente e che credo rabbrividirebbe nel sentirla definire così. E lo dico perché con Kauffman ho parlato di persona di complessità e riduzionismo. Complessità ed emergenza sono temi scientificamente molto interessanti, che peraltro si discostano dalle interpretazioni più rigidamente riduttive.
2- Oltre ai due tipi di riduzionismo da lei citati, quello metodologico e quello ontologico, ce n’è anche un terzo, quello epistemologico, che vede le scienze messe in una sorta di “gerarchia crescente di purezza”, per cui chi sta in cima (matematici e fisici) ritiene che la sola vera scienza sia quella che fanno loro, mentre le discipline che stanno sotto (per esempio la biologia) sono meno precise e, talvolta, meno scientifiche. Non che tutti i matematici e i fisici la pensino così, anzi. Però questo pregiudizio esiste ed è molto fallace, poiché non tiene conto delle ovvie differenze fra le diverse discipline. Ed è comunque una forma di riduzionismo, che lei, in quanto fisico, ha spesso applicato.
3- Lei afferma che gli inventori della scienza moderna neanche si sognavano di avere un approccio materialista, ma ragionavano sull’esistenza di enti invisibili e non misurabili. La sua tesi quindi è che Galileo o Newton avrebbero criticato i riduzionisti ontologici di oggi. Però attenzione, Galileo o Newton non sapevano che gli esseri viventi sono fatti di cellule, che esistono gli atomi (non quelli di Lucrezio, quelli di Dalton e Bohr), che i neuroni trasmettono impulsi elettrici, che esiste il genoma, che esistono le onde gravitazionali e via dicendo. Se avessero conosciuto tutte queste cose, siamo sicuri che avrebbero continuato a parlare di enti invisibili e non misurabili? Quando Descartes colloca la sede dell’anima nella ghiandola pineale, non sta forse applicando un principio riduzionista (in linea con le conoscenze del tempo)? Se Descartes avesse saputo dell’esistenza dei neuroni, delle sinapsi e dei neurotrasmettitori, non pensa che avrebbe potuto considerarli la sede dell’anima? Voglio dire, Descartes. Il padre del meccanicismo biologico.
4- Lei ha citato Feynman. Lo ha già fatto in passato (https://www.enzopennetta.it/2017/05/teoria-delle-risonanze-evolutive/#comment-3315854637), parlando dell’importanza che dava alla reproducibility, che lei definiva così: “la scienza naturale deve poter vagliare, riproducendole artificialmente in laboratori controllati da gruppi diversi, le sue predizioni”. Concetto che per lei è ribadito dalla frase della lavagna, “What I cannot create, I do not understand”. Però la reproducibility, per Feynman, non significava poter rifare un esperimento in laboratorio. Per Feynman (e non solo per lui), il metodo scientifico si basa sul formulare ipotesi per poi confrontarle con esperimenti o osservazioni. Esperimenti o osservazioni. Che devono essere riproducibili, nel senso di ripetibili. Quindi non è vero che per lui un’ipotesi era scientifica solo se la si poteva ricreare in laboratorio.
5- Se ho capito bene, l’unica ragione per cui Homo sapiens può attribuirsi un’evoluzione, rispetto alle altre specie viventi incatenate al ciclo eterno di stagioni sempre uguali, sarebbe il progresso tecnologico generato dalla scienza. È così? Se sì, che significato dà alla parola “evoluzione” in questa sua frase? Cosa significa che “le api non evolvono, gli apicultori sì”?
6- La scienza non si misura solo nella sua applicazione tecnologica. L’obiettivo della scienza è la conoscenza (cosa ben diversa dalla ricerca della verità), e su questo sono abbastanza d’accordo che gente come Galileo, Newton, Descartes, ma anche Feynman e Popper, sarebbero d’accordo con me. Le applicazioni tecnologiche sono spesso byproduct della ricerca di base, e se c’è un problema della ricerca attuale è proprio l’ossessione per le applicazioni immediate, che portano a una problematica riduzione dei fondi destinati alla ricerca di base, quella curiosity-driven. Quella fondamentale. Quella che facevano Galileo e Newton. Che poi sulle riviste scientifiche ci siano tanti paper inconsistenti dal punto di vista scientifico è tutt’altra questione, su cui sono pienamente d’accordo con lei. Proprio oggi ho partecipato a un corso di comunicazione della scienza all’Università di Milano, dove io e altri relatori abbiamo spiegato anche questo agli studenti, citando Ioannidis e tanti altri, parlando di contraffazioni, plagio e statistiche manipolate. Cosa di cui bisogna parlare proprio per migliorare l’efficienza del processo scientifico.
Però, di nuovo, lei gira intorno al significato di riproducibilità, che va inteso come lo intendeva davvero Feynman, e cioé ripetibilità degli esperimenti o delle osservazioni, e non come ricreazione di un fenomeno in laboratorio. Che poi è la stessa idea di reproducibility che hanno all’NIH e in tanti altri istituti di ricerca.
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Infine, io capisco che a lei non piacciano le filosofie materialiste e ovviamente non ho nessuna intenzione di farle cambiare idea a riguardo. Però un conto è criticare le filosofie materialiste, un conto è la demolizione sistematica dell’approccio scientifico riduzionista, in nome di una presunta purezza che esisteva nel Seicento (quando gli scienziati erano tutti credenti) e che ora è andata persa.
La ringrazio molto, Greylines, per il tempo che ha dedicato a commentare il mio articolo. Penso che la divergenza tra noi non sia tanto nominalistica – riguardante ciò che è scienza e cosa no -, ma piuttosto che cosa significhi “conoscenza” e come si possa conseguire. Io ho perso d’improvviso la fede sulla capacità della scienza di dare una conoscenza, anche minima e parziale, delle cose. Come avvenne, ne parlerò in un futuro articolo. Ora sono convinto che tutta la scienza è mito, racconto in cui una società si rappresenta in un momento storico, sia la scienza riproducibile e applicativa, e tanto più quella che tratta di fenomeni complessi e irriproducibili.
“ho perso la fede sulla capacità della scienza di dare conoscenza”…
Lo stesso dubbio l’ebbi anch’io. Ma la conseguenza sembra essere che non esista conoscenza oggettiva, ma solo soggettiva. Oppure che non esista l’io.
pi greco non è un numero irrazionale?
Grazie prof.Masiero per questo suo articolo che tocca temi epistemologici di grande rilevanza, quanta riflessione, quanti elementi di analisi. Certamente, come detto più volte, io ho una visione della scienza un pò diversa dalla sua e molto più vicina, anzi direi sovrapponibile a quella di Greylines, che ringrazio a sua volta davvero tanto per il suo sempre prezioso contributo, che, anche in questo caso, sottoscrivo abbondantemente. Tuttavia il suo pensiero, prof. Masiero, non mi lascia mai indifferente e mi spinge a pormi sempre nuovi interrogativi. Ad esempio sui veri motivi che spingono una persona intelligente e colta come lei a non avere fiducia nella scienza (naturale, sperimentale) e a definirla mito quando in realtà è proprio il suo contrario, o sul perché, se la scienza ha ovviamente dei limiti e non ne fa alcun mistero, questi limiti dovrebbero invece essere oltrepassati da altre forme del sapere. Perché alla fine, a parte i dettagli sulla definizione di riduzionismo o di materialismo, o sulla storia della scienza e delle teorie scientifiche che possono anche lasciare spazio a interpretazioni non del tutto univoche, è questo che mi interessa, capire veramente il PERCHE’ alcune persone (poche per la verità direi), ma anche molto intelligenti e che conoscono la scienza, non hanno una visione come la mia, o quella di Greylines, o quella della maggior parte degli scienziati e soprattutto sembrano affidare il ruolo principale di produzione di conoscenza ad altre forme di sapere, principalmente filosofiche e teologiche (magari anche molto datate, peraltro). Questo almeno è quanto mi sembra di capire.
La ringrazio, Vomiero, per il Suo intervento, che è quello tra tutti che mi ha procurato più soddisfazione. Se posso con un articolo sollecitare l’interesse e provocare nuove riflessioni nel lettore, pur senza convertirlo alle mie idee, il mio scopo è raggiunto!
