La riproduzione vietata (René Magritte, 1937)
Epistemologia dell’abiogenesi
di Giorgio Masiero
L’abiogenesi non è una teoria scientifica dell’origine della vita, ma l’ipotesi della formazione spontanea di una molecola replicante mai osservata
Nello scorso articolo ho parlato di abiogenesi dal punto di vista della teologia. Ora, prima di descrivere le ricerche scientifiche, conviene forse chiarire il loro significato epistemologico, a cominciare dagli stessi obiettivi modestissimi e finora falliti dei ricercatori. Sì perché, secondo il massimo esperto mondiale sull’origine della vita, un personaggio che ha dedicato il suo genio per 40 anni alla questione con l’esito finale di passare dalle speculazioni matematiche e dalle sperimentazioni chimiche alla contemplazione estatico-religiosa della vita, “studiare l’abiogenesi non è la strada migliore per costruirsi una carriera scientifica, e dobbiamo solo rimproverare noi stessi se questa è la percezione pubblica del nostro lavoro” (Kauffman). Questo articolo è quindi dedicato alla filosofia dell’abiogenesi, mentre nel prossimo affronterò l’argomento in termini più squisitamente tecno-scientifici.
Cominciamo col dire che l’abiogenesi non è un dato. Fino ad alcuni anni fa, quando le scienze naturali erano più legate alle osservazioni che alle teorie, la biologia aveva come principio, derivato dagli esperimenti di Spallanzani e di Pasteur, l’affermazione opposta che la vita nasce solo dalla vita. Nessuna nuova evidenza è intervenuta nel frattempo a smentire quel principio. Neanche di una sola proteina omochirale si è prodotta la sintesi spontanea, quando il batterio più semplice (un parassita) consiste di 40.000 proteine di 600 tipi diversi, accompagnate dal solito seguito di DNA, RNA, membrana cellulare, domini di coerenza dell’acqua, plasmi elettronici, ecc., necessari alla sintesi proteica, alla divisione cellulare e alla ri-creazione continua d’ordine nelle reazioni chimiche. L’abiogenesi è una congettura, cioè un’ipotesi sul tavolo di lavoro, buttata lì per necessità, per giunta non ancora formalizzata dopo un secolo di tentativi ed anzi indeterminata tra una mezza dozzina di modelli diversi, appena abbozzati.
L’abiogenesi è un’ipotesi chimico-fisica, non biologica. Tutti i modelli esistenti condividono infatti solo l’assunto che – prima che la vita apparisse sulla Terra – una molecola auto-replicante si sarebbe formata spontaneamente, per le leggi della fisica e della chimica applicate in adeguate condizioni ambientali. Le forme più antiche e relativamente meno complesse di vita, a noi risultanti dai fossili, sono le alghe azzurre ed alcuni batteri: si tratta di procarioti, cellule dove il DNA è una molecola circolare sparsa nel citoplasma, senza una membrana che la divida dal resto della cellula, ma queste cellule primigenie sono comunque strutture funzionalmente organizzate in milioni di molecole e di componenti atomiche e subatomiche. Inoltre nella vita dei procarioti, e in maggiori quantità e complessità in quella degli organismi superiori, sono presenti caratteristiche come l’omeostasi, il codice genetico, il macchinario molecolare e il campo elettromagnetico organico, a garantire le funzioni vitali necessarie alla crescita e alla duplicazione dell’organismo, a partire dalla localizzazione e metabolizzazione delle materie prime selezionate dall’ambiente. Nei modelli di abiogenesi invece, la sola caratteristica donde tutte le altre poi si vorrebbero far derivare non si sa come è la riproduzione.
C’è un salto enorme in termini di complessità tra il primo ipotizzato replicatore stante in una molecola, e la più semplice, autonoma forma di vita già presente 3,6 miliardi di anni fa, la cellula di un procariote, consistente in un’organizzazione di alcuni milioni di molecole e di plasmi elettronici coerenti, tutti cooperanti in un pacchetto di funzioni organiche. L’abiogenesi non è dunque l’acquisita dimostrazione della nascita della forma meno complessa di vita terrestre dagli elementi chimici, ma piuttosto l’ipotesi minimale e astratta di una sintesi fisico-chimica spontanea mai osservata, “intermedia” tra il mondo inorganico e un procariote.
E lasciamo ad un brillante professore di logica l’onore di proclamare in CS ai non darwinisti che “sull’origine della vita [sic!] esistono decine [sic!] di teorie plausibili [sic!]”, la cui scelta ci sarebbe resa imbarazzante solo dalla nostra forzata assenza ad un evento deciso “dal caso [sic!]”; il lieto proclama essendo intervenuto ad appena 10 ore dall’onere di confessare tristemente ai darwinisti, ancora da parte dello stesso logico, ancora in CS, “che l’origine della vita […] rimane uno dei problemi (per ora) non risolti per la scienza”.
