Il dialogo dei Meli

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milo

La Venere di Milo (130 a.C.)

 

Non c’è errore nell’inseguire l’ingiustizia, che rimanga impunito dalla storia.

Nell’immediato l’ingiusto può apparire utile, ma nel lungo termine coincide con ciò che è dannoso anche per sé

L’isola di Milo (Mélos, in greco) è famosa per la sua statua di Venere, prima ritrovata da un contadino, poi trafugata dai turchi e infine acquistata dai francesi per essere conservata al Louvre. L’isola è meno nota per un episodio accaduto durante la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.): la resistenza dei suoi abitanti, i Meli, alle imposizioni degli Ateniesi fino al massacro finale. I fatti sono stati riportati da Tucidide nel Libro V, §84-116, della sua “Storia della guerra del Peloponneso”, in un brano che è un classico della storia e della letteratura greche. In un crescendo drammatico, il grande storico che fu generale ateniese nella stessa guerra, racconta dettagliatamente il dialogo intervenuto tra gli ambasciatori di Atene, venuti ad intimare la soggezione incondizionata dell’isola, e i rappresentanti dei Meli che fieri della loro indipendenza secolare rifiutano di assoggettarsi; nonché l’eccidio che ne seguì. Questo dialogo, per quanto svela dei meccanismi reali del potere e della politica, dovrebbe essere oggetto di studio nelle scuole di ogni ordine e grado. La vicenda di Milo mi è venuta in mente in questi giorni, di fronte alle “trattative” in corso tra la Grecia e le istituzioni finanziarie internazionali dove i greci moderni, come gli antichi Meli, giocano un no-win game: arrendersi o fallire, vale a dire la miseria o la miseria.

Siamo nel 416, anno di Giochi Olimpici. L’esito della guerra che oppone da 15 anni la lega del Peloponneso capeggiata da Sparta alla lega di Delo sotto l’egida di Atene rimane incerto. Atene è la luce della civiltà occidentale, oltre che la massima potenza militare del Mediterraneo: Socrate ha 54 anni, Platone 12, Sofocle scrive l’“Elettra” e Aristofane “Gli uccelli”. Fuori dell’area mezzo selvatica del Peloponneso, abitata da impavidi guerrieri e da rudi contadini-schiavi, nel resto dell’Ellade, da una costa all’altra del mare Egeo, tutte le città fanno parte dell’impero di Atene. Solo la piccola isola di Milo vuol restare neutra, così com’è sempre stata fin dalle sue origini da coloni spartani. Amica di tutti, nemica di nessuno. Gli Ateniesi non hanno nulla da rimproverarle…, eccetto appunto questa neutralità che rappresenta un insulto alla loro egemonia.

Per cominciare, gli ambasciatori di Atene si fanno precedere da un esercito imponente che si accampa sulla spiaggia di Milo, sotto le mura della città: “Gli Ateniesi mossero contro l’isola di Milo con 30 navi loro, 6 di Chio e 2 di Lesbo: vi erano imbarcati 1.200 opliti ateniesi, 300 arcieri a piedi e 20 arcieri a cavallo; inoltre circa 1.500 opliti forniti dagli alleati e dagli abitanti delle isole” (Tucidide). I maschi di Milo in età da combattimento non superano le 500 unità. 6 guerrieri ateniesi per contadino-pescatore melo. Data la posta in gioco e la capacità dei potenti di manipolare i più deboli, i Meli nominano una delegazione che incontri gli Ateniesi a porte chiuse, piuttosto che svolgere una trattativa in piazza. Il dialogo si svolse nei termini seguenti.

ATENIESI: “Poiché non volete che noi esponiamo le nostre ragioni davanti al popolo, per timore che esso si lasci ingannare una volta che abbia sentito le nostre argomentazioni serrate, persuasive e che non ammettono replica (infatti è per tale scopo, lo comprendiamo, che ci avete condotti davanti a questo consiglio ristretto), voi che qui siete adunati garantitevi una sicurezza ancor maggiore. Non attardatevi a dare una risposta unica e conclusiva, ma vagliate ciò che noi diremo punto per punto e replicate subito se qualche affermazione vi pare poco opportuna. E, tanto per cominciare, diteci se questa procedura incontra il vostro favore”.

