“Giorno e notte” (M.C. Escher, 1938)
La matematica di Escher
di Giorgio Masiero
Escher fece una ricerca artistica con metafore geometriche, o piuttosto una ricerca matematica con i mezzi dell’arte?
Dopo essere stata a Roma e a Bologna, è arrivata anche dalle mie parti, così sono andato con comodo a visitarla durante le feste. È una mostra dedicata a Maurits Cornelis Escher: costruzioni impossibili, esplorazioni dell’infinito, giochi di specchi, geometrie paradossali, tutto il mondo di questo artista assolutamente unico è raccolto in 150 opere esposte al museo di S. Caterina di Treviso.
Escher creò alcune delle immagini più memorabili del XX secolo, eppure non fu mai accolto dagli artisti nella loro cerchia. Il riconoscimento globale gli venne, senza il suo consenso, dalla controcultura hippy degli anni ’60, che lo elesse pioniere dell’arte psichedelica. Schivo, preferì lavorare fuori di ogni classificazione e rifuggì la fama, declinando l’offerta di Mick Jagger di disegnare la copertina d’un album dei Rolling Stones e la proposta di Stanley Kubrick d’introdurre nel film “2001: Odissea nello spazio” la propria visione della quarta dimensione.
Era nato nel 1898 in Olanda, ultimo di 5 fratelli. Anche se suo padre era un ingegnere civile e tutti i fratelli si dedicarono alla scienza, egli si considerava uno “studente scarso” in aritmetica e algebra, per la “grande difficoltà a comprendere l’astrazione delle figure e delle lettere”: detto da chi fu maestro ancor oggi insuperato nella rappresentazione dell’astrazione matematica, stento a credergli. A scuola era bravo solo in disegno, così intraprese una carriera nella grafica applicata all’architettura e all’arredamento. Prese ad illustrare libri, produrre matrici di tappezzerie, dipingere muri ed incidere stampe. I suoi soggetti erano panorami naturali, nuclei abitati, interni, che esplorava contemporaneamente e conflittualmente da più punti di osservazione, esponendo alla vista effetti spaziali diversi. Fu questa sua eccellenza nel disegno che lo fece penetrare da autodidatta nei segreti della geometria, aprendogli nuovi campi di ricerca riguardanti le proprietà delle immagini: lo sviluppo sul piano di una superficie curva, errori di prospettiva e prospettive irreali, riempimenti del piano, la geometria dello spazio tridimensionale.
Il patio dei leoni (Alhambra, Granada, XIV sec.)
L’evento che gli diede piena coscienza del suo genio fu una visita al Palazzo dell’Alhambra di Granada, nel 1936. Qui vide realizzata in mille forme, anche sovrapposte, la tassellatura del piano. Con molta attenzione ne copiò le geometrie e il risultato fu che il suo stile divenne meno osservativo e sempre più inventivo. L’architettura nordica, ch’egli aveva fino allora abitato nelle sue case in Svizzera, Belgio e Olanda, fatte di linee rette e rettangoli onnipresenti ad esaurire le forme delle cose, gli parve noiosa rispetto alla creatività curvilinea incessante dell’architettura moresca, invariante in cicli sempre varianti: “Mi sentii spinto a smettere d’illustrare il mio ambiente più o meno diretto e realistico e ad abbracciare quello delle mie visioni interne”, scrisse.
Da quel momento iniziò l’ossessione per la divisione regolare del piano, in cui forme affiancate di pesci, lucertole o uccelli sono riprodotte – secondo una tecnica direttamente ispirata all’Alhambra – dagli stessi spazi che le separano. Così, nel lavoro “Giorno e notte” del 1938 che ho scelto per aprire questo articolo, gli uccelli bianchi coincidono con gli spazi che li separano dagli uccelli neri e viceversa, sopra una campagna a scacchiera evolvente negli stessi uccelli. La distinzione tra scena e sfondo è cancellata e tu, estatico ammiratore, puoi scegliere a tuo piacimento quale insieme di forme interpretare come primo piano e quale come sfondo, ipnoticamente oscillando tra 2 (o 3?) stati percettivi!
Se prima il suo lavoro era stato una pedante variazione meta-artistica della plasticità, ora non è più per lui il tempo dell’artista nordico precisino, ma di diventare, secondo la sua auto-definizione, un “artista pensante, entusiasta della realtà, interessato al linguaggio della materia, dello spazio e dell’universo”. Nascono le più grandiose opere di Escher che coniugano in una visione idiosincratica lo stupore formale con la geometria astratta.