L’evento sarebbe accaduto nella finestra di circa 200 milioni di anni tra la fine dell’intenso bombardamento meteoritico (LHB) e la comparsa della prima cellula. È evidente che la futuribile comprensione di come in una prima frazione della finestra, da un “brodo” chimico informe, si sia sintetizzato un replicatore monomolecolare sarà solo un primo, infinitesimo passo per capire come il replicatore si sarebbe potuto evolvere poi, nella seconda frazione dello stesso lasso temporale, in una cellula strutturata in miriadi di molecole chimiche e di particelle fisiche cooperanti nell’attenzionalità della vita reale, procariotica.
Nel suo “Gene egoista” (1976), Dawkins prospetta pacificamente che “nella Terra primordiale, ad un certo punto, per caso [ancora la paroletta magica di coloro che non sanno, ma così affermano di sapere!], si formò una molecola particolarmente notevole […] non necessariamente più grossa o più complessa di altre, ma con la straordinaria capacità di creare copie di se stessa”. Con queste parole però, Dawkins si pone contro tutta la fisica e la chimica note, perché ogni dato e conoscenza empirici ci portano a predire che l’ipotizzata molecola replicante, con una tale “straordinaria capacità” di riprodursi, debba essere “necessariamente più grossa e più complessa” di tutte quelle che conosciamo…, tant’è che in cent’anni non siamo stati neanche in grado d’immaginarne la chimica! E a chi cita l’esistenza di alcuni software capaci di “copiarsi”, va ricordato che tali programmi non sono affatto riproduttori autonomi di sé, ma tutt’al più architetture di software e hardware in grado di riprodurre una (minima) porzione del loro software. In quei programmi infatti, il software esiste e gira solo in “scatole” di materia e di energia (l’hardware + una fonte di energia elettrica), accuratamente progettate da ingegneri umani e che non sono mai replicate nella copiatura del software! Senza contare il sistema operativo, i driver, i compilatori, le interfacce, i middleware, ecc., altrettanto mai replicati.
Se poi l’evoluzione biologica di specie in specie è effettivamente avvenuta (e, a meno d’invocare l’intervento diretto del soprannaturale, non esistono alternative né all’abiogenesi, né all’evoluzione trans-specifica), la determinazione del meccanismo fisico-chimico che avrebbe evoluto la molecola replicante in una prima cellula procariote non è certo, a sua volta, una sfida maggiore di capire come la seconda abbia richiesto un tempo 10 volte superiore per evolversi in una cellula eucariote, e questa negli organismi pluricellulari, ecc., ecc. (v. grafico sottostante).
Tuttavia, poiché spiegare significa risalire dal complesso al semplice, che alternative “scientifiche” – fondate per statuto su cause naturali – abbiamo a procedere per piccoli passi, presumendo che le prime forme di vita terrestri (quelle reali, unicellulari, procariotiche) siano state precedute da una forma ancora più primitiva (di “pre-vita”: una singola molecola replicante) assemblata da una sequenza di reazioni di sostanze chimiche guidata dalle leggi della fisica?
Dal punto di vista scientifico, dimostrare l’abiogenesi significa riprodurre in laboratorio una tale molecola replicante o più debolmente, nel caso in cui le condizioni ambientali giudicate necessarie non siano riproducibili, costruire un modello fisico-chimico coerente del cammino che quella molecola potrebbe aver attraversato per sintetizzarsi a condizioni irripetibili.
È possibile che non riusciremo mai a dimostrare l’abiogenesi. In fondo, esistono congetture molto, molto più semplici alle quali siamo inchiodati da secoli. Una, che capiscono anche i bambini di quarta elementare, è la congettura di Goldbach (1742), secondo cui ogni numero pari a partire da 4 sarebbe la somma di due numeri primi:
4 = 2 + 2
6 = 3 + 3
8 = 3 + 5
…………….
Che sia vero per ogni pari per quanto grande? Non lo sappiamo. La congettura è stata verificata al momento con i computer fino a circa 4 miliardi di miliardi. Però, se la congettura è vera, per questa via non arriveremo mai a dimostrarlo perché, per quanto ci spingiamo a decomporre numeri pari sempre più grandi in due addendi primi, saremo sempre all’inizio dell’infinita processione dei pari… Può darsi però che ciò che è impossibile ad un calcolatore venga risolto un giorno da una mente, cui venga l’intuizione giusta. Anche la congettura di Fermat (“Per n > 2, l’equazione
x^n + y^n = z^n
non ammette soluzioni intere diverse dalla terna nulla”, 1637), che parimenti a quella di Goldbach non è evidentemente dimostrabile per via diretta da un computer, pareva una rocca invincibile, eppure è stata finalmente espugnata da Wiles nel 1995. Come può darsi che nessuna mente possa risolvere la congettura di Goldbach né ora né mai, perché questa potrebbe non avere (per il teorema di Gödel, 1931) la procedura logica risolutiva.