MELI: “Sull’opportunità che i vari punti siano vicendevolmente chiariti in tutta tranquillità non c’è nulla da obiettare, se non che il vostro esercito è sotto le nostre porte; non è solo una minaccia e ciò, pare, non si accorda con quanto proponete. Noi vediamo, infatti, che siete venuti in veste di giudici di ciò che si dirà e che, in conclusione, questo colloquio porterà a noi la guerra se com’è naturale, forti del nostro diritto, non cederemo; se invece accetteremo, avremo la schiavitù”.

ATENIESI: “Se, dunque, siete convenuti qui per fare sospettose supposizioni riguardo al futuro o per altre ragioni, piuttosto che per esaminare la situazione concreta che avete sotto gli occhi e prendere una decisione che comporti la salvezza della vostra città, possiamo chiudere qui. Se, invece, quest’ultima è lo scopo del convegno, noi siamo pronti a continuare il discorso”.

MELI: “È naturale, e dobbiamo anche chiedervi scusa, che quando ci si trova in simili frangenti si volgano parole e pensieri in mille parti. Tuttavia, questa riunione ha come primo intento la salvezza: dunque, il colloquio si svolga pure, se vi pare, nel modo da voi suggerito”.

Davanti ai magistrati e ai notabili Meli, gli ambasciatori ateniesi mettono in chiaro la situazione. In realtà c’è poco da discutere con una forza militare nemica sotto le mura che intende rifiutare ogni dialogo che non sia improntato ai suoi schemi e alle sue convenienze. I Meli invece stanno lottando per la sopravvivenza di sé e della loro cultura e storia lunghe 7 secoli. Al fine di salvare il loro paese e riconoscendosi in una posizione d’inferiorità, sono disposti a fare sacrifici. A questo punto Tucidide mette in bocca agli Ateniesi una frase sul significato di giustizia nei rapporti internazionali che è oggi insegnata nelle facoltà di diritto di tutte le università del mondo.

ATENIESI: “Da parte nostra, non faremo ricorso a frasi altisonanti; non diremo fino alla noia che è giusta la nostra posizione di predominio perché abbiamo debellato i Persiani e che ora marciamo contro di voi per rintuzzare offese ricevute: discorsi lunghi, che non fanno che suscitare diffidenze. Però riteniamo che nemmeno voi vi dobbiate illudere di convincerci col dire che non vi siete schierati al nostro fianco perché eravate coloni di Sparta e che, infine, non ci avete fatto torto alcuno. Bisogna che da una parte e dall’altra si faccia risolutamente ciò che è nella possibilità di ciascuno e che risulta da un’esatta valutazione della realtà. Poiché voi sapete tanto bene quanto noi che, nei ragionamenti umani, si tiene conto della giustizia quando la forza incombe con parità da ambo le parti; in caso diverso, i più forti esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano” [sottolineatura mia].

I Meli hanno un atteggiamento idealista e in fin dei conti umano, così sostengono che non si può rinunciare a fare appello anche al senso morale e all’equità. E per rafforzare il loro ragionamento, replicano proprio con gli argomenti che i loro interlocutori non vogliono sentire: prospettano lo scenario di una loro possibile resistenza vittoriosa e delle conseguenze che questa avrebbe sull’intero andamento della guerra, una volta che la notizia della sconfitta di Atene si divulgasse per tutte le sue colonie scalpitanti sotto il vassallaggio.

MELI: “Orbene, a nostro giudizio almeno, l’utilità stessa (poiché di utilità si deve parlare, secondo il vostro invito, rinunciando in tal modo alla giustizia) richiede che non distruggiate quello che è un bene di cui tutti possono godere; ma quando qualcuno si trova nel pericolo, non gli sia negato ciò che gli spetta ed è giusto; e anche, per quanto deboli siano le sue ragioni, possa egli trarne qualche vantaggio, convincendone gli avversari. Questa politica sarà soprattutto utile per voi, poiché, in caso di insuccesso, servireste agli altri d’esempio per l’atroce castigo”.

ATENIESI: “Noi non siamo preoccupati, anche se il nostro impero dovesse crollare, per la sua fine: poiché per i vinti non sono tanto pericolosi i popoli avvezzi al dominio sugli altri, come per esempio gli Spartani, quanto piuttosto fanno paura i sudditi se mai, assalendo i loro dominatori, riescano a vincerli. Ma, se è per questo, ci si lasci pure al nostro rischio. Siamo ora qui, e ve lo dimostreremo, per consolidare il nostro impero e avanzeremo proposte atte a salvare la vostra città, poiché noi vogliamo estendere il nostro dominio su di voi senza correre rischi e nello stesso tempo salvarvi dalla rovina, per l’interesse di entrambe le parti”.