I temi che ho qui trattato – il filo che separa la scienza dal naturalismo e il rapporto tra scienza e conoscenza – sono entrambi filosofici, non scientifici. L’opinione degli scienziati a riguardo non ha pertanto, a mio parere, più importanza di quella che può avere il pensiero di un artigiano del vetro, d’un idraulico o d’un elettricista. Conta eventualmente, a riguardo, solo l’opinione dei filosofi. Dico ciò non per rafforzare le mie convinzioni rispetto alle Sue o a quelle di Greylines, che considero ugualmente rispettabili alle mie in ambito filosofico, ma per dovere di respingere l’onore che Lei mi fa di condurre una battaglia eroicamente solitaria. Per quanto so e vivo (in un ambiente molto “materiale”, Le confesso), la concezione della scienza come mito della società contemporanea è condivisa dalla maggioranza degli epistemologi moderni, da Feyerabend a Kuhn a Quine a Putnam, ecc., ma non lo posso affermare con certezza, non avendo statistiche in proposito. Certamente la mia è una posizione largamente condivisa in ambito filosofico, presente in tutte le correnti, naturalistiche e non, sulla quale non mi fregio di alcuna originalità.
Lei e Greylines mi ricordate, con le vostre posizioni “ingenue”, la mia gioventù, quando laureando e poi da laureato ponevo grandi certezze nelle capacità epistemiche della fisica, oltreché nelle sue indiscutibili e anche terribili potenze. Poi un giorno l’illuminazione, proprio nella regina “dura” delle scienze naturali, proprio nella teoria più bella, semplice e potente – la relatività generale – della fisica! Ci arrivai da solo; come? Lo racconterò, presto. E la fede, che sarebbe venuta – anzi ritornata – molti anni dopo non vi ebbe alcun ruolo. Solo la ragione lo ebbe, la quale mi portò anche a capire che
le sorgenti della conoscenza sono molto più antiche, “datate”, Lei ha ragione, e risalgono
alla Grecia di 2.500 anni fa.
Affascinante il suo diario.”Solo la Ragione lo ebbe e la Fede sarebbe ritornata molti anni dopo”Siamo solo all’inizio di almeno 1 milione di anni di studi,ricerche,scoperte scientifiche ,un pò di modestia,nell’uomo contemporaneo(non mi riferisco a lei)potrebbe essere necessaria.
Per quanto so e vivo (in un ambiente molto “materiale”, Le confesso), la
concezione della scienza come mito della società contemporanea è
condivisa dalla maggioranza degli epistemologi moderni, da Feyerabend a
Kuhn a Quine a Putnam
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Aggiungo anche il filosofo Vahininger, che forse e` stato il primo a introdurre il concetto di “finzione”; cItazione e mia traduzione:
„Das menschliche Vorstellungsgebilde der Welt ist ein ungeheures Gewebe
von Fiktionen voll logischer Widersprüche, d. h. von wissenschaftlichen
Erdichtungen zu praktischen Zwecken bzw. von inadäquaten, subjektiven,
bildlichen Vorstellungsweisen, deren Zusammentreffen mit der
Wirklichkeit von vornherein ausgeschlossen ist.“
“Il quadro esplicativo che l`uomo si e` fatto del mondo e` un colossale intreccio di finzioni pieno di contraddizioni logiche; cioe` di affabulazioni scientifiche [adottate] per scopi pratici; vale a dire di limitate, personali, metaforiche rappresentazioni, la cui coincidenza con la realta` e` da escludere in partenza.”
Lovinski
Perfetto. Grazie ancora, Lovinski.
La ringrazio prof. Masiero quando leggo i suoi articoli volo sempre in alto.
Grazie a Lei, AndreAX.
Sulla differenza tra /pregiudizio/ e /metodo/ materialista, vorrei estrapolare una citazione di Einstein (in origine sulla definizione di simultaneita`):
“… ist in Wahrheit keine /Voraussetzung oder Hypothese/ ueber die physikalische Natur des Lichtes, sondern eine /Festsetzung/ die ich nach freies Ermessen treffen kann, um zu einer Definition der Gleichzeitkeit zu gelangen.”
Che parafraso in questo modo:
“[il materialismo] in verita` non e` un /presupposto o un`ipotesi/ sulla natura del mondo, ma piuttosto uno stabilimento deciso a discrezione dello scienziato, per arrivare [a risultati nel suo ambito di ricerca]”
(le mie aggiunte tra parentesi quadre)
Notare i due termini in tedesco: “Voraussetzung” = presupposto o dato, e “Festsetzung” = fissato.