Osserviamo nello schema in basso, a destra, “Ascesa e discesa”, una stampa di Escher del 1960 dove sono rappresentate due file di persone deambulanti rispettivamente verso l’alto e verso il basso, eternamente, in un’impossibile scala quadrangolare. A questo link, Lettore, puoi contemplare il formato originale in tutto il suo fascino. Il soggetto non è il trucco matematico pur stupefacente, perché prevale l’emozione artistica trasmessaci dall’autore con la forza di quel trucco. Io non sono un surrealista, ci dice Escher, ma una specie di esistenzialista. A commento di questa opera scrisse: “Quella scala è un soggetto molto triste e pessimistico, e allo stesso tempo profondo e assurdo. Con simili domande sulle labbra, il nostro Albert Camus si è schiantato contro un albero con l’auto d’un amico e si è ucciso. Una morte assurda, che mi ha colpito: sì, sì, ci arrampichiamo sempre più in alto credendo di salire. Ogni gradino è alto 25 cm, terribilmente faticoso, ma dove ci porta tutti quanti? Da nessuna parte”. Sembra di ascoltare il Qohelet…
“Casa di scale” di Escher (1953) a sinistra; prima pagina dell’articolo dei Penrose con il triangolo impossibile (1956) in centro; “Ascesa e discesa” di Escher (1960) a destra
Il castello dell’inanità è completato dalle due figure immobili, fuori della scala eterna: una sulla terrazza di sinistra guarda ai compagni condannati, l’altra è seduta mestamente sulla scalinata inferiore. Sono “due individui recalcitranti che rifiutano, per il momento, di prender parte all’esercizio”, spiegò Escher, “non hanno alcun ruolo nel sistema, ma senza dubbio, prima o poi saranno portati a vedere l’errore del loro anticonformismo”. Quest’arte non è solo sorprendente, ma anche trasparente, e tale caratteristica accosta l’artista olandese ai grandi incisori allegorici e popolari, come Albrecht Dürer, Pieter Bruegel, Annibale Carracci…
Grato per l’ispirazione venutagli dalla lettura dell’articolo “Impossible Objects: A Special Type of Visual Illusion” (in centro, nello schema), scritto nel 1956 dal genetista Lionel Penrose insieme al figlio, il matematico Roger, Escher inviò loro la prima copia di “Ascesa e discesa”. I Penrose si dissero loro in debito con Escher, perché per l’articolo si erano ispirati ad un suo lavoro del 1953, “Casa di scale” (a sinistra), in particolare per l’oggetto chiamato “triangolo impossibile” che così fece la sua prima apparizione nel mondo matematico ufficiale.
Questa vicenda rivela che il rapporto di Escher con la matematica non fu solo ispirativo e strumentale, ma anche creativo: Escher incise nel 1960 “Ascesa e discesa” ispirato dalle ricerche matematiche dei Penrose del ’56, ma i Penrose a loro volta si erano prima ispirati ad una creazione matematica di Escher, “Casa di scale”, del ’53!
Se Escher mostrò di anticipare scoperte matematiche, possiamo definire i suoi lavori non solo opere d’arte, ma ricerca matematica tout court. Merita allora di approfondire la relazione tra l’arte di Escher e la matematica, anche perché non fu solo il moto perpetuo (una tipologia d’infinito verso i cui molteplici aspetti l’olandese mostrò una predilezione) a far da ponte tra le due discipline, ma altri concetti matematici fornirono metafore visive all’arte di questo autore.
Dopo la visita all’Alhambra, Escher s’impegnò sempre più nei problemi della forma e della tassellatura del piano, ma non eseguì l’investigazione alla solita maniera – logica, numerica, algebrica e analitica – dei matematici ortodossi, bensì sul campo sperimentale, letteralmente sporcandosi le mani di grafite, gesso e vernici, trucioli e segatura, sfruttando la percezione visiva e tattile delle immagini che andava incidendo nel legno. Solo così poté trasmettere a noi voyeur esterni le sue “visioni interne”: illusioni, figure impossibili, suddivisioni inimmaginabili del piano euclideo, e poi specie minerali, vegetali e animali evolventi sotto i nostri occhi da specchi d’acqua in piante, da piante in pesci in rettili in uccelli… e poi all’inverso. Fu attraverso una matematica sperimentale ch’egli riuscì a connettere la facoltà umana trascendentale di percepire la profondità dello spazio con la padronanza della prospettiva del disegnatore e con le idee non visualizzabili di infinito attuale e potenziale.
Non casualmente la prima mostra delle opere di Escher in Olanda fu organizzata nel 1954 in coincidenza con il Congresso Internazionale dei Matematici che si tenne quell’anno ad Amsterdam. La maggior parte dei congressisti, prigionieri del disincarnato metodo logico-deduttivo della matematica professionistica, visitando la mostra colse più l’aspetto allegro e immaginifico di quello scientifico. Dopo la delusione provata con gli artisti, ad Escher ne toccò coi matematici un’altra e le due delusioni si fusero nella solitudine di chi non è accolto né tra gli uni, né tra gli altri. “Per quanto sia difficile, io trovo più soddisfazione a risolvere un problema nella mia maniera imbranata. Rimane il fatto triste e frustrante che parlo un linguaggio che è capito da pochissime persone. Ciò mi fa sentire sempre più solo. In fondo, non appartengo a nessun partito: i matematici mi sono amichevoli e interessati, mi danno una paterna pacca sulla spalla, ma alla fine io sono per loro un incompetente pasticcione. Il mondo dell’arte da parte sua si mostra per lo più irritato”, scrisse ad un amico.
Dalla solitudine seppe comunque progredire ulteriormente, come dimostrò la produzione di xilografie “Circle Limit Series” degli anni ‘60, nelle quali per diretto riconoscimento dei matematici egli li anticipò ancora. In queste incisioni, alla ricerca di nuove logiche visuali con cui catturare l’infinito, Escher riuscì a rappresentare il piano iperbolico su quello euclideo senza aver studiato le geometrie non euclidee. Se del piano di Euclide egli era stato da sempre un maestro come incisore, del piano di Lobacevskij era appena un dilettante per quel che ne aveva udito discorrendo con i suoi amici matematici: cionondimeno, la sua intuizione produsse in vivo alcuni incredibili lavori come “La pesca miracolosa”, o “Angeli e demoni”, raffigurati qui sotto.
Esaminiamo le proprietà geometriche del primo lavoro: tutti i pesci di una serie hanno lo stesso colore e nuotano la testa dell’uno dietro la coda del precedente lungo un percorso circolare da bordo a bordo; più vicini sono al centro più grandi diventano; 4 colori sono necessari a separare ogni fila dalle circostanti; poiché tutte le file di pesci decollano come razzi ad angolo retto rispetto ai bordi da una distanza infinita, non un singolo pesce raggiunge il bordo. Di là c’è il nulla assoluto. Eppure il mondo interno, rotondo, non può esistere senza il vuoto intorno, non solo perché il dentro presuppone un fuori, ma anche perché è là fuori nel nulla che i centri degli archi necessari a costruire l’universo lobacevskijano sono fissati con esattezza geometrica.
“La pesca miracolosa” (1959) e “Angeli e demoni” (1960)
In queste due opere c’è tutta la geometria iperbolica! Come sia riuscito Escher a costruire geometricamente (con riga e compasso) queste incisioni è tuttora un mistero. Un insegnante di matematica di liceo potrebbe utilmente esporre ai suoi allievi la soluzione proposta dal matematico Thomas Wieting.
Ad una conferenza del 1963 sull’impossibile, Escher disse: “Se si vuole esprimere qualcosa di impossibile, è necessario rispettare certe regole. L’elemento di mistero verso cui si desidera attirare l’attenzione dovrebbe essere circondato e velato da qualcosa di comune, facilmente riconoscibile e abbastanza ovvio”. Che cos’è questa se non, oltre che una descrizione della sua arte, una definizione della matematica astratta che crea inesauribilmente mondi (fisicamente) impossibili nel rispetto delle regole dell’aritmetica di Peano e della logica?
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20 commenti
Buongiorno prof. Masiero, e buon ritorno dalle vacanze.
Grazie tante per questo grazioso articolo su tale singolare matematico-artista, più o meno incompreso per cagione della deficienza di una visione olistica ed interdisciplinare delle scientiae (simile destino, se non erro, ebbe il trattato di Eulero sulla musica: troppa musica per i matematici, e troppa matematica per i musicisti). Penso che tale articolo, associato alla non eccessivamente complessa descrizione di geometria iperbolica di T. Wieting, sarebbe ideale in sede didattica nelle scuole superiori (la mia professoressa di matematica del liceo fece fare noi, d’altronde, un vero e proprio approfondimento su Escher).
Ho avuto il piacere di visitare la mostra a Roma dell’artista quasi un anno fa; dell’arte di Escher mi colpì proprio la coesistenza dell’ottimismo infantile ed inventivo-investigativo della matematica con il pessimismo esistenzialistico-grottesco ed alientante di molti dei soggetti rappresentati.
Grazie, Alio, e ben ritrovato anche a Lei.
