Con l’autorizzazione dell’autore, Denis Noble, dell’Università di Oxford, riportiamo la traduzione dell’articolo “A theory of biological relativity: no privileged level of causation” pubblicato sulla rivista Interface Focus della Royal Society
Traduzione: Michele Forastiere
Una teoria della relatività biologica: non esistono livelli privilegiati di azione causale
Denis Noble*
Department of Physiology, Anatomy and Genetics, University of Oxford, Parks Road,
Oxford OX1 3PT, UK
Abstract
I processi biologici di livello superiore devono essere sempre derivabili da dati e meccanismi di livello inferiore, come è implicito nell’idea che un organismo sia definito completamente dal suo genoma? Oppure le proprietà di livello più alto sono necessariamente anche cause del comportamento di livello più basso, implicando azioni e interazioni in entrambe le direzioni? Questo articolo usa la modellistica del cuore, e la sua base sperimentale, per dimostrare che l’azione causale verso il basso è necessaria e che questa forma di azione causale si può rappresentare come l’influenza delle condizioni iniziali e al contorno sulle soluzioni delle equazioni differenziali usate per descrivere i processi di livello inferiore. Si passa poi a generalizzare tali intuizioni. A priori, non esiste alcun livello privilegiato di azione causale. Vengono discusse le relazioni tra questa forma di “relatività biologica” e le forme di relatività in fisica. La relatività biologica può essere vista come un’estensione del principio di relatività in quanto si sottrae al presupposto che esista una scala privilegiata alla quale vengono determinate le funzioni biologiche.
Parole chiave: azione causale verso il basso; relatività biologica; modello della cellula cardiaca; relatività di scala
1. Introduzione
Abbiamo raggiunto i limiti di applicabilità del principio di relatività? E potrebbe quest’ultimo giocare un ruolo in biologia?
Col termine “principio di relatività”, in questo contesto, intendo il distanziamento nelle nostre teorie da punti di vista assoluti per i quali non può esistere nessuna giustificazione a priori. Da Copernico a Galileo fino a Poincaré ed Einstein, il limite di questo principio generale di relatività si è progressivamente esteso mediante la rimozione, di volta in volta, di varie prospettive assolute. Si è capito che tali prospettive rappresentano il privilegiare certe misure come assolute, per la qual cosa non c’è e non può esserci alcun fondamento. Prima di tutto, abbiamo eliminato l’idea di un posto privilegiato (quindi la Terra non è il centro dell’Universo), poi quella di velocità assoluta (dato che si possono osservare solo velocità relative), poi quella di accelerazione (un corpo accelerato esperimenta una forza indistinguibile da quella di gravità, il che porta alla concezione di uno spazio-tempo curvo). Potrebbe essere la biologia il prossimo campo di applicazione del principio di relatività? Questo articolