Il giornalismo forense:
intervista a
Pasquale Ragone
Di
Enzo Pennetta
Pasquale Ragone, criminologo e giornalista forense, ha recentemente dato il suo contributo in un servizio trasmesso da RAI Storia sul Clan dei Marsigliesi, banda che ha imperversato a Roma negli anni ’70, la sensazione è quella di trovarsi di fronte ad un vero giornalista d’inchiesta. Ragone ha anche tentato di riaprire il caso di Luigi Tenco (ufficialmente morto suicida al Festival di San Remo del 1967) scoprendo che non si sarebbe trattato affatto di un suicidio. Su CS ci occupiamo di scienza ma anche di informazione e la sensazione è che Ragone rappresenti uno di quei giornalisti investigativi che pensi di vedere ormai solo nei film.
L’ho incontrato in un locale di Piazza San Giovanni a Roma, più di un’ora a parlare di molte cose, più di quante ne possa riportare in un articolo.
Per prima cosa ho chiesto a Ragone: Cos’è il giornalismo forense e come si svolge oggi il lavoro di un giornalista forense?
Il giornalismo forense che sto cercando di promuovere attraverso la rivista Cronaca&Dossier che dirigo vuole essere un ibrido fra il lavoro del giornalista investigativo e quello del criminologo esperto in Scienze forensi.
Come tutti sappiamo il giornalista deve lavorare sul campo, ma il problema è che oggi il campo d’azione è cambiato. Prima l’icona era quella del giornalista che prendeva appunti col taccuino, adesso dopo tanti anni di processi ci si è accorti che la testimonianza pone delle problematiche rilevanti, come ad esempio versioni che cambiano nel corso dei processi. Adesso il modo più efficace per avvicinarsi alla cosiddetta “verità” è guardare alla scena del crimine e ai dati disponibili agli inquirenti, e possibilmente con la stessa loro preparazione.
Deve quindi essere in grado di valutare quello che hanno in mano gli inquirenti?
Sì, ma interviene dopo che gli inquirenti hanno comunicato le loro conclusioni e confrontare la coerenza tra gli elementi e le conclusioni stesse. La responsabilità è grande perché la prima sentenza è quella emessa dalla stampa, e sono giudizi che poi persistono. Per chi opera nel campo della ricerca giornalistica sussiste un problema serio che è quello delle fonti. Quando non abbiamo una certa preparazione siamo sempre vincolati al parere di qualcun altro, procuratore, investigatore o consulente che sia.
Nel caso Tenco ad esempio è stato importante conoscere le differenze fra le impronte lasciate da un’arma su un bossolo. Nel caso specifico l’impronta dell’espulsore della pistola di Tenco è di forma semicircolare mentre quella trovata sul bossolo che la Polizia dice provenire dalla scena del crimine, è di forma triangolare. Da subito era evidente che la pistola fotografata sulla scena del crimine non era con quella di Tenco, infatti la Walther PPK ha il grilletto con uno spazio vuoto sulla parte posteriore mentre su quella fotografata lo spazio è pieno. Aggiungiamo che l’impronta sul bossolo è di una Beretta 70, arma che tra l’altro si compone di una filettatura che serve ad applicare il silenziatore, fatto importante perché nessuno sentì lo sparo: il vicino di stanza era Sandro Ciotti e testimoniò di non aver sentito nulla.
Mi sarei aspettato che la riapertura del caso Tenco sollevasse più clamore, cosa mi può dire al riguardo?
In realtà ci sono stati servizi televisivi ad esempio su “TV7”, settimanale di approfondimento del TG1, e “Chi l’ha visto” e per la prima volta in quasi 50 anni la RAI ha raccontato al grande pubblico gli elementi a supporto della tesi omicidiaria. Quello che emerge però è che una volta rese pubbliche le conclusioni delle Procure la stampa tende a seguirle acriticamente. Così è avvenuto nel caso Tenco nel 1967 il giorno dopo il presunto suicidio; così è avvenuto nel medesimo caso nel 2006 dopo l’esumazione della salma del cantautore prima ancora che i risultati dell’ERT si arricchissero delle analisi necessarie; così è stato nel 2015 quando la Procura di Imperia ha concluso che “i morti vanno lasciati in pace” (cit.) senza che la stampa fosse entrata, coraggiosamente e doverosamente, nel merito della questione e non solo perché un procuratore un mattino si sveglia e decide di affermare cose che di tecnico non hanno nulla.
In questo modo però si aprirebbe sempre uno “scontro” fra Procure e giornalisti.
Il giornalista deve essere pronto anche a difendere “la bestia” ai fini del garantismo e della tutela di ogni persona che, è bene ricordare, fino all’ultimo grado di giudizio resta innocente. A parte pochi casi clamorosamente palesi, il giornalista non deve cioè accettare colpevoli senza prove convincenti.
Sia la professione del giornalista investigativo, sia quella del criminologo partono dalla necessità di dubitare, sempre, e dunque il primo esercizio utile è mettere in discussione le conclusioni delle Procure.
Come si diventa giornalisti forensi?
Trattandosi di uno step secondo me necessario per chi vuole fare oggi il giornalista di cronaca nera, penso che dovrebbe prendere sempre più piede la definizione di giornalista forense, ovvero colui che ha maturato esperienza come giornalista investigativo e criminologo. E tutto questo va promosso, sì con la teoria, ma soprattutto con la pratica, molta pratica. Lavorare sul campo è la prima cosa, il che vuol dire, dopo avere imparato le basilari regole del giornalismo, entrare negli archivi, imparare ad osservare una scena del crimine e un cadavere, imparare cosa sono e quali sono le Scienze forensi. In più sono per una nuova definizione di regolamentazione del Giornalismo. Infatti in passato il fatto stesso di pubblicare per un grande quotidiano era garanzia di professionalità, oggi nel web non si sa che preparazione abbia chi scrive una determinata notizia. Penso si possa intervenire in modo relativamente semplice per regolamentare la qualità dell’informazione nel web.
Oltre al caso Tenco so che lei è interessato ai “cold” case, personalmente trovo molto interessante quello della morte di Wilma Montesi avvenuta nel 1953 e che ebbe pesanti ripercussioni politiche sul destino politico di Piero Piccioni, il vice di Alcide De Gasperi e destinato a succedergli.
Wilma Montesi venne trovata sulla spiaggia di Torvaianica l’11 aprile 1953 e la mia idea è che la sua morte non avesse niente a che fare con la politica. Quello che si racconta è che nella zona si svolgessero dei festini, ma la mia idea è che lei si sia recata ad un appuntamento con una persona di fiducia e non con l’iniziale intenzione di finire sul litorale laziale: l’abbigliamento non era adatto per andare ad un festino.
Su quella spiaggia all’epoca non era purtroppo insolito che venissero ritrovati dei cadaveri di giovani suicidi. Le indagini, che furono condotte inizialmente con grande professionalità, evidenziarono da subito che non poteva trattarsi di un suicidio perché dal giorno della scomparsa a quello del ritrovamento il corpo avrebbe dovuto subire gli effetti della permanenza in mare ed avere segni che non vennero invece riscontrati; il corpo era stato poco tempo in mare e dunque non durante i due giorni passati dalla scomparsa.
I carabinieri avevano anche capito che non c’erano collegamenti con la tenuta di Capocotta dove si svolgevano i festini. Penso che si sia consumata all’interno delle pieghe di una vicenda privata: probabilmente l’incontro con un uomo col quale aveva una relazione clandestina mentre era in procinto di sposarsi con un poliziotto. Va considerato inoltre che la ragazza soffriva di una insufficienza cardiaca, motivo per il quale si sarebbe sentita male mentre era clandestinamente con l’uomo che anziché portarla in ospedale ha cercato di accudirla a casa dove però le condizioni sono peggiorate, infine credendola morta l’avrebbe portata sulla spiaggia.