L’illusione del positivismo che tutti i problemi scientifici siano risolubili dalla ragione umana è stata paradossalmente smentita per via scientifica. Esistono questioni scientifiche irresolubili. Tale per es., è la questione (assai concreta per la vita nel nostro sistema solare) se un sistema con più di due corpi sia stabile sotto l’azione del campo gravitazionale: l’indecidibilità della questione è stata dimostrata dal matematico Qiudong Wang nel 1991. Anche qui la risposta può essere solo sì o no, ma non sapremo mai se è sì o no. Insomma, la scienza non è onnisciente, né la tecnica onnipotente.
Bohr, che conosceva bene i limiti della fisica (fino a scaricarli, con un rovesciamento idealistico, su una presunta casualità ontologica delle cose), in un famoso articolo su “Nature” scrisse: “L’esistenza della vita deve essere considerata come un fatto elementare, un assioma, che non può essere spiegato, ma che può solo essere preso come un punto di partenza in biologia” (“Light and life”, 1933). Tanti saluti da Niels all’abiogenesi! quanto è deliziosa la proposta, uscita dalla bocca del capo della Scuola di Copenaghen, di considerare la vita un “fatto elementare”! colui che ricevette il Nobel per aver “indagato la struttura dell’atomo”, spiegandone il funzionamento per mezzo d’una manciata di componenti subatomiche, di fronte alla concreta possibilità di fallimento dello stesso metodo riduzionistico quando applicato alla cellula, propone di considerare “elementare” la complessità ordinata di una struttura di 100 milioni di milioni di atomi: qualcuno dei miei lettori sa immaginare una migliore esemplificazione della favola della volpe e l’uva?!
Come Bohr, anche Monod (in “Caso e necessità”, 1970) o Küppers (“Information and the origin of life”, 1990) ritengono la comparsa della vita un fenomeno inspiegabile, e quindi irreplicabile artificialmente, seppur obbediente alle leggi della fisica. Addirittura ci sono scienziati per i quali la vita (appena vegetativa) è fuori, “oltre”la fisica: per es., Mayr (in “Is biology an autonomous science?”, 1988) o Kauffman (“The re-enchantment of humanity”, 2011). Ma donde deriva il loro giudizio se non dall’arduità della questione, conseguente al “fatto complesso” (che è la negazione di “fatto elementare”) dell’organizzazione cellulare? La verità è che, anche se non disponiamo di una soluzione dell’abiogenesi, non siamo certi che la questione sia indecidibile. Così, nonostante gli autorevoli pareri di Bohr e degli altri scienziati sopra citati, io ritengo ragionevole che si continui la ricerca sull’argomento. Magari solo per un altro secolo.
Anche perché sono emerse recentemente alcune evidenze a favore di uno dei modelli di abiogenesi, il mondo a RNA, che meritano di essere conosciute e discusse. Lo faremo nel prossimo articolo, di taglio scientifico-tecnologico.
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16 commenti
Siamo veramente sommersi dalle fandonie, e per questo è importantissima l’operazione di analisi, anche grammaticale, logica e semantica, cui ci ha abituati il prof. Masiero, neile questioni di scienza. Io vorrei chiedere: in che senso il teorema di Gödel pone un limite alla tecnica e alla scienza?
Grazie, Anna.
Del teorema di Gödel e del suo impatto sui limiti della tecno-scienza parlerò estesamente in un prossimo articolo. Per il momento, posso sintetizzare così la questione:
1) Ogni teoria scientifica è, dal punto di vista grammaticale, un sotto-sistema di un sistema logico formale coerente comprendente l’aritmetica al suo interno;
2) Uno dei risultati del teorema di Gödel è che nessun sistema formale coerente comprendente l’aritmetica può essere completo. Ciò significa che in ogni sistema formale comprendente l’aritmetica esistono proposizioni indecidibili;
3) Dunque in ogni teoria scientifica, per quanto vasta, esistono questioni indecidibili.
Noi non abbiamo una regola generale per sapere quali siano tali questioni, però sappiamo che esistono.
Grazie, prof. Masiero.
So che è un mio pensiero ricorrente, però insisto nel dire che un testo come questo di Masiero sull’origine della vita dovrebbe essere presente in tutti i manuali scolastici di biologia.
Ma invece si trova sempre una narrazione fantastica adatta al mito, non alla scienza.
Sinceramente, Enzo, trovo strano che nei manuali scolastici di biologia si preferiscano le narrazioni fantastiche alla descrizione delle osservazioni, delle teorie corroborate e delle questioni aperte. Oltre alla falsità che una cattedra così diffonde, come si incentivano i giovani alla ricerca se già tutto – si narra – è stato scoperto?!
Se è così, il problema dell’insegnamento delle scienze naturali da noi non sta nell’eccessivo spazio assegnato alle materie umanistiche, ma al contrario nell’esiguo spazio assegnato alla lingua italiana, all’analisi logica, grammaticale e sintattica e alla filosofia.
E infatti per sincerarsi che nessuno sia più in grado di ragionare si cerca di limitare queste materie con il pretesto di puntare su aspetti operativi di avviamento al lavoro.
Gentile Professore, mi sembra d’intuire dal suo articolo che la questione dell’abiogenesi non tange la sua fede, quand’anche la sua causa squisitamente immanente, in quanto determina l’intervento divino solo in precise fasi di un’evoluzione biologica che assume comunque come sintesi veritiera della diversità biologica esistita ed esistente. Erro?
Non c’è nessuna teoria scientifica, Cristian, di nessun fenomeno naturale, che possa intaccare la fede, e ciò per i motivi che ho spiegato estesamente nel primo articolo “L’abiogenesi e il posto di Dio” (e ancor prima, in “La vita è fisica, Parte III”). Al contrario, come Bonhoefer, io penso che ogni scoperta scientifica rafforzi nel cristiano la sua fede nel Creatore.
L’intervento divino poi non è necessario “in precise fasi” dell’evoluzione biologica, ammesso che ci sia stata questa evoluzione, ma sia nel caso della materia inanimata che della vita esso è richiesto con continuità per la conservazione in essere di tutte le cose. Ho spiegato ciò, ancora, nel primo articolo sull’abiogenesi.
Buongiorno , Professore Masiero potrei sapere il suo pensiero , riquardo la teoria del biocentrismo del dott. Robert Lanza. Cordiali saluti
Questa “teoria”, Aurelio, fa predizioni sperimentalmente controllabili? No. Quindi non è una teoria scientifica.
Che cos’è allora? Pura immaginazione, condita di tanti riferimenti alla fisica quantistica che c’entrano come i cavoli a merenda.
Mi aspettavo questa risposta ( che non fa´una piega in ambito scientifico) professor Masiero , mi interessava pero´sapere da lei, se il concetto che sia la coscienza ha generare la materia (non viceversa), sia plausibile.
L’idea, Aurelio, che sia la coscienza (umana) a generare la materia è quanto di più antiscientifico si possa immaginare, se è vero che la fisica ci dice che l’Universo non ha meno di 14 miliardi di anni e la paleontologia ci dice che l’uomo non ha più di qualche milione di anni! Dov’era la coscienza umana quando la Terra non esisteva ancora e l’Universo era già popolato di miriadi di stelle?!
Mi scusi Professore Masiero , se non erro Lanza ( che sembra sia abbastanza stimato in ambito scientifico) dice che l´intelliggenza nasce prima dell´universo , perche´tutti i parametri di quest´ultimo rendono possibile la vita , credo poi che la coscienza creatrice di materia sia inteso come noi percepiamo la realta´. Personalmente non sembra tanto strampalato.
Quando Lanza dice, Aurelio, che “l’intelligenza nasce prima dell’universo”,
1) chi sarebbero gli esseri intelligenti esistenti prima dell’universo?
2) da cosa sarebbe “nata” la loro intelligenza?
3) come si può applicare la fisica quantistica – che vale approssimativamente solo per le cose di questo mondo – a questi esseri?
Le ripeto, Aurelio, per me questa di Lanza è fantasia, e della peggiore. Mi diverto di più con Topolino.
Mi è piaciuto moltissimo il suo grafico, prof. Masiero, dove è rappresentata l’evoluzione della vita dalla nascita della terra fino all’uomo. Ma perché non completare il grafico con gli anni prima, dalla nascita dell’universo?
Ha ragione, Nadia. Nel quadro dell’evoluzione cosmica della materia, avrei dovuto far precedere i 4,5 miliardi di anni in Terra dagli altri 10 dopo il Big Bang. Sarebbe emerso ancora più evidente l’esistenza di “senso” di una freccia che punta tolemaicamente verso l’uomo, dall’Inizio ad oggi, in contrasto con tutte le fantasie dell’astrobiologia…