Il metodo sperimentale è un algoritmo, una serie di azioni da compiere per giungere ad un risultato, come quando si seguono delle istruzioni per montare un armadio.
Se non si rispetta l’algoritmo, niente armadio.
D’ora in avanti il termine “scienza” indicherà solo quella naturale e basata sul metodo sperimentale, operiamo così il primo di una serie di tagli concettuali. Il metodo sperimentale è tutto un tagliare, eliminare ed approssimare, perché il famigerato rigore scientifico si basa proprio sul cercare una specifica procedura scartando altro; che cosa sia quest’altro lo diremo tra poco.
L’algoritmo sperimentale è composto essenzialmente di due passaggi:
- si formula un’ipotesi quantitativa su un fenomeno naturale;
- si compie una misura riguardante le grandezze coinvolte nell’ipotesi e si confronta il numero ottenuto con quello predetto dall’ipotesi: se i due numeri sono uguali entro le incertezze sperimentali, l’ipotesi è corroborata, in caso contrario va rigettata.
Ho volutamente omesso un punto precedente al numero 1, in genere indicato con “si osserva un fenomeno naturale”, perché benché tale passaggio sembri semplice, in realtà è impraticabile e storicamente quasi mai verificatosi. Per quanto riguarda infatti l’atto in sé di osservare, l’ovvia domanda che sorge è: cosa osservare? Per una scienza nata da pochi giorni, ha ancora senso dire che tutto inizia con l’osservazione di qualcosa che si vuole spiegare, ma ormai è già da tempo che i filosofi e gli scienziati si sono resi conto che non esistono dati naturali del tutto sradicati da un’idea preconcetta, l’empirismo puro lo possiedono solo i neonati. Per comprendere ciò, prendete una persona che non abbia una predisposizione per la fisica e provate ad insegnargliela con calma dall’inizio (come mi è capitato spesso).
Si inizia in genere con la cinematica e la dinamica. Cosa sia la massa è abbastanza intuitivo, l’allievo prende con una mano un foglio di carta, con l’altra un libro e capisce che hanno masse differenti. Le posizioni e le distanze sono anch’esse quasi immediate, per esempio l’allievo almeno una volta nella vita avrà misurato la propria altezza. Nessun problema nemmeno con il concetto di velocità, l’allievo saprà che cosa vuol dire procedere con un’automobile a 50 km/h. I problemi iniziano quando si presenta il momento angolare: cosa diamine è il momento angolare?! Posizione, massa e velocità sono chiari, ma perché inventarsi una strana forma di moltiplicazione e operarla su di loro per ottenere qualcosa che non si capisce se esiste veramente? In realtà affrontare dispute ontologiche per stabilire se effettivamente esiste il momento angolare (e tutte le grandezze fisiche in genere) e che cosa siano “realmente” esula dai fini di una lezioncina di fisica (tipicamente, pongo l’allievo su una sedia da ufficio con rotelle e lo faccio girare su sé stesso). In sintesi, una peculiarità tipica della fisica (ripresa della matematica) è che i loro oggetti di studio sono interni alla teoria: il momento angolare non cresce sugli alberi, non lo si vede e non lo si tocca, e lo stesso accade in realtà per tutte le grandezze fisiche. Questo per dire che l’osservazione del fenomeno non è un’operazione banale come sembra.
Dal punto di vista storico, inoltre, anche e soprattutto i fenomeni naturali più sorprendenti sono stati osservati mentre si stava osservando altro, per poi casualmente trovarsi davanti a un comportamento nuovo di un sistema che si credeva noto.
Concluso di discorso sul punto 0, chiariamo alcune cose sul punto 1: quell’aggettivo “quantificabile” esclude dal metodo sperimentale tutte le cose più belle della vita, cioè l’amore, l’amicizia, il pensiero, la bellezza, il Bene, il Male, le sensazioni e l’essere in quanto tale. Esistono intellettuali estremamente materialisti che confondo la concentrazione di un certo ormone nel sangue con un sentimento ad esso associato (tralasciando che lo stesso ormone in genere è associabile ad un sentimento di tipo opposto al primo). Ci sono anche intellettuali dello stesso tipo che confondo il Bene con ciò che è semplicemente utile al singolo e alla sua società di appartenenza (perché l’utile può essere quantificato). Il motivo per cui a volte si cerca di infilare forzatamente qualcosa nel punto 1 è perché si punta a passare al punto 2, ma quest’ultimo non è meno severo del primo.
Chi infatti ama soddisfare il punto 2, deve essere consapevole che, a rigore, esso esclude tutti quei campi su cui il giornalismo e l’intrattenimento amano soffermarsi. Se si considerasse cioè come scientificamente “noto” solo ciò che ha superato il punto 2, allora dovremmo collocare nel cassetto del “non lo sappiamo” tutti i seguenti problemi aperti: cosa succede in un buco nero, se esistono i mondi paralleli, cosa accadrebbe se si superasse la velocità della luce, se esiste la vita su altri pianeti, cosa si trova oltre l’Universo osservabile, come sia nata a vita, come sia apparsa la coscienza.
Il metodo sperimentale è severissimo, perché se ci si basa solo su quello, allora cadrebbe pure un’usanza molto diffusa, cioè il ritenere plausibile una data ipotesi solo perché 100’000 scienziati hanno detto che lo sia.
Nonostante queste derive, siamo ancora quasi tutti grandi estimatori del metodo sperimentale, ma su cosa si regge la sua potenza descrittiva?
Ormai pure i sassi sanno che la scienza non conduce ad una verità assoluta ed immutabile, ma ad un suo surrogato vero solo fino a prova contraria. La risposta quasi personale alla domanda precedente che vorrei offrirvi è la seguente: il metodo sperimentale si appoggia su una semplice, intuitiva ma fondamentale proprietà dei numeri reali, la cosiddetta proprietà di tricotomia.