MELI: “E come potremmo avere lo stesso interesse noi a divenire schiavi e voi ad essere padroni?”.

ATENIESI: “Perché voi avrete interesse a fare atto di sottomissione prima di subire i più gravi malanni e noi avremo il nostro guadagno a non distruggervi completamente”.

MELI: “Sicché non accettereste che noi fossimo, in buona pace, amici anziché nemici, conservando intatta la nostra neutralità?”.

ATENIESI: “No, perché ci danneggia di più la vostra amicizia che non l’ostilità aperta: quella, infatti, agli occhi dei nostri sudditi, sarebbe prova manifesta di debolezza, mentre il vostro odio sarebbe testimonianza della nostra potenza” [sott. mia].

Gli Ateniesi non vogliono discutere di teorie perché hanno una visione semplice e chiara della situazione. Nella tipica ottica imperialistica, affermano che non sono tanto gli avversari ad essere pericolosi, ma piuttosto i popoli assoggettati che potrebbero sollevarsi contro i padroni. Gli imperialisti difendono la strategia del dominio totale, dove la guerra è una partita a scacchi tra due parti ben definite, opposte l’una all’altra fittiziamente, di fatto alleate nella giustificazione ideologica dell’assoggettamento dei rispettivi vassalli. Propongono quindi ai Meli di sottomettersi, pagando dei tributi per evitare un massacro. Gli imperi non cercano alleati o amici al fine di evitare ribellioni, tradimenti o concessioni, perché venire a patti con una regione potrebbe portare le altre regioni sotto il giogo a sognare la rivolta. Il ragionamento, freddo che possa sembrare, non fa una piega. Nemmeno oggi.

Busto di Tucidide (IV sec. a.C., Royal Ontario Museum)

Cambiando continuamente argomento, i Meli cercano d’insinuare il dubbio presso gli avversari, ma si ritrovano sempre incapaci di persuaderli. Offrendo la loro amicizia verbale, coincidente con una neutralità reale, fanno appello alla ragione quando predicono che Atene si procurerà altri nemici con la sua strategia radicale. Ma se anche questo è il loro più forte argomento – perché hanno ragione nel lungo termine –, ciò non cambia nulla qui e ora,cosicché essi si mostrano sempre più deboli ed impotenti.

MELI: “E i vostri sudditi sono così ciechi nel valutare ciò che è giusto, da porre sullo stesso piano le città che non hanno con voi alcun legame e quelle che, per lo più vostre colonie, e alcune addirittura ribelli, sono state ridotte al dovere?”.

ATENIESI: “Essi pensano che, tanto agli uni che agli altri, non mancano motivi plausibili per difendere la loro causa; ma ritengono che alcuni siano liberi perché sono forti e noi non li attacchiamo perché abbiamo paura. Sicché, senza contare che il nostro dominio ne risulterà più vasto, la vostra sottomissione ci procurerà maggior sicurezza; tanto più se non si potrà dire che voi, isolani e meno potenti di altri, avete resistito vittoriosamente ai padroni del mare”.

MELI: “E con l’altra politica, non pensate di provvedere alla vostra sicurezza? Poiché voi, distogliendoci dal fare appello alla giustizia, ci volete indurre a servire alla vostra utilità, bisogna pure che noi, qui, a nostra volta, cerchiamo di persuadervi, dimostrando qual è il nostro interesse e se per caso non venga esso a coincidere anche con il vostro. Or dunque tutti quelli che ora sono neutrali non ve li renderete nemici, quando, osservando questo vostro modo di agire, si faranno la convinzione che un giorno voi andrete anche contro di loro? E in questo modo, che altro farete voi se non accrescere i nemici che già avete e trascinare al loro fianco, pur contro voglia, coloro che fino ad ora non ne avevano avuto nemmeno l’intenzione?”.

ATENIESI: “No, perché non riteniamo per noi pericolosi quei popoli che abitano sul continente e che, per la libertà che godono, ci vorrà dei tempo prima che ci si rivolgano contro; sono piuttosto gli abitanti delle isole che ci fanno paura; quelli che, qua e là, come voi, non sono sottomessi ad alcuno; e quelli che mal si rassegnano ad una dominazione imposta dalla necessità. Costoro, infatti, molto spesso affidandosi ad inconsulte speranze, possono trascinare se stessi in manifesti pericoli e noi con loro”.

MELI: “Or dunque, se voi affrontate cosi gravi rischi per non perdere il vostro predominio e quelli che ormai sono vostri schiavi tanti ne affrontano per liberarsi di voi, non sarebbe una grande viltà e vergogna per noi, che siamo ancora liberi, se non tentassimo ogni via per evitare la schiavitù?”.

ATENIESI: “No; almeno se voi deliberate con prudenza: poiché questa non è una gara di valore tra voi e noi, a condizione di parità, per evitare il disonore; ma si tratta, piuttosto, della vostra salvezza, perché non abbiate ad affrontare avversari che sono di voi molto più potenti”.

La discussione arriva al suo acme. Gli Ateniesi si basano sulla forza militare e strategica, i Meli tirano in ballo la sorte con vaghi scenari che potrebbero portare la vittoria dalla loro parte. Gli Ateniesi allora avvisano i Meli di non fare l’errore di basarsi su fantasie e speranze fallaci, invece che di concentrarsi sui fatti materiali.

MELI: “Ma sappiamo pure che le vicende della guerra prendono talvolta degli sviluppi più semplici di quanto non lasci prevedere la sproporzione di forze fra le due parti. Ad ogni modo, per noi cedere subito significa dire addio a ogni speranza: se, invece, ci affidiamo all’azione, possiamo ancora sperare che la nostra resistenza abbia successo”.

ATENIESI: “La speranza, che tanto conforta nel pericolo, porterà magari danno a chi le affida solo il superfluo, ma non completa rovina. Ma quelli che a un tiro di dado affidano tutto ciò che hanno (poiché la speranza è, per natura, prodiga) ne riconoscono la vanità solo quando il disastro è avvenuto; e, scoperto che sia il suo gioco, non resta più alcun mezzo per potersene guardare in futuro. Perciò, voi che non siete forti e avete una sola carta da giocare, non vogliate cadere in questo errore. Non fate anche voi come i più che, mentre potrebbero ancora salvarsi con mezzi umani, abbandonati sotto il peso del male i motivi naturali e concreti di sperare, fondano la loro fiducia su ragioni oscure: predizioni, vaticini, e altre cose del genere, che incoraggiano a sperare, ma poi traggono alla rovina”.

Quando i Meli, come ultima risorsa, evocano il possibile sostegno degli dèi a supporto della loro giusta causa, gli Ateniesi irridono agli elementi soprannaturali. L’impotenza dei Meli e la loro inferiorità culturale si rivelano stilisticamente nella trafila di domande piuttosto che nella procedura diplomatica di elaborare i propri argomenti; e nella parolina ripetuta “ma” con cui gli isolani non addestrati nelle accademie di retorica dell’Attica iniziano i loro interventi, repliche disperate volte a far desistere gli Ateniesi da una decisione presa da lungo tempo ed immutabile.

MELI: Anche noi (e potete ben crederlo) consideriamo molto difficile cimentarci con la potenza vostra e contro la sorte, se non sarà ad entrambi ugualmente amica. Ma abbiamo ferma fiducia che, per quanto riguarda la fortuna che procede dagli dèi, non dovremmo avere la peggio, perché, fedeli alla legge divina, insorgiamo in armi contro l’ingiusto sopruso. Quanto all’inferiorità delle nostre forze, ci assisterà l’alleanza di Sparta, che sarà indotta a portarci aiuto, se non altro, per il vincolo dell’origine comune e per il sentimento d’onore. Non è, dunque, del tutto priva di ragione la nostra audacia” [sott. mia].

ATENIESI: Se è per la benevolenza degli dèi, neppure noi abbiamo paura di essere da essi trascurati; poiché nulla noi pretendiamo, nulla facciamo che non s’accordi con quello che degli dèi pensano gli uomini e che gli uomini stessi pretendono per sé. Gli dèi, infatti, secondo il concetto che ne abbiamo, e gli uomini, come chiaramente si vede, tendono sempre, per necessità di natura, a dominare ovunque prevalgano per forze. Questa legge non l’abbiamo istituita noi, non siamo nemmeno stati i primi ad applicarla; così, come l’abbiamo ricevuta e come la lasceremo ai tempi futuri e per sempre, ce ne serviamo, convinti che anche voi, come gli altri, se aveste la nostra potenza, fareste altrettanto. Da parte degli dèi, dunque, com’è naturale, non temiamo di essere in posizione di inferiorità rispetto a voi. Per quel che riguarda l’opinione che avete degli Spartani, e sulla quale basate la vostra fiducia che essi accorreranno in vostro aiuto per non tradire l’onore, noi vi complimentiamo per la vostra ingenuità, ma non possiamo invidiare la vostra stoltezza. Gli Spartani, infatti, quando si tratta di propri interessi e delle patrie istituzioni, sono più che mai seguaci della virtù; ma sui loro rapporti con gli altri popoli, molto ci sarebbe da dire: per riassumere in breve, si può con molta verità dichiarare che essi, più sfacciatamente di tutti i popoli che conosciamo, considerano virtù ciò che piace a loro e giustizia ciò che loro è utile: un tal modo di pensare, dunque, non s’accorda con la vostra stolta speranza di salvezza” [sott. mia].

Dopo la lezioncina di politica estera imperiale, dove gli ambasciatori attici spiegano con pazienza agli isolani che anche gli Spartani agiscono sulla base della loro convenienza reale e non della giustizia universale, gli Ateniesi decidono di darci un taglio: quasi siano l’arbitro, riassumono quanto detto dalle due parti e con la forza con cui hanno aperto il convegno così lo avviano alla conclusione.

ATENIESI: “Osserviamo che, mentre dicevate di voler deliberare per la vostra salvezza, nulla in così lungo colloquio avete ancora detto, che possa giustificare in un popolo la fiducia e la certezza che esso verrà salvato dalla rovina: la vostra massima sicurezza è affidata a speranze che si volgono al futuro; le forze di cui al momento disponete non sono sufficienti a garantirvi la vittoria su quelle che, già ora, vi sono contrapposte. Darete, quindi, prova di grande stoltezza di mente, se anche dopo che ci avrete congedati, non prenderete qualche altra decisione che sia più saggia di queste. Poiché non dovrete lasciarvi fuorviare dal punto d’onore che tanto spesso porta gli uomini alla rovina tra pericoli inevitabili e senza gloria. Molti, infatti, che pur vedevano ancor chiaramente a quale sorte correvano, furono attirati da quello che noi chiamiamo sentimento d’onore, dalla suggestione di un nome pieno di lusinghe; sicché, soggiogati da quella parola, in effetto piombarono ad occhi aperti in mali senza rimedio, attirandosi un disonore più grave di quello che volevano fuggire, perché frutto della loro stoltezza, non imposto dalla sorte. Da questo errore voi vi guarderete, se intendete prendere una buona decisione; e converrete che non ha nulla di infamante il riconoscere la superiorità della città più potente di Grecia, che ha propositi di moderazione; diventarne alleati e tributari, conservando la sovranità nel vostro paese. Dato che vi si offre la scelta tra la guerra e la vostra sicurezza, non ostinatevi nel partito peggiore: il massimo successo arriderà sempre a quelli che si impongono a chi ha forze uguali, mentre con i più forti si comportano onorevolmente e quelli più deboli trattano con moderazione e giustizia. Riflettete, dunque, anche quando noi ci ritireremo; ripetetevi spesso che è per la patria vostra che deliberate; che la patria è una sola, e la sua sorte da una sola deliberazione sarà decisa, di salvezza o di rovina”.

Gli Ateniesi si ritirarono dalla sala della riunione e i Meli, restati soli, constatato che il loro punto di vista rimaneva presso a poco quale l’avevano esposto, formularono questa risposta: “Noi, o Ateniesi, non la pensiamo diversamente da prima; né mai ci indurremo a privare della sua libertà, in pochi momenti, una città che ha già 700 anni di vita, ma, fidando nella buona sorte che fino ad oggi, con l’aiuto degli dèi, l’ha salvata e nell’appoggio degli uomini, specie di Sparta, faremo di tutto per conservarla. Vi proponiamo la nostra amicizia e neutralità, a patto che vi ritiriate dal nostro paese, dopo aver concluso degli accordi che diano garanzia di tutelare gli interessi di entrambe le parti”. Cui gli Ateniesi, mettendo fine al colloquio, replicarono: “A quanto pare, dunque, da queste decisioni, voi siete i soli a considerare i beni futuri come più evidenti di quelli che avete davanti agli occhi; mentre con il desiderio voi vedete già tradotto in realtà ciò che ancora è incerto e oscuro. Orbene, poiché vi siete affidati agli Spartani, alla fortuna e alla speranza, e in essi avete riposto la fiducia più completa, altrettanto completa sarà pure la vostra rovina”.

Venne da Atene una seconda spedizione”, conclude Tucidide il suo racconto, e “i Meli stretti ormai da un assedio molto rigoroso, ed essendosi anche perpetrato il tradimento, si arresero senza condizioni agli Ateniesi. Questi passarono per le armi tutti gli adulti caduti nelle loro mani e resero schiavi i fanciulli e le donne: quindi occuparono essi stessi l’isola e più tardi vi mandarono 500 coloni”. Ci fu dunque anche il “tradimento”: da sempre la politica imperialistica si giova, oltre che della forza militare esibita alla luce del sole, anche di un contorno di agenzie ricche di risorse indicibili e operanti nel buio. L’eccesso di crudeltà fu raccomandato dal generale Alcibiade, di famiglia aristocratica e amico di Socrate, per spaventare gli abitanti delle altre isole, alleate o ancora indipendenti.

Con questo episodio Atene infangò l’immagine della polis civile, giusta e democratica e fece scattare la reazione di Sparta in una nuova fase della guerra che si sarebbe infine conclusa con la sconfitta della lega di Delo e l’occupazione da parte dei generali spartani della città che fu di Pericle. Quanto questa era stata, primus inter pares, motore e modello nell’unità dei Greci nelle guerre contro i Persiani invasori, tanto nella guerra civile si rivelò l’anima nera delle divisioni interne, le diverse polis arrivando a corteggiare in ordine sparso i barbari e i Persiani l’una contro l’altra. Per Atene, e la Grecia tutta, iniziò un declino da cui quel popolo non si sarebbe più ripreso. Il realismo può far vincere nell’immediato, ma conduce ineluttabilmente alla sconfitta nel lungo termine quando viene perseguito con cinismo sistematico.

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GIORGIO MASIERO: giorgio_masiero@alice.it Laureato in fisica, dopo un’attività di ricercatore e docente, ha lavorato in aziende industriali, della logistica, della finanza ed editoriali, pubbliche e private. Consigliere economico del governo negli anni ‘80, ha curato la privatizzazione dei settori delle telecomunicazioni, agro-alimentare, chimico e siderurgico, e il riassetto del settore bancario. Dal 2005 interviene presso università italiane ed estere in corsi e seminari dedicati alle nuove tecnologie ICT e Biotech.

15 commenti

  1. alessandro giuliani on

    Grazie Giorgio una meraviglia e un monito per oggi festa della liberazione da non trasformare nel triste festival del razzismo etico ma da vivere nello spirito dei Meli.

  2. Ancora non mi capacito di come schiere di illustri storici, scrittori e classicisti abbiano guardato alla civiltà classica come ad un assoluto paradigma di bellezza, moralità, giustizia e finezza intellettuale.
    Io vedo mediocrità ed idiozia ovunque.
    L’utilità di conoscere la storia antica (ed è veramente importante) sta in effetti nell’avere coscienza della rovinosa inerzia dell’anima umana.
    Buona giornata.

    P.S. credo proprio che dovrei leggere la Guerra del Peloponneso (una delle tante mie mancanze).

    • Giorgio Masiero on

      La civiltà classica, Alio, è a mio parere insuperabile nelle arti e in filosofia. I valori morali che essa pubblicamente condivise, ad Atene come a Roma, sono un’altra cosa e sono stati superati da quelli cristiani di uguaglianza e fratellanza.
      Io penso, come Muggerigde ben spiega più sotto, che il valore di questo brano di Tucidide stia nel mostrarci il livello cui erano arrivate la retorica e la diplomazia in Grecia già 2.500 anni fa e come gli uomini, almeno in politica, siano sempre gli stessi anche 2.500 anni dopo.

  3. Francesco Fabiano on

    Grazie Giorgio, bellissimo ed edificante racconto. La storia così raccontata e’ più avvincente di qualsiasi fiction! Davvero complimenti. Ho da porti un solo quesito: avevano i Meli allora un terza opzione rispetto a sottomettersi o morire? E i greci di oggi, hanno pure loro una terza opzione?

    • Giorgio Masiero on

      Grazie a te, Francesco.
      Non penso che i Meli avessero, a quel punto, una terza opzione. Anziché opporsi agli Ateniesi, potevano solo arrendersi, pagando un tributo. Anche questa scelta non li avrebbe comunque garantiti dalla reazione di Sparta. Una terza possibilità l’avrebbero avuta se, con lungimiranza e conoscenza della logica degli imperi, allo scoppio della guerra – cioè 16 anni prima – si fossero schierati sotto la tutela di Sparta che probabilmente, per questioni etniche, avrebbe loro imposto un giogo meno pesante.
      I Greci di oggi non hanno nessuna terza opzione rispetto a quella di pagare il debito o a quella di fallire. In entrambi i casi le nuove generazioni greche pagheranno per decenni gli errori commessi dai governanti eletti dalle vecchie generazioni. E’ il risultato, anche questo previsto dai classici greci (magari ne farò un articolo in futuro!), di una “democrazia” arrivata all’ultimo stadio di demagogia e durata troppo a lungo.

  4. Grazie, prof. Masiero. Come mi dispiace di non aver studiato latino e greco. Solo ora mi rendo conto di come la cultura classica ci permetta di capire, più e meglio di ogni speculazione scientifica, le reali pulsioni che muovono gli uomini. Grazie anche a CS per ospitare articoli come questo, che non saprei dove si potrebbero altrove trovare nei media o in rete. Altro che cannabis e Facebook per i giovani…

  5. Ho apprezzato la raffinatezza dell’articolo, ma in particolare quella dei dialoghi, che invece fanno capire i livelli raggiunti dalla cultura classica e anche il motivo per cui questa per secoli rimarrà il massimo esempio di civiltà e cultura per i posteri. Tuttavia, a mio avviso, i paralleli con la Grecia di oggi ci sono solo sino a un certo punto: i Meli erano neutrali, la Grecia ha voluto entrare nell’euro e ha barato alla grande, poi si può discutere sul fatto che la popolazione debba pagare a così caro prezzo le colpe dei propri governanti, ma non è che la Grecia di oggi volesse starsene neutrale ed è stata coinvolta a forza in queste faccende economiche odierne. Inoltre tra i greci odierni c’è chi non ha mai pagato le tasse come dovrebbe, tanto che la ribellione del governo Tsipras alla triade fa sfregare sopratutto le mani agli armatori miliardari: non c’è giustizia all’interno della Grecia, come sempre quando c’è furbizia (la dea più adorata dagli odierni popoli mediterranei).
    Tornando ai Meli e agli ateniesi e al periodo classico vengono in mente due detti: “Ubi maior…” (che andrebbe benissimo per la selezione naturale e il darwinismo…:-) e “Sic transit gloria mundi” per la decadenza di Atene, prima dominante. Così si compie la giustizia nel mondo “rovesciando i potenti dai troni”, c’è però molta ingiustizia che non viene ripagata a questo mondo e solo questo motivo dovrebbe portare almeno a sperare in un Giudice Supremo, questi può rimediare alle ingiustizie solo con l’eternità perché ogni ingiustizia si annulla davanti all’eterno e all’infinito guadagnati. A questo Giudice possiamo dire “rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Qui tocchiamo con mano l’attuale situazione greca: in tedesco “debito” e “colpa” sono infatti sinonimi. Agli occhi degli ex-cristiani nordeuropei i greci non sono solo debitori, sono colpevoli e quindi devono pagare per le loro colpe. Questo è appunto post-cristianesimo o comunque neo-paganesimo. Peccato perché l’Europa nasce cristiana e anche l’Europa politica recente nasce dallo sforzo di 3 cattolici (Adenauer, De Gasperi e il francese Schuman), solo che è stata sequestrata dagli interessi forti che sono neo-pagani, ossia laicisti e quindi non conoscono la misericordia e la solidarietà con chi soffre, ma conoscono solo la punizione e il castigo per mantenere l’ordine e spaventare i malintenzionati.