“Stabilimento” suona male (per colpa dei francesi) ma il primo significato in italiano e`:”l’atto, il fatto di stabilire o di venire stabilito, (Treccani)
Lovinksi
Grazie, guest, per questa citazione di Einstein che non conoscevo.
Gentile dott. Masiero, grazie per questo Suo ulteriore contributo che risulta stimolante e provocante allo stesso tempo. Lei dice che la scienza sperimentale ” non dà verità ma potenza sulla natura”. Ma mi chiedo: questo potere sulla natura che ci viene dalla ” scoperta” e dalla applicazione di leggi fisiche non ha qualcosa a che fare con una qualche verità, anche se approssimata e perfettibile all’ infinito? Questa verità, che inseguiamo dal momento che cominciamo a riflettere, non è comunque accessibile solo parzialmente e imperfettamente anche in filosofia e in teologia? Quale verità è accessibile totalmente e completamente all’ essere umano? Con quale metodo? Personalmente non ho risposte, mi viene solo in mente un piccolo bambino in braccio alla madre, lui , senza studio e senza saper parlare attinge in modo profondo alla verità!
Aggiungo una ultima considerazione, non è che la sua polemica contro il mito della scienza nasce dal disgusto, che condivido, sulla trasformazione che si è fatta di un metodo di pensiero di grande rigore e qualità, in una moderna divinità a cui prostrarsi adoranti?
Io amo, Cacioppo, la tecno-scienza, sia nella parte teorico-matematica (che mi restituisce un senso della bellezza come l’arte), sia nella parte applicativa e ingegneristica, di cui tutti ammiriamo la potenza. E proprio perché la amo per ciò che è, la voglio difendere da ciò che non è e per cui la si vuol usare: da supporto ad un naturalismo filosofico che infine coincide col nichilismo e il relativismo, distruttori dell’eccezione umana.
Quando dico che pi greco è un numero irrazionale e trascendente, lo so – lo vedo – con la perfezione di Dio. E come in matematica, ci sono altre scienze non sperimentali, su cui possiamo raggiungere con perfezione, o almeno con graduale perfettibilità, alcune verità.
Le scienze sperimentali invece – per i limiti del metodo induttivo, come per primo spiegò Tommaso, e per il principio di Occam che hanno sussunto nel ‘600, aggiungo – non possono dare né solo avvicinare la verità delle cose, e nemmeno la conoscenza quindi, nella mia concezione del termine. In questo giudizio negativo, mi riferisco alle varie teorie scientifiche (teorie opposte, anzi infinite teorie diverse, possono sempre sul piano logico dare le stesse predizioni!) …, non alla raccolta dei dati, che invece da sempre accresce la nostra conoscenza/esperienza!
Come si spiega la potenza della tecno-scienza? Lei chiede. La teoria scientifica, entro i limiti in cui mostra successo, ci permette di simulare il comportamento della natura in un aspetto. La teoria scientifica è un modello di un aspetto della natura. Ma un modello non ci dice nulla di come funzioni realmente la natura, più di quanto una bambola ipertecnologica rappresenti una bambina.
Lei crede, Masiero, che Tommaso avrebbe ritenute valide le critiche all’induzione così come formulate dai moderni ed esemplificate da cigni bianchi/neri, tacchini induttivisti, oggetti grue/bleen, etc?
Non saprei, viaNegativa: Lei su Tommaso ne sa molto più e meglio di me, quindi mi aspetto da Lei la risposta! Ho citato quel passaggio di Tommaso perché egli va lì al cuore, secondo me, con 7 secoli di anticipo su Popper, dell’assenza di verità in teorie imbastite a posteriori per far combaciare i dati. Ed oggi la fisica ne è piena, solo che… sono falsificate al 95% e per giunta sono logicamente incompatibili tra loro!
Temo, Masiero, che lei stia interpretando il pensiero di Tommaso con le lenti della modernità, ma così facendo lo fraintende. E quel che è peggio, a mio avviso, è che lo fraintende proprio su quei punti che potrebbero darle il la per rivedere le sue posizioni sul valore di conoscenza della scienza.
Comunque, senza dilungarmi troppo, una risposta netta alla domanda che le ho posto: no, non le avrebbe ritenute valide siffatte critiche e avrebbe aggiunto, dispiacendosene immagino, che la sua lezione è rimasta inascoltata. Egli infatti il “problema dell’induzione” lo conosceva già (sotto altro nome, certo) e aveva anche già indicato la via d’uscita, che non è stata seguita. [La cosa comunque non sorprenda, Gilson ha abbondantemente documentato come la Scolastica tardo medievale sia stata poco influenzata dall’Aquinate, specialmente per quanto riguarda la sua lettura della logica e della fisica aristoteliche. In pratica il tomismo medievale, e buona parte di quello moderno, della lezione del maestro ha acquisito solo la parte teologico-apologetica, avulsa dall’originario contesto logico-epistemologico, con un risultato decisamente infelice.]
A parte questo, ciò che meriterebbe un’elucidazione particolare è l’accostamento che ha proposto tra Tommaso e Popper:circa il valore di verità delle spiegazioni in scienza naturale: i due, infatti, su questo punto sono talmente lontani… che sembrano quasi dire la stessa cosa! Ma in realtà non sarebbero in accordo nemmeno sul significato da attribuire a “ipotetico”. Spero di poterne dire qualcosa prima della chiusura dei commenti, diversamente ci sarà modo in futuro.
A me, viaNegativa, quel passaggio di Tommaso richiama quasi automaticamente e specularmente Popper e Feynman. Aspetterò comunque da Lei i lumi promessi!
Buonasera, approfitto del mio primo intervento su questo sito (che pur seguo da vari mesi) per esprimere apprezzamento e stima nei confronti degli autori, ed in particolare ringrazio il prof. Masiero per i suoi articoli di approfondimento, che leggo sempre volentieri. In merito a questa interessate disquisizione, vorrei proporre la seguente distinzione.
Il termine “materialismo” è molto generico, e secondo me trascende ogni paradigma scientifico (nel senso che sia l’approccio riduzionistico che quello proprio dei sistemi complessi vivono tranquillamente sotto una visione fisicalista della realtà). Tuttavia bisognerebbe distinguere tre tipologie, cronologicamente ordinate:
(i) Materialismo meccanicistico (proprio dei secoli XVII, XVIII e XIX), con pretese di riduzione alla “materia”.
(ii) Materialismo dialettico (proprio principalmente del secolo scorso), basato sul concetto di “energia”.
(iii) Materialismo cibernetico (presente a partire dalla fine del XX secolo), basato sull’”informazione”.
Ovviamente questa distinzione non è netta, ma penso sia accettabile ammettere che a una visione meccanicistica propria dei primi secoli di pensiero scientifico galileiano sia seguito un approccio volto a “quantificare” gli stati di coscienza e il pensiero stesso, circa secondo le tappe riportate sopra.
Vorrei spendere una parola per il commento del dott. Vomiero: premesso che a volte mi sfugge dove finisca l’ironia e dove inizi il pensiero compiuto, noto dai suoi commenti che lei ritenga l’atteggiamento epistemico di molti odierni scienziati giustificato dalle evidenze (quindi a posteriori) e non piuttosto un’assunzione (quindi a priori). Faccio solo notare che questo discorso ha tutta l’aria di una tautologia: una cosa sono le evidenze (alla cui raccolta lo scienziato non può ovviamente fermarsi), un’altra ben diverse sono le teorie, e la loro formulazione DEVE basarsi su alcuni assiomi epistemici condivisi, che possono dirsi accettabili e condivisi, ma non certo fondati sui risultati a cui essi stessi (tali assiomi) hanno conferito dignità scientifica.
Un ultimo appunto: un discorso diverso va ovviamente fatto per la matematica, anche se noto che a volte viene qui mischiata con le scienze naturali pur non facendone parte. In matematica, è del tutto naturale fornire le definizioni e fissare gli assiomi, tanto che nel ‘900 tanto lavoro è stato fatto per renderli economici in numero e condivisi. Forse nelle scienze naturali bisognerebbe tenerne maggiormente conto, per evitare i curiosi salti logici che in un testo di matematica salterebbero subito all’occhio, ma che in ambiente sperimentale rischiano di passare inosservati.
Chiedo scusa per il noioso commento, e grazie ancora a tutti gli autori 🙂