La proprietà di tricotomia si chiama così perché enuncia la possibilità di dividere i numeri reali in tre sottoinsiemi, i positivi, i negativi e il numero zero. Ciò che serve nel nostro caso è l’immediata conseguenza per cui, dati due numeri reali qualsiasi A e B, esistono tre e solo tre possibilità: A > B, A = B oppure A < B. Se A rappresenta il valore predetto da un’ipotesi del punto 1 e B il risultato di una misura da punto 2, allora si vede che il bello del metodo sperimentale sta nell’inequivocabile e assolutamente oggettivo confronto tra A e B. Possiamo discutere per secoli su cosa sia il tempo, su cosa sia l’energia, ma come si usa dire, la matematica non è un’opinione e il vero punto di forza della scienza è il ricondurre tutto ad un confronto tra ipotesi e misura sperimentale.
Fin qui tutto bello e siamo tutti d’accordo, ma la realtà è sempre più complicata dei manuali scolastici, per cui dopo aver descritto la situazione “salutare”, affrontiamo 4 “patologie” del metodo sperimentale, basate su 4 possibili sproporzioni: è possibile infatti che ci si sbilanci sul punto 1, oppure sul punto 2; può accadere che 1 e 2 diventino indistinguibili oppure che siano troppo distanti.
La prima patologia consiste nel formulare ipotesi su ipotesi senza mai sbloccarsi dal punto 1. Non c’è niente di male in linea di principio al formulare tanti piani di lavoro o linee di ricerca. Per esempio, cos’è la famigerata materia oscura? È un tipo di materia fatta di particelle ancora da scoprire, oppure un fenomeno emergente di uno spazio-tempo da riformulare rispetto alla Relatività Generale? Domanda legittima e c’è chi lavora nell’una e nell’altra direzione, ma spero che non si offenda nessuno se ribadisco che sono “solo” ipotesi, rappresentato uno svolgimento in corso del metodo sperimentale, non un’alternativa ad esso. Purtroppo, si può stare in una situazione di stallo nel punto 1 anche per quarant’anni, com’è successo per la Teoria delle Stringhe, la quale si basa su grandissime e affascinanti ambizioni esplicative ma non ha mai generato predizioni controllabili. Per ora si trovano in questa situazione anche i tentativi di unificare la Relatività Generale con la Teoria Quantistica dei Campi. Ipotesi di questo tipo possono anche essere considerate belle e piacere ad un pubblico televisivo, ma purtroppo, come vale anche per le persone, la bellezza non è tutto.
Chi soffre di stallo nel punto 1 è paragonabile ad una persona che è in grado di leggere e comprendere un libretto delle istruzioni per montare un armadio, ma non lo monta mai: lo sfoglia, lo apprezza, gli sembra quasi di toccare con mano il mobile, ma intanto le viti e i piani di legno restano nello scatolo ad accumulare polvere.
La seconda patologia può sembrare assurda: ci si può sbilanciare sul punto 2 senza aver risolto quello precedente? In teoria no, siccome gli algoritmi hanno un ordine di esecuzione ben preciso. Può succedere però che si siano accumulati tanti risultati sperimentali interessanti, per ognuno dei quali esiste una spiegazione specifica, che si comprenda inoltre che c’è un qualcosa che li lega tutti, ma non si sa bene cosa e ci si limita quindi a spiegazioni ad hoc. Questa situazione in altre parole avviene quando si possiede una vasta (se non vastissima) fenomenologia riguardante una classe di fenomeni, ma non una teoria che permetta di unificarli sotto pochi principi. Un caso storico è stato l’insieme di fenomeni che portarono alla nascita della Meccanica Quantistica: si trovò una spiegazione ad hoc per un ente fisico detto corpo nero, vennero spiegati il cosiddetto effetto fotoelettrico ed altri fenomeni che all’epoca apparvero a dir poco insoliti. I fisici si sarebbero potuti accontentare? La predicibilità c’era, la corroborazione pure (caso per caso), ma c’era incoerenza con la Meccanica in vigore all’epoca (che oggi è detta Classica). Se Bohr e co. fossero stati rudemente pragmatici, forse si sarebbero accontentati, ma siccome gli scienziati sono curiosi per professione, cominciarono ad azzardare ipotesi che appaiono ancora oggi sconvolgenti, ma a giudicare dai frutti che hanno portato (teorici e applicativi), possiamo dire che hanno fatto bene ad andare oltre il semplice prendere atto di vari fenomeni bizzarri (e complicati).
Chi soffre di sbilanciamento nel punto 2 è paragonabile ad una persona che possiede una scatola contenente o pezzi di un armadio da montare, ma il libretto delle istruzioni non si trova; nonostante ciò, afferma comunque di possedere un armadio, sta sotto il suo naso ed effettivamente ne conosce ogni sua parte, ma in realtà, anche in questo caso, potrà ospitare solo la polvere.
La terza patologia è subdola, perché stavolta la degenerazione consiste nel formulare un’ipotesi che è definita tramite una proprietà stabilita solo e a posteriori (rispetto alla misura). L’ipotesi e il fenomeno coincidono senza che vi sia un’aggiunta di informazione rispetto a ciò che si osserva in modo immediato. L’esempio tipico è il ruolo della selezione naturale nel darwinismo.
Essa è l’insieme dei meccanismi naturali che permette a certi individui di una specie vivente, dotati di caratteristiche che li rendono più adatti a sopravvivere e a riprodursi, di far permanere tra una generazione e l’altra i propri tratti e di diffonderli nella popolazione di appartenenza (viceversa, la selezione elimina il meno adatto). Domanda solita: chi sono i più adatti? Purtroppo non è possibile dirlo a priori perché dipende dalle circostanze (a volte il più forte, altre volte il più piccolo e così via). Non essendoci un criterio universale, si può considerare il più adatto come quell’individuo che ha più probabilità di nutrirsi e di garantire la propria discendenza. Queste caratteristiche sono una riformulazione della proprietà che definisce la selezione naturale: la selezione naturale implica la sopravvivenza degli individui capaci di superare la selezione naturale. Il darwinismo postula la sopravvivenza dei sopravvissuti.