    • Sinceramente non ho capito se assolve o condanna la Grecia.
      Personalmente concordo con Machiavelli quando dice “ognuno ha il governo che merita”; ovverosia io vedo Tsipras oggi, così come chi lo ha preceduto ieri, la gattopardesca espressione di una volontà di sonno e morte, che si è fatta strada negli animi dei pronipoti di Socrate e Pericle. E così gattopardescamente vedo una Grecia che, e questo ritengo sia applicabile in buona parte anche all’Italia, “come una vecchia… vuole tornare tra i suoi cuscini sbavati e l’orinale”. Sulla genesi di una tale decadenza, che per me è assolutamente morale, si può discutere; sicuramente da parte tedesca c’è stato un lucrare sulle miserie altrui, però se non ti vuoi drogare nessuno ti butta la coca (i debiti) nel naso.
      Ci tengo a dire anche che non vedo nei tedeschi questi campioni dell’etica; prendendo spunto dai giochi di parole, cui la lingua tedesca è prona, allora potremmo dire, sempre per restare nell’onirico apollineo, che in tedesco “sogno” significa anche “trauma”. Ecco l’Europa è questo è un sogno (personalmente neppure bello) alla cui fine sta inevitabilmente il trauma, questo i tedeschi lo sanno benissimo e scelgono scientemente il sogno.

    • Giorgio Masiero on

      Grazie del Suo intervento, Muggeridge, sul quale concordo in toto.
      Aggiungerei soltanto che in democrazia, allo stadio in cui essa è necessariamente arrivata in Europa, i governanti dei singoli stati europei non possono che essere guidati dall’utilità immediata nazionale piuttosto che dalla giustizia comunitaria a lungo termine. La democrazia è questa e, anche se non ha nulla di meglio in alternativa, non è la salvezza.

  6. Concordo con chi vede una similitudine tra i Meli e la Grecia di Oggi, riguardo al vole esser entrati in Europa ricordo che interi popoli come ad esempio il nostro, non sono stati neanche consultati e che nessuno ha spiegati quali fossero i rischi.
    La Grecia non ha potuto scegliere di non entrare in questa Europa, poi le banche tedesche come fossero novelli gatto e la volpe hanno offerto il miraggio di una prosperità a buon mercato inondando di soldi la Grecia, ma non perché si sviluppasse, bensì perché comprasse le loro costose merci, poi quando queste politiche fallimentari sin dall’inizio hanno portato alle logiche conseguenze hanno preteso i soldi indietro e non avendoli si sono messi a comprare a prezzi di fallimento i pezzi pregiati dell’economia greca e a farsi ridare i soldi dalle incolpevoli banche italiane.
    Altro che gli Ateniesi verso i Meli, quelli in confronto erano dei signori.

  7. Il nostro era (e ancora è) un popolo europeista a prescindere e anche fondatore dell’Unione, non c’era bisogno di consultazioni per entrare in Europa, forse intende “per entrare nell’euro”, ma sono convinto che tutti avrebbero votato a favore perché la “liretta” non piaceva affatto agli italiani che sognavano il DM (marco) e lo hanno avuto…
    Se fossero stati informati meglio (ma la sfera di cristallo comunque non ce l’ha nessuno…) forse qualche opposizione ai tempi ci sarebbe pure stata, ma non sufficiente per vincere un eventuale referendum. La stessa cosa vale per i greci, anche se non sono tra le nazioni fondatrici dell’unione. Non trovo che la colpa stia da una sola parte, ad ogni modo come detto sopra, davanti a questa ribellione antieuropea sono i ricchi greci evasori che si fregano le mani e questo fatto mi rende molto meno simpatica la causa della Grecia “rivoluzionaria” (e anche “chic”, a vedere il duo Tsipras-Varoufakis…).

    • Non sono d’accordo sul fatto che nessuno abbia spiegato agli italiani ecc. La Lega si è battuta contro la moneta euro inascoltata, insultata, infamata. Abbiamo perso le radici cattoliche e si ripetono gli errori di sempre.

  8. Non ricordo tutto questo attivismo anti-euro della Lega ai tempi, comunque quello che intendevo dire è che non sarebbe comunque stato sufficiente a ribaltare le cose. Forse nell’euro era davvero meglio non entrarci, ma secondo me c’è solo una scelta che è ancora peggiore che entrare nell’euro ed è quella di lasciarlo, come vorrebbe la Lega (e M5S) oggi. Quanto alle radici cattoliche, sì, forse la Lega, tra alti e bassi (tipo imprecazioni dei propri leader contro la Chiesa) è stata una delle poche forze politiche di qualche importanza a volerle conservare, però se devo pensare a chi veramente si è battuto pubblicamente per queste, penso a Marcello Pera e non certo a dei leghisti (ma che fine ha fatto ?).

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