Ciò che Lei scrive mi trova perfettamente d’accordo e non Glielo dico per circostanza, ma perché ancora una volta ci troviamo con sensibilità affini! Trovo perfetta la Sua caratterizzazione dello stile artistico di Escher come mix di ottimismo puerile e pessimismo esistenzialistico. Evidentemente quell’autore fu bravo a coniugare l’impossibile nel disegno come nella visione della vita.
PS. Lei deve avere avuto una brava insegnante di matematica al liceo…
Grazie per questo articolo prof. Masiero.
Se ricordo bene proprio Penrose fa riferimento a Escher per parlare dei frattali e di Mandelbrot, ma non vedo riferimenti espliciti a questa geometria nell’articolo, mi sbaglio io (per ignoranza in materia) o questa è stata un’altra anticipazione di questo artista ?
Grazie, Muggeridge.
Sui frattali, non sarei d’accordo di attribuire ad Escher neanche un solo lavoro. Almeno per cio’ che io conosco delle sue opere. Ne’ mi risulta che Mandelbrot abbia mai riconosciuto all’arte di Escher ispirazione per la sua scoperta geometrica.
Spesso si cita la terza serie dei Circle Limits, in particolare la Pesca miracolosa, per dire che Escher ha inventato i frattali, e cio’ perche’ i pesci diventano sempre piu’ piccoli e infiniti, restando simili tra loro, man mano che si va verso il bordo. Ma questa e’ geometria iperbolica, non geometria frattale! Infatti, la geometria frattale si caratterizza per la continuita’ non derivabile, ovvero tutte le linee sono continue ma non lisce, cosicche’ in ogni intervallo di linea si ripete all’infinito la stessa figura. Invece tutti i pesci della Pesca miracolosa, cosi’ come ogni altra figura di ogni altro lavoro di Escher, sono fatti di linee continue e lisce, e l’infinito appare solo spostandosi ai bordi.
La ringrazio prof. Masiero per l’esauriente spiegazione. In effetti ricordavo male, sono andato a riprendere il libro di Roger Penrose “La mente nuova dell’Imperatore” ed Escher e Mandelbrot sono trattati separatamente.
Grazie della risposta, professore.
La mia insegnante di liceo (4° e 5° anno), donna sveglia ed anche alla mano, che ricordo con piacere, si preoccupava spesso di coinvolgere gli alunni (specialmente quelli più interessati e promettenti) in attività di approfondimento; tuttavia veniva trascinata sempre dalla mediocrità e nequizia del resto della classe, il che le impediva di generalizzare qualsivoglia tentativo di approfondimento
(mi scuso per il piccolo OT).
P.S. mi accorgo di aver scritto “alientante” invece di alienante, uh…
Carissimo Giorgio,
questo articolo a mio parere ben si addice per iniziare l’anno su CS .
Una trattazione su Escher e le sue figure impossibili, tra cui il triangolo che campeggia in home page, come simbolo di ciò che appare reale e non può esserlo. Così come sembrano apparentemente reali ma non possono esserlo tutte le teorie scientifiche che la storia ha poi dimostrato inadeguate e quelle che la storia dimostrerà esserlo domani.
Una parola per i due personaggi anticonformisti esterni alla scala, all’interno del simbolismo di cui ho detto sopra, non possiamo essere in loro rappresentati tutti noi che stiamo fuori dal coro?
Non ci avevo pensato, Enzo! Eppure si’, hai ragione: il Triangolo impossibile, come simbolo dell’imbroglio di far apparire per reale cio’ che non e’ neanche possibile, mi ricordo che l’avevi portato al Workshop di CS. Dunque l’opera di Escher, che ha ispirato i Penrose, la “Casa di scale” puo’ ben essere un nostro simbolo. E hai ragione anche per le due figure non conformiste di “Ascesa e discesa”…
Grazie Giorgio Masiero.
Un articolo esplorativo e meditativo.
Alla fine, la sostanza è il fine ultimo.
Il vuoto rappresentato è la mancanza di senso.
Per gli artisti occorre trovare la verità, mentre per gli scienziati invece la pietra filosofale è la conoscenza.
Uomini come Maurits Cornelis Escher credettero in vita a qualcosa di più comune: la comprensione.
Capire umanamente e scientemente è il segreto del mondo.
Tutto questo da un tocco di sovrannaturale, di spirituale…
Grazie, Dom, ed ho trovato molto profondo il Suo commento.
Grazie mille volte caro Giorgio per questo suggestivo articolo!
Food for thought in tante direzioni!