Come si giunge quindi alla campagna di stampa che porterà al coinvolgimento della Dc? In un libro di Giovanni Fasanella si parla di un’iniziativa del governo inglese che intendeva contrastare la politica espansionistica di quello italiano in campo energetico e in particolare gli accordi con l’Iran.
Ammetto di non essere affatto affascinato dalla tesi che dietro il caso Montesi vi fosse un complotto internazionale. Come tanti fatti italiani, la montatura del caso Montesi credo sia nata e maturata tutta all’interno delle fazioni politiche italiane, laddove l’obiettivo era colpire la Dc uscita senza governo all’indomani delle elezioni del 1953, quando per un soffio non vinse le elezioni. A questo iniziale attacco esterno si sono poi aggiunti “fattori interni” alla Dc, con soggetti che hanno visto nel caso Montesi un’occasione per farsi largo e spazzare via personalità già in lista per la successione a De Gasperi. Non è un segreto che Amintore Fanfani beneficiò non poco della fine politica di Attilio Piccioli, il cui figlio Piero venne coinvolto appieno nello scandalo. Da quel momento in poi il caso Montesi è diventato il pretesto per tentare di colpire sempre più la Dc, con la Sinistra che si era ritrovata un assist che faceva gola. Non a caso il clamore sulla scandalo Montesi inizia ad attenuarsi quando l’avvocato Giuseppe Sotgiu, che aveva avuto un ruolo importante nelle accuse contro la Dc, finisce anch’egli nello scandalo perché beccato mentre accompagna la moglie a fare sesso con un ragazzo. Si aprì poi un processo perché quel ragazzo si scoprì essere minorenne ma l’avvocato alla fine ne uscì indenne perché non si dimostrò sapesse dell’età del ragazzo. Non è forse una storia già sentita in anni recenti? Ecco, è questa la forza del caso Montesi: essere una vicenda tutta italiana al punto da essere tanto, troppo simile a quanto accade ai giorni nostri.
Chissà, forse le due ipotesi sono entrambe vere, in ogni caso un fatto accaduto accidentalmente e strumentalizzato da diversi soggetti.
Piero Piccioni era semplicemente uno che amava divertirsi ed era del tutto estraneo ai fatti. Anche la storia delle orge si sarebbe potuta smontare fin dal principio quando si vide che la ragazza era stata ritrovata vestita in modo non adatto, con abiti semplici, da tutti i giorni, ma soprattutto in base all’esame autoptico la ragazza fu trovata vergine. Per il libro che ho scritto sul caso ho ritrovato dopo decenni e pubblicato il primo fascicolo prodotto sulla morte di Wilma Montesi. E credo che sia importante, non solo a livello storico, ma anche perché ci restituisce un’indagine, quella iniziare da parte dei Carabinieri di Ostia, fatta bene e in modo certosino, lontano dalle polemiche che avrebbero in qualche modo “sporcato” un caso altrimenti piuttosto “banale” rispetto a come lo ricordiamo noi oggi.
Alla fine a livello processuale come venne considerato il figlio di Attilio Piccioni?
Fu assolto. In realtà non c’era nessun collegamento tra Piero Piccioni e Wilma Montesi. Al riguardo ci fu un aneddoto di Giulio Andreotti che raccontò di un giorno in cui il magistrato Raffaele Sepe, che condusse la fase calda dell’indagine, si recò da lui ammettendo che non c’era alcuna prova che i due neanche si conoscessero, e alle osservazioni stupite di Andreotti su come si fosse costruito un caso sul nulla questi rispose vagamente dicendo qualcosa come “ma sa questi jazzisti…”. I sospetti e i pregiudizi furono i veri “assassini” nel caso Montesi, figli di un’Italia che penso ancora oggi esista e si rifà al discorso fatto all’inizio della nostra chiacchierata.
Su quest’ultima risposta la considerazione che resta è che quello di Wilma Montesi è davvero un caso che fa riflettere, un ottimo lavoro investigativo vanificato da interessi politici sotterranei. La verità può essere nascosta con un’azione di disinformazione, per questo il giornalismo d’inchiesta è necessario.
Terminato l’incontro ho salutato Ragone ringraziandolo per aver chiarito alcune cose importanti.
Il giornalista forense è dunque qualcuno in grado non tanto di svolgere delle indagini autonome ma di analizzare in modo critico e competente i dati resi disponibili dagli inquirenti e di valutare sia la congruità delle stesse conclusioni a cui forze dell’ordine e magistratura giungono, che la fondatezza delle notizie che altri giornalisti pubblicano, una specie di verifica interna.
Dopo l’incontro con Pasquale Ragone ho la consapevolezza di quello che può e deve essere più che mai il ruolo attuale del giornalismo, fornire un vaglio attento e competente delle informazioni che giungono da ogni genere di autorità e da altre forme di informazione.
Quello che in fondo facciamo anche qui su CS. Siamo anche noi un po’ giornalisti investigativi.
Pasquale Ragone ha pubblicato:
Storia di un omicidio – 2011
Le ombre del silenzio. Suicidio o delitto? Controinchiesta sulla morte di Luigi Tenco – 2013
La stagione delle belve. La vera storia del clan dei marsigliesi – 2014
La verginità e il potere. Il caso Montesi e le nuove indagini – 2015
Attualmente è Direttore della prima rivista di giornalismo forense in Italia “Cronaca&Dossier”
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4 commenti
Molto interessante questo articolo, ottimo questo giornalista, mi pare molto equilibrato e legato ai fatti, ossia non specula più di tanto, personalmente mi è piaciuto che non abbracci la tesi del complotto internazionale sul caso Montesi. L’equilibrio in queste cose è importante e da credibilità, spesso quando lo si abbandona si finisce per lavorare “a tesi” se non per vera e propria ideologia. Ben venga quindi l’attitudine di CS a sospettare complotti dai “soliti noti”, ma giusto per controbilanciare le manipolazioni delle notizie a monte, la verità è quasi sempre nel mezzo, anche se magari è meno appassionante delle tesi opposte.
Condivido, è esattamente l’impressione che ha dato a me ed è il motivo per cui ho trovato interessante inrtervistarlo.
Sul caso Montesi, come si capisce dall’articolo, personalmente propendo per un sovrapporsi di interessi interni ed esterni che hanno finito per convergere. Ma ovviamente qui si va oltre le indagini e iniziano le ipotesi.
Potrebbe essere una sorta di controllo su ciò che fa o non fa la giustizia. Ma un qualcosa che sta tra il giornalismo di inchiesta e la scienza, prof., perché non ci dice qualcosa sulla attuale polemica sui vaccini?
Un controllo su quello che fa la giustizia nel caso del giornalismo forense, un controllo su quello che fanno le varie autorità nel caso del giornalismo in generale.
Noi ci occupiamo di controllare le affermazioni della scienza con i dati delle ricerche stesse, esattamente quello che Ragone dice che deve fare il giornalista forense.
Né noi né i giornalisti forensi possiamo svolgere ricerche autonomamente, possiamo però vagliare le conclusioni a cui giungono le autorità e verificare la consistenza delle prove e la congruenza delle affermazioni delle autorità stesse, e questo mi sembra che sia un gran servizio offerto.
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Riguardo ai vaccini ci si può certamente scrivere qualcosa, posso però anticipare che non ritengo accettabile che si possa costringere qualcuno ad introdurre nel proprio corpo una qualsiasi sostanza.
Si tratterebbe di un grave vulnus al principio dell’habeas corpus che una volta violato aprirebbe la strada ad una serie di diritti reclamati dallo stato sui cittadini, fin sul loro corpo, e questo è inaccettabile.