Vanno fatti su questo punto due chiarimenti. Il primo è che non si vuole negare in questo modo che sia impossibile fare ipotesi rigettabili su un particolare modo in cui la selezione naturale si manifesta; faccio un esempio: nasce in un bosco, a causa di una mutazione, una lepre priva di padiglioni auricolari; ipotizzo che la selezione naturale premierà questo carattere perché rende l’animale meno visibile ai predatori; mi piazzo in un nascondiglio nel bosco e registro cosa succederà alla povera bestia. L’ipotesi è quantificabile e verificabile, ma è il principio in sé della selezione naturale a restare tautologico. Mi spiego con un altro esempio, più fantasioso: in una savana nasce per mutazione un leone capace di correre più velocemente dei suoi simili; il leone si rende conto che ha più chance di sopravvivere ma, preso dall’orgoglio preferisce stare sdraiato, fumarsi una canna e dire “ragazzi, così è troppo facile!”. In questo caso, la selezione naturale agisce comunque, perché anche se non può premiare il tratto fisico, condanna quello comportamentale (leone che non mangia, muore). Non si può sfuggire ad un principio sempre vero. Un’obiezione ricorrente è: se la selezione naturale è davvero un’ovvietà, perché nessuno prima di Darwin e Wallace ci aveva pensato? È successo perché dal punto di vista della comprensione del fenomeno evoluzione il vero dilemma non è il diffondersi (o no) di un dato carattere nella popolazione e tra le generazioni, ma la sua prima comparsa.
Il secondo chiarimento è sull’adattamento in sé: nessuno qui nega che l’adattamento non abbia un criterio universale a priori, si sottolinea però la sua sterilità epistemologica. Lo ribadiamo perché al contrario ci sono intellettuali che invece ammirano la formulazione tautologica, anche perché, in quanto vera nel 100% dei casi, ha l’affidabilità di un’identità matematica (del tipo 1 = 1).
Queste persone sono come un uomo che ha un libretto delle istruzioni per montare un armadio e anche la scatola con tutto il materiale, ma prende il libretto, lo piega, lo ritaglia, lo incolla e lo rende a forma di armadio. Se afferma che ha usato il libretto delle istruzioni per costruire un armadio, non lo si può contraddire (anche se precisiamo che è di carta), ma viene da chiedersi piuttosto cosa mai vi ci potrà mettere dentro (nel frattempo, la scatola con i pezzi sta lì a prendere la polvere).
La quarta patologia del metodo sperimentale è più che altro un ostacolo: l’ipotesi c’è, il laboratorio c’è, l’esperimento sarebbe fruttuoso, ma il problema sta nei calcoli o nei limiti pratici. Nel primo caso, facendo un esempio sempre tratto dalla fisica, può succedere che si abbia postulato una funzione detta Hamiltoniana (ai nostri scopi, basta sapere che essa è un oggetto matematico che racchiude tutta la fisica del sistema): tale Hamiltoniana è nota, si posseggano le equazioni in cui inserirla, ma non si sa come risolverle. In genere si usa ricorrere ad un modello che semplifica il problema in esame, ma ci si rende conto che il modello funzionerebbe solo con un sistema fisico eccessivamente semplice.
Un tipo di difficoltà meramente pratica invece si riscontra quando un’ipotesi è pronta per essere testata, ma gli strumenti richiesti non possono essere realizzati con la tecnologia presente al momento. Un esempio di questo secondo caso è quello della fisica delle particelle, che richiede acceleratori sempre più potenti per essere scandagliata fino in fondo.
In queste circostanze il metodo sperimentale può essere completato, ma la distanza tra i punti 1 e 2 è grande. È come avere un uomo che vuole impegnarsi a montare un armadio, ma il libretto delle istruzioni è in una lingua che non può comprendere oppure gli mancano gli attrezzi da lavoro: malgrado tutto si impegna e, rispetto agli altri tre casi precedenti, non lascia la scatola ad accumulare polvere e forse un giorno vedrà il suo armadio completato. Agli scienziati di questa categoria va tutta la mia stima.
Agli altri tre scienziati precedenti di sicuro non manca la voglia di conoscere e comprendere la natura, basta chiarire in che rapporto si pongono rispetto al metodo sperimentale: credo che i più non lo rinneghino, ma la mia prima reazione a qualche voce di proposta tesa a riformarlo è la preoccupazione.
Il metodo sperimentale è rigoroso perché estremamente stringente, persino con la natura stessa, ma c’è un grandissimo lato positivo quando il suo algoritmo viene completato: può essere, per così dire, svolto al contrario. Verificata un’ipotesi, si può prendere nota della sua struttura formale, riformularla per mettere in evidenza una particolare grandezza e imporre quelle condizioni che permettono al sistema studiato di assumere una configurazione voluta da un nostro scopo particolare. Così si realizzano tutte le applicazioni, dallo schiaccianoci allo smartphone.
Chi realizza ciò, è come un uomo che osserva un armadio, lo smonta con attenzione prendendo nota della collocazione di ogni sua parte, racchiude componenti e annotazioni un una scatola e permette a sé stesso o a chiunque altro di poter portare con sé, di fatto, un intero armadio, per rimontarlo dove gli serve.
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48 commenti
Osservare i sopravvissuti alla selezione naturale e capire il perché sono sopravvissuti, riuscendo a scoprire le “qualità” emergenti che hanno premiato tale capacità di sopravvivere… Cosa c’è di più scientifico di questo dal punto di vista della scienza naturale e sperimentale, dal momento che si tratterebbe tra l’altro di una congettura corroborabile e replicabile magari anche a livello di laboratorio? Non capisco perché sia tautologica una scoperta netta come questa alla quale si è arrivati tardissimo… replicandola vantaggiosamente, quindi con un’applicazione a livello di selezione artificiale nei campi vegetale e animale.
Capire chi e perché ha superato la selezione naturale può essere fatto SENZA il benché minimo riferimento all’evoluzione. La tautologia sta nell’atto di postulare la selezione come la sopravvivenza del più adatto (o viceversa) e il più adatto come chi supera la selezione (o viceversa). Nel CONTESTO EVOLUTIVO questo loop non porta a niente.
La conoscenza in sé e per sé di una specie invece è scienza.
Nessuna scoperta arrivata tardi, anzi, la selezione artificiale è applicata dall’alba della civiltà, pensi ai cani e agli altri animali domestici.
Articolo perfetto, a cui aggiungerei che sono proprio i limiti di una attività a renderla interessante e feconda (una partita di calcio senza regole sarebbe inguardabile e la musica atonale non si riesce a sopportare per più di dieci minuti)
Mi piace regalare al mio amico htagliato e a tutti noi un meraviglioso aforisma di quel grande pensatore che è stato Nicolas Gomez Davila:
“la scienza inganna in tre modi: trasformando le sue proposizioni in norme, divulgando i suoi risultati più che i suoi metodi, tacendo le sue limitazioni epistemologiche”
Grazie Alessandro per il complimento, l’osservazione e l’aforisma che effettivamente è meraviglioso nel suo condensare molto bene ciò che ho cercato di far capire nell’articolo!
Il tuo pezzo, HT, mi è piaciuto molto perché, nel tuo solito stile leggero e divertente, hai spiegato – come si “spiega” un tappeto – la sostanza del metodo scientifico. La metafora dell’armadio che hai usato mi ha ricordato il lascito di Feynman “che ciò che non sappiamo riprodurre, non conosciamo”. Ed è così, anche per me: tutta la scienza naturale si riduce a riproduzione artificiale di fenomeni naturali. È la forza del metodo scientifico che si fa tecnica, potenza dell’uomo sulla natura.
Ovviamente, se un’ipotesi (della fase 1) si conforma ad un risultato replicato, replicato, replicato… n volte (fase 2), ciò non implica che quell’ipotesi sia vera. È solo corroborata, assurge a teoria scientifica, ma resta sempre solo una congettura… falsificabile in una futura (n+1).ma volta. È il limite epistemico del metodo scientifico, che non può arrivare alla verità su nulla.
Lietissimo che ti sia piaciuto l’articolo, Giorgio; condivido naturalmente anche le considerazioni successive.
L’articolo è senz’altro bello e interessante, come sempre devo dire HT, anche se mi vengono in mente alcune obiezioni che magari cercherò di sviluppare eventualmente più avanti. Intanto però le volevo chiedere: lei ha dato una definizione abbastanza chiara e precisa di metodo sperimentale, da quali basi conoscitive o fonti, se esistono, prende forma tale definizione? Dal pensiero anacronistico di Galileo (anno 1600)? Dalla sua esperienza personale di fisico sul campo? Da qualche lavoro della comunità scientifica che non conosco? La ringrazio.
Grazie per i complimenti. Le mie fonti sono le lezioni tenute in 3+2 anni di corsi universitari, anche se le pietre miliari per me sono state il corso di Meccanica e Termodinamica e di Laboratorio di Fisica 1 del primo anno della triennale.
Non considero il pensiero di Galileo anacronistico per quanto riguarda il metodo scientifico, per cui mi piacerebbe un chiarimento su questo punto.
Grazie HT, ora ho degli appuntamenti, cercherò di risponderle quanto prima. Le anticipo però sinteticamente i punti che vorrei approfondire. 1) da Galileo ad oggi ne è passata di acqua sotto i ponti, è cambiato il mondo ed è cambiata la scienza e il modo di fare scienza. 2) io ho una visione della scienza molto meno “fisicalista” e più “artigianale”, orientata a occuparsi di problemi specifici mediante l’utilizzo di strumenti e linguaggi specifici e dove diventano centrali la ricerca e la pluralità degli approcci.
Va bene, la aspetto, intanto
1) ne sono successe di cose in 4 secoli ma poi devo capire nello specifico in che senso è cambiato il metodo sperimentale
2) non riesco a cogliere la differenza tra le nostre due visioni, perché per me il metodo sperimentale è quello che ho indicato e non ha senso chiamarlo “fisicalista”.
Chiarisco che io non metto minimamente in dubbio i contenuti di questo suo bel pezzo HT, anzi, penso invece che lei abbia detto delle cose sacrosante riguardo il metodo sperimentale e che condivido pienamente. Peraltro io non ho delle vere definizioni alternative. Quello che però mi chiedo è questo: è oggi ancora sufficiente uno schema concettuale, per quanto potente esso si sia dimostrato e lo sia tuttora, partorito in un’epoca però in cui si conosceva bene la matematica, si stava sviluppando la fisica classica, ma non si sapeva praticamente niente di sistemi complessi, di fenomeni emergenti, di genetica, di bioscienze, di climatologia o di simulazioni modellistiche? Riguardo il punto 1) infatti ho detto che secondo me è cambiata la scienza (naturale) e il modo di fare scienza, non il metodo sperimentale, che rimane valido di principio. Il contesto osservativo e descrittivo, a mio avviso, quando si parla di “sistemica” è di fondamentale importanza, per esempio. Alle alte complessità i paesaggi si fanno inevitabilmente incerti e dobbiamo quindi essere pronti anche a “rinunciare” a parte del bagaglio dei modelli ideali che ci derivano dalla fisica classica per inventarci nuovi strumenti utili a simulare sistemi e a gestire complessità, piuttosto che mirare a “predire” quantitativamente in dettaglio eventi o comportamenti. Nulla ci assicura che si realizzino situazioni ideali, ed è quindi proprio in questo scarto tra mondo reale e modelli fisico-matematici che percepisco la scienza dei sistemi reali (complessi) come una pluralità di approcci e linguaggi possibili, in cui è centrale la ricerca e in cui l’aspetto galileiano della scienza consiste nel definire cosa osservare e attraverso quali procedure operative. Altrimenti, oltre a dover dubitare della scientificità di gran parte della biologia o della climatologia, per esempio, non starei qui a osservare comportamenti nutrizionali “appropriati”, a gestire per quanto possibile certi tipi di rischio o a curarmi con farmaci di cui non ho alcuna garanzia che su di me facciano effetto.
Grazie per i chiarimenti, ora rispondo per punti.
“è oggi ancora sufficiente uno schema concettuale, per quanto potente esso si sia dimostrato e lo sia tuttora, partorito in un’epoca però in cui si conosceva bene la matematica, si stava sviluppando la fisica classica, ma non si sapeva praticamente niente di sistemi complessi,…”
Secondo me, sì, perché il metodo sperimentale è strutturato in modo tale da prescindere dai contenuti di una branca della scienza e dai suoi progressi. La Meccanica Quantistica, per esempio, è incomparabilmente diversa da quella Classica, ma sono entrambe descrizioni valide fino a prova contraria e solo a causa del percorso storico noi avvertiamo un grande cambiamento, ma la “distanza dal reale” non è cambiata. Mi spiegherò meglio al punto successivo.
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“Alle alte complessità i paesaggi si fanno inevitabilmente incerti e dobbiamo quindi essere pronti anche a “rinunciare” a parte del bagaglio dei modelli ideali che ci derivano dalla fisica classica”
Attenzione, nel mio articolo tratto del metodo sperimentale, non della fisica classica. È giusto prendere gli strumenti concettuali di una fisica più recenti DENTRO un ramo della scienza, ma non dobbiamo confondere il metodo galileiano con TUTTO ciò in cui si credeva all’epoca. Il metodo sperimentale non richiede un determinismo esatto per ogni componente di un sistema. Chiede solo di predire un numero (con una sua incertezza a priori), di misurarlo in natura (con la sua incertezza sperimentale) e di confrontarli. Non cambia niente, volendo fare un paragone fisico, se A e B sono posizioni di un punto materiale (Meccanica Classica) o valori di una densità di probabilità (Meccanica Quantistica), il metodo è quello.
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“Altrimenti, oltre a dover dubitare della scientificità di gran parte della biologia o della climatologia, per esempio, non starei qui a osservare comportamenti nutrizionali “appropriati”, a gestire per quanto possibile certi tipi di rischio o a curarmi con farmaci di cui non ho alcuna garanzia che su di me facciano effetto.”
Credo che stiamo parlando di due cose diverse: i sistemi complessi richiedono una procedura più lunga per il conseguimento di quello che nell’articolo ho chiamato punto 1, cioè occorre sfruttare più discipline, introdurre statistiche, tutte cose necessarie ma non contraddicono il metodo. È meno immediato ottenere il numero A, ma poi lo si ottiene e lo si confronta con B. Compresi gli esempi che mi ha fatto: un clima è descrivibile tramite parametri (temperatura, vento, umidità, piogge) quantificabili, le quantità di proteine e grassi sono numeri, i rischi sono probabilità e gli effetti di un farmaco sono esprimibili con un efficacia numerica.
Anch’io osservo comportamentali nutrizionali o prendo certi farmaci, anche senza certezza di risultato, dott. Vomiero, ma solo perché presumo che siano state fatte prove sperimentali che statisticamente abbiano provato la predicibilità degli effetti desiderati. Questo è il metodo sperimentale che c’è da sempre, da Homo faber, e che è diventato galileiano dal momento in cui Galileo ha introdotto la matematica nelle osservazioni.
Se non ci sono predizioni matematiche controllabili sulla base di esperimenti replicati, come possiamo, Le chiedo, distinguere la buona scienza dalla pseudo-scienza? Sulla base della maggioranza dei consensi? Con quale criterio non considereremmo scienza l’astrologia, o la pranoterapia, o l’omeopatia, o la telecinesi, ecc., ecc.?
Non è il metodo galileiano ad essere “anacronistico”, ma solo (e parzialmente) la teoria galileiana del moto. Tutte le teorie scientifiche diventano anacronistiche, prima o poi,… come le automobili! E già le teorie scientifiche moderne sono vecchie, falsificate, ma ce le teniamo finché non ne troveremo di migliori, esattamente come per la nostra auto, che non cambiamo finché non ce ne potremo permettere una più nuova.
Trovo interessanti,come sempre,le Sue considerazioni Prof.Masiero.
Mi hanno colpito queste parole:”Con quale criterio non considereremmo scienza l’astrologia,o la pranoterapia,o l’omeopatia,o la telecinesi….ecc.,ecc.(cioè quale etcetera etcetera?) ?
Vuole degli altri etcetera etcetera, Maurizio? L’accontento: li troverà puntualmente catalogati in fondo alla Home page del Cicap…, dove però, poiché il Cicap non sa che cosa sia il metodo scientifico, Lei NON troverà
– le multiverse teorie del multiverso,
– la teoria di Hawking che “l’universo si è fatto da sé”,
– la teoria della Hack, fu Presidente Cicap, che l’universo è nato da un peto,
– la teoria (antievoluzionistica) che noi siamo stati costruiti da una civiltà aliena,
– la teoria (antievoluzionistica, secondo alcuni astrofisici probabile al 50%) che noi siamo ologrammi inconsapevoli di una Supermatrix,
– etc, etc.
Io non credo, come Popper, neanche alla verità delle teorie scientifiche corroborate. Mi dica Lei se posso credere alle speculazioni senza predizioni controllabili!!
Leggo quasi tutti i suoi commenti(anche nella notte,cioè fuori da altri impegni) e la Sua risposta la trovo di una vitalità ed efficacia veramente unica.Chiaro che(e in questo provo una puntina di invidia,perchè vorrei avere la volontà di studiare tutto lo scibile umano)quello che scrive è competenza di Voi studiosi della Fisica.Per quanto mi riguarda provo solo ammirazione per la Sua lucidità.
Non sapevo che la dott.ssa Hack avesse formulato una sua teoria sull’ origine dell’ universo!
Adesso comprendo meglio la frequenza delle sue apparizioni televisive in alternanza, con altrettanto noto, e immagino altrettanto scientificamente prolifico, matematico!
La dottoressa Hack in realtà ha solo spiegato il Big Bang a dei bambini dicendo che è stato come una grande scoreggia, ma in un’occasione successiva ha detto che riteneva che “l’universo sia infinito nel tempo e nello spazio, cioè sia sempre esistito, sempre esisterà e non ha confini, è tutto ciò che esiste. Non è dimostrabile, non lo sappiamo se l’Universo è finito o infinito; però, se fosse infinito, sarebbe tanto più semplice, non ci dovremmo domandare “che cosa c’era prima? Che cosa ci sarà dopo? Che cosa c’era fuori?””
https://www.youtube.com/watch?v=ij2VRU-om6U
La Hack è stata la missionaria di un ateismo che tutti potevano capire(o far finta di capire).MI ricordo anche nei piccoli paesi o cittadine come Arezzo(non metropoli) il pieno nelle sue conferenze.E parlando con i partecipanti a questi veri e propi convegni,più che a delle semplici conferenze,si percepiva distintamente l’entusiasmo per aver accolto il verbo(questo anche da parte di”cattolici”molto molto aperti).Se poi in Toscana il sigillo di antica comunista presentato da questa laureata apriva ancora più porte(specialmente negli anni ottanta-novanta etcetera) ci si può immaginare la devozione a tanta Verità.ps.Indimenticabili le “chiamate in causa” dell’altro Immortale:Bruno Vespa; praticamente a tutte le trasmissioni che parlavano di scienza.
..Maurizio, voglia scusarmi ma i cattolici molto aperti, come LI chiama Lei, sono più propriamente i “Catto-comunisti” 🙂 🙂
E che ci vuol fare?un piede in due staffe.Oramai è anche noiosissimo parlare di loro.Tenga conto che nel passato “importante” quello tra Guelfi(“i difensori del Papa e dei suoi interessi,ma anche della Dottrina intransigente”) e i Ghibellini(“i competitori del Papa”,se si perdona questo mio dire) tutti erano cattolici.Dunque l’allenamento degli italici non manca.Si va dove tira il vento.
Domanda nella notte:Ma i greci(e tutti gli altri popoli antichi,o quasi) erano atei come la Hack ? Certo è che lei ha rigettato in pochi anni(dal suo punto di vista) tutto il lavoro di Einstein e del cristianesimo(duemila anni di università,studi,ricerche,eccellenti studiosi).
…se la Hack avesse letto qualche libro di Aristotele, cosa di cui ho forti motivi per dubitare,sicuramente avrebbe detto meno fesserie..così come la lettura di Sant’Agostino e Tommaso D’Acquino….
Molto rivelatore il ragionamento “scientifico” dell’astronoma Hack secondo cui l’universo è eterno e infinito: in questo caso non ci dobbiamo porre domande sul prima e il dopo…. Già, gli eterni quesiti dell’uomo sarebbero gettati dalla finestra!
Povera scienza insegnata da questi scienziati! Fanno le pulci ad un politico che non crede nel darwinismo, e si tengono un astronomo che non crede al Big bang.
..bhe..da una comunista in potenza e,portatrice sana del suo virus, cosa poteva pretendere? https://gloria.tv/text/7JhQBGpSQUWoCm4ozj1i2BnDe
🙂 🙂
Quoto ciò che ha scritto Masiero e aggiungo: una cosa è la fisica di Galileo (superata da tempo) un’altra è il suo metodo.
Esistono sistemi naturali che richiedono modelli, statistiche e concorso di più discipline, ma solo per poter giungere al punto 1, il numero A da confrontare con il B sperimentale.
Interessantissimo e molto ben scritto. Da rileggere con calma e da meditare. Grazie
Grazie mille a lei, Valentino!
Confesso che mi sarebbe piaciuto trovare qualche riferimento epistemologico in un articolo del genere. Definire cos’è scienza (e quindi cosa non lo è) senza citare, anche solo di sfuggita, Popper, Kuhn, Feyerabend o Lakatos, vuol dire perdersi un pezzo interessante del discorso. Mi sembra infatti che questo articolo tagli un po’ con l’accetta il problema, dando una definizione semplice e rigida come se il dibattito portato avanti dai signori che ho citato prima fosse tutto sommato superfluo.
Non lo dico per fare polemica, la mia vuole essere più una critica costruttiva, mossa anche dal mio essere un non esperto di epistemologia, che quindi avrebbe apprezzato qualche spunto di riflessione in quella direzione.
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Trovo inoltre curioso che un sito come CS, spesso — e in certi casi secondo me giustamente — critico dell’eccessivo ricorso al riduzionismo metodologico, promuova un riduzionismo epistemologico così marcato, che vede le scienze ordinate secondo una gerarchia in cima alla quale svetta la fisica (o la matematica, a seconda dei punti di vista), dalla quale sono derivabili, a cascata, le altre discipline: fisica chimica, chimica organica, biologia molecolare, biologia, ecologia, etologia e via dicendo. Un approccio che legittima la possibilità di una riduzione di tutte le scienze alla fisica, negandone quindi l’esistenza come discipline autonome.
Un approccio che non tiene conto della natura dei sistemi complessi, le cui caratteristiche non sono riducibili alla semplice somma delle parti che li costituiscono e le cui proprietà emergenti non sono sempre deducibili da quelle delle loro componenti.
A questo proposito, sarei curioso di sapere cosa ne pensano Htagliato — ma anche Masiero, che ama citarlo spesso — del pensiero di Stuart Kauffman, secondo il quale la biologia non si può ridurre alla sola fisica.
Salve Greylines, per quanto riguarda la prima parte del suo commento, posso spiegarle perché non ho fatto riferimenti epistemologici ai grandi filosofi epistemologici. Non ho voluto negare il loro contributo al tema, ma ho voluto dare un taglio quanto meno speculativo possibile e più “pratico”, perché in fondo la scienza empirica questo è, un discorso razionale su fenomeni naturali.
L’articolo è nato perché i problemi culturali attuali intorno al metodo scientifico non riguardano le diverse linee di pensiero filosofico (esistono, ma magari fosse questo il problema!) ma perché oggi c’è soprattutto una tendenza ad allargarlo per etichettare sempre più cose come “scienza”, per questo ho voluto mettere dei paletti, perché sono proprio i limiti a rendere rigoroso il metodo sperimentale.
Per quanto riguarda la seconda parte del suo commento, esso non riflette affatto il mio pensiero, ma vedo solo un grosso equivoco. Il metodo che ho riassunto in quei punti 1 e 2 non è “riduzionistico”, inteso nel senso di spiegare un sistema scomponendolo nelle sue parti, studiarne le caratteristiche e poi fare la somma.
Ciò che impone è che tutto deve alla fine ricondursi ad un numero (anche Vomiero prima sembrava confondere il fornire a livello teorico un numero col RIDURRE alle parti), ma questo perché SOLO I NUMERI ci permettono di stabilire in modo inequivocabile ed oggettivo se un’ipotesi è corroborata oppure no. Il discorso ovviamente si estende ad enti matematici più complessi su cui è comunque possibile fare un confronto QUANTITATIVO (funzioni, curve, forme geometriche…).
Lei invece conosce un metodo alternativo per stabilire se un’ipotesi può ritenersi corroborata oppure no?
Concordo sulla esigenza di ribadire il metodo scientifico e i suoi limiti. Il ricorso al termine: “è scientifico!” ricorre continuamente nei media per fare passare i concetti più balzani ed è tipico di venditori di tappeti e simili!
Piuttosto il circoscrivere dettagliatamente il perimetro delle possibilità della propria indagine è il vero segreto del metodo sperimentale e il fondamento dei suoi successi.
La scienza è solo una parte della molteplicità della conoscenza umana che può compendiarsi meglio con con il temine di “sapienza”. La sapienza si serve della scienza ma va oltre perchè comprende non solo la conoscenza razionale che esula dal metodo sperimentale (filosofia, teologia), ma anche quel tipo di conoscenza, non mediata dall’ intelletto, che proviene dalla percezione del bello, del dolore e sopratutto dall’ amore!
Progredire nella scienza e perdere in sapienza non è un buon risultato, in questo,
l’ uomo moderno mi sembra un pò in difficoltà!
Non ho capito bene, Greylines, le Sue obiezioni a HT. Certamente l’articolo di HT non è completo rispetto al titolo (ci vorrebbe un libro!), però coglie secondo me 2 condizioni sine qua non della scienza sperimentale: la matematica e la riproducibilità. Senza di esse, non ci sono i DATI, né le TEORIE da confrontare con i dati.
Quanto alla Sua specifica domanda a me, se la biologia si possa ridurre alla fisica, la mia risposta è no, come motivato in diversi articoli. Però la biologia (se vuol essere scienza) non può rinunciare né alla matematica né all’esperimento.
Articolo interessante di Htagliato pe ril quale lo ringrazio vivamente.
Vorrei giusto portare due osservazioni.
(1) (a) Il discorso sperimentale è sempre legato ad un’osservazione; (b)un’osservazione è considerata assolutamente certa dall’osservatore, ma questa certezza non è di per se trasferibile; (c) quel che si trasferisce è una descrizione dell’osservazione e se tale descrizione combacia con quella della descrizione di altri osservatori, allora tale descrizione è oggettiva; (d) l’oggettività di tale descrizione non ha però la certezza assoluta che sperimenta l’osservatore. In altre parole nel discorso sperimentale barattiamo certezza contro oggettività
(2) (a) Il fatto che si sia sperimentato qualche cosa in sé e di per sé non prova in niente e per niente che tale cosa si riprodurrà di nuovo nelle stesse circostanze: questo è tutto il limite del del metodo induttivo; (b) in sede sperimentale possiamo quindi solo stabilire ricorrenze (statistiche) e quindi il discorso scientifico basato sul dato sperimentale non è capace strictu sensu di stabilire causalità di qualunque sorta; (c) il discorso sul discorso sperimentale è un mito che ha per funzione di essere efficiente ed efficace in particolare per predire ragionevolmente bene il futuro.
Ho letto certi commenti sui fenomeni emergenti che fanno sorridere per la loro ingenuità e la speranza che colpi di bacchetta magica permettano di andare contro le leggi fisiche: ebbene no,quel che si chiama un fenomeno emergente non può mai andare contro le leggi della fisica, della chimica e della biochimica. Un fenomeno emergente sempre esprime una potenzialità già inclusa nei sistemi ma passando all’atto quando una causa lo aziona: un aereo che vola non va contro le leggi della gravità e dell’attrito ma ne è, anzi, la messa in evidenza e la comprova della validità di tali leggi. Qualunque sia il fenomeno emergente esso deve essere un comprova delle leggi e non un’abolizione di leggi naturali.
Grazie a lei, Simon, per gli approfondimenti.
Per quanto riguarda il punto (1) del suo commento, concordo e chiarisco che le stesse cose le ho solo dette in modo più “divulgativo” raccontando l’aneddoto del momento angolare.
Per il punto (2) pure condivido tutto, nell’articolo cito il tema di sfuggita perché volevo porre l’attenzione su aspetti meno condivisi del discorso intorno al metodo sperimentale.
A proposito infine dei fenomeni emergenti, le mie perplessità per quanto riguarda commenti apparsi in altri articoli è che, in base a quanto ho capito (ma non in base a quanto ho studiato su sistemi di Fisica della Materia) un fenomeno emergente, detto sarcasticamente, gode della proprietà di non essere suscettibile di predizioni quando ne si studiano le proprietà, ma le rende possibili se inserito all’interno di una teoria su cui i più concordano.
Simon, Htagliato, non so se sto diventando paranoico…
A proposito di sperimentare, può essere considerato metodo sperimentale tirare due dadi a sei facce per 1.000 volte almeno e osservare che il numero che esce maggiormente è sempre il 7?
Si può parlare in questo caso, banale, di osservazione, di certezza dell’osservante non trasferibile ma solo di descrizione trasferibile, e che solo se osservata da altri diventa descrizione oggettiva? È quel senza la certezza assoluta che sperimenta il singolo osservante che mi suona strano… Perché è così?
La risposta alla prima domanda è Sì, infatti, la molto fraintesa legge dei grandi numeri può essere applicata per misurare una probabilità se questa è ignota oppure per corroborare una probabilità ottenuta elaborando un’ipotesi. In Meccanica Quantistica si fa spesso così, perché è vero che al centro di essa ci stanno le densità di probabilità, ma tali probabilità sono comunque un oggetto da verificare sperimentalmente.
Per quanto riguarda le altre due domande, immagini di non sapere niente di scienza e del metodo sperimentale: se compie una generica “osservazione”, può succedere che ciò che a lei sembra certo non lo sia per altri (esempio: ammazza quanto pesa questa busta della spesa! Ma ad un altro la stessa busta pesa poco). Ogni singolo individuo fa le sue osservazioni, ma per poter lavorare in modo oggettivo con altri SEMPRE, allora deve ricorrere ad una descrizione matematica, cioè quantitativa. All’università, per esempio, mi hanno insegnato che la temperatura è quella cosa che si misura col termometro. Tale definizione sembra nebulosa (quella cosa, cosa? Oltre il modo in cui la misuro cosa posso dire?) ma dovetti farmene una ragione quando scoprii che in fisica NON esiste un modo per definire le grandezze oltre al modo in cui le si misura. In questo la fisica è radicale, una specie di agnosticismo applicato a tutto il reale. Più banalmente, è il metodo sperimentale come l’ho descritto nell’articolo che non si applica alla “realtà” ma agli strumenti descrittivi che applichiamo alla natura.
E le discipline diverse dalla fisica? Apparentemente usano definizioni più “normali”, intuitive, ma occorre sempre ricondursi ad un numero. Se dico “secondo me questa proteina ha il compito di dividere questa sostanza in due molecole distinte”, allora la matematica applicata sarà anche banalissima, quasi assente (passo da 1 molecola di X a 2 di Y) ma C’È.
Mi può cortesemente indicare chi e dove ha affermato che le proprietà emergenti vanno contro le leggi fisiche?
Ad esempio quando si immagina che un processo evolutivo stocastico possa avvenire in tempi brevissimi mentre sappiamo fisicamente che non c’è lasso di tempo inferiore a quello di Planck.
Grazie per la risposta. Ora però le chiedo di indicarmi chi e dove ha affermato che un processo evolutivo stocastico può avvenire in un tempo inferiore a quello di Planck.
Appena affermi che il processo evolutivo è casuale e avvenuto nel lasso di tempo geologico.
Certo, se si ritiene che “casuale” significhi privo di cause fisiche e se si è convinti che la probabilità di formazione di una molecola complessa possa essere calcolata considerando le singole mutazioni (solo quelle puntiformi, che le altre non esistono) come se fossero lanci di dadi (quindi eventi equiprobabili e indipendenti fra di loro e rispetto all’ambiente circostante), allora sì, la sua affermazione avrebbe un senso.
Dal momento che la biologia è un filino più complessa di come la rappresenta lei, le cose non stanno così.
Capisco però che lei — che per motivi che non comprendo non “crede” (nel senso fideistico del termine) nella scienza dei sistemi complessi — la pensi diversamente.
Mi piacerebbe comunque capire come mai lei ha deciso di non dare peso agli scienziati che studiano la complessità, che non è solo evoluzione ma molto molto altro. Su cosa si basano le sue così radicate convinzioni?
Che ne pensa lei, per esempio, dei lavori e delle affermazioni di uno scienziato di Stuart Kauffman?
Ok Greylines, visto che voi avete capito come funziona la questione, ce lo fate per noi che non capiamo la biologia un filino più complessa un bell’esperimento dove mostrate la vita nascere in laboratorio?
Un sistema complesso è sottomesso alle stesse leggi… non ne scampa. Puoi aggiungere tutti i processi intermediari che vuoi…. la probabilità non sarà minore….
Mi fate ridere tutti questi sognatori di martingale…
Certo che un sistema complesso è sottomesso alle stesse leggi, nessuno scienziato ha mai detto il contrario. Ciò non significa che la probabilità di formazione di una molecola complessa possa essere calcolata considerando le singole mutazioni come se fossero lanci di dadi. A meno che lei non abbia delle solide argomentazioni scientifiche che sostengono il contrario.
Greylines, abbiamo capito che la probabilità non è la stessa se si introduce l’interdipendenza e la non-equiprobabilità delle mutazioni; però non può lasciarci così, non è per niente esaustiva come risposta: se è praticamente impossibile calcolare la vera probabilità perché il sistema in esame è complesso, perché dovremmo credere che di sicuro diventa più plausibile il meccanismo Neodarwiniano? Non esiste nessuna ragione matematica per cui dovrebbe necessariamente essere così.
Dal mio punto di vista sarebbe già qualcosa riuscire a sfatare il mito secondo il quale per dimostrare l’implausibilità della teoria dell’evoluzione è sufficiente un semplicistico calcolo basato su presupposti biologici sbagliati. Non esiste nessuna ragione matematica, per usare le sue parole, per una dimostrazione del genere. Possiamo finalmente dimostrare che sì, abbiamo capito che la probabilità non è la stessa, e quindi archiviare questa argomentazione e non citarla più come prova assoluta e incontrovertibile?
Ce lo indica lei un calcolo corretto?
Se non lo fa tutte le sue argomentazioni si dimostrano sofismi.
Vede Greylines, non si può parlare di calcoli sbagliati senza offrire un calcolo correttamente eseguito, lo impariamo dai banchi scolastici, se lo immagina un professore che mette un 3 ad un compito di matematica e alla richiesta dello studente di mostrare come doveva essere fatto il compito risponde solo “il tuo è sbagliato…”
A rigore, Greylines, non possiamo nemmeno dimostrare che la probabilità sia diversa da quella del calcolo semplicistico senza un calcolo alternativo, potrebbe anche dare lo stesso risultato, per questo mi associo alla domanda di Pennetta: ce lo indica lei un calcolo corretto? Se è impossibile svolgerlo, di che cosa stiamo parlando?