(a) la connessione tra matematica e arte non è peregrina: la matematica è un’invenzione dello spirito umano alla stessa stregua che l’arte. Non esiste un “mondo” matematico pre-esistente di per sé come non esiste un “mondo” artistico che sia già dato: questo mette in valore il fatto che le rappresentazioni matematiche della fisica procedano similarmente alle rappresentazioni artistiche e qui Escher ne fa una dimostrazione che va aldilà di tanti discorsi e che può essere colta intuitivamente da chiunque.
(b) l’opera id Escher , e la contemporaneità tra i due non deve essere puramente casuale, mi rilega direttamente al “Gioco delle Perle di Vetro” di Hermann Hesse: in questi il “Gioco” è capace di rilegare concetti scientifici, logica astratta, estetica e aspetto ludico in una sola “partita”. Hermann Hesse è qualcuno che, in un’epoca particolarmente scientista come quella nella quale ha vissuto è stato capace di illustrarne la dimensione “mitica” e artistica dove l’estetica, concetto eminentemente cultural-dipendente, tiene luogo di validazione di una “Partita” riuscita.
(c) il discorso scientifico, esattamente come un’opera d’arte, può essere apprezzato solo in un contesto culturale dato: questo già ci aiuta a capire, senza esserne oltremodo scandalizzati, che dopo 4 secoli stiamo vivendo il tramonto della ricerca scientifica in quanto tale, al solo profitto di pura conoscenza tecnologica e funzionale alla società.
(d) il disegno di cui sopra delle scalinate in “tutti i sensi” (come il triangolo impossibile) mi riporta ad immagini di 2001 Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick: orbene geometricamente (e quindi matematicamente) ben sappiamo che questo è possibile in quanto proiezione in uno spazio a due dimensioni (il foglio di carta) di una realtà in uno spazio di dimensioni superiori. Forse potremmo illustrare e spiegare quel che avviene in uno spazio a tre dimensioni senza gravità con gli effetti visuali mostrati da Kubrick come una proiezione di uno spazio di dimensioni superiori come quello che sarebbe esistente sulla terra grazie alla gravità: cioè vediamo l’effetto della gravità su terra , effetto che “ordina” le nostre esperienze, semplicemente perché “bagnamo” in un spazio a (minimo) 5 dimensioni (compreso il tempo) mentre nel vuoto spaziale siamo in uno spazio matematicamente di sole 4 dimensioni….
Grazie, Simon. Il tuo commento vale un altro articolo!
Anch’io apprezzo le considerazioni aggiuntive dell’utente Simon de Cyrène; particolarmente stimolante la quarta: un’ “estetica della geometria proiettiva” (non saprei come definirla altrimenti) che emerge dal giuoco degli eteromorfismi fra sistemi di cui uno (quello di partenza) contenente l’altro (la proiezione). E’ da notare come in effetti la proiezione (e.g. dello spazio euclideo tridimensionale sul bidimensionale) sia nella storia dell’arte occidentale una delle aree che diede più frutti sul lato intellettuale ed artistico; mi riferisco, in particolare, alla prospettiva quattrocentesca, ma anche ad Escher, e (perché no, come fatto notare dall’utente Simon) pure a Kubrik.
Kubrick è per me un regista fuori classifica, impossibile paragonarlo a nessun altro, che sia inserito in questa ricerca della rappresentazione multidimensionale mi sembra un giusto riconoscimento.
* Kubrick (scrivere su piattaforma mobile è disastroso…).
P.s. oh sí prof. Pennetta, i suoi film son così affascinanti e multiprospettici…
Bell’articolo pieno di spunti e molto bello il commento di Simon, sono d’accordo con Enzo che quei due uomini possano rappresentarci in qualche modo.
Detto questo devo anche dire che Escher mi ha sempre affascinato ma anche “agitato”, nel senso di “reso inquieto”, forse insicuro e quindi in un certo modo mi ha sempre irritato così come d’altra parte Kubrick
Sono d’accordo con entrambi, film affascinanti e multiprospettici come dice Alio, o inquietanti, “irritanti”, come dice Valentino, sono aspetti di una stessa cosa.
In ogni caso… grande Kubrick!
Grazie, Valentino.
L’inquietudine “nasce” secondo me dall’assoluta simmetria.
Il mondo reale è naturalmente asimmetrico a cominciare dai nostri visi per finire alle molecole levogire o alla presenza di particelle massive.
Qualcosa di assolutamente simmetrico rasenta la perfezione ma, in qualche modo, manca il bersaglio in quanto innaturale.
È quel che ci permette di distinguere tra opera umana e opera naturale a prima vista…
Visto che è vicina a casa comunque andrò a visitarla, magari in treno così se mi agito troppo non rischio di creare problemi alla circolazione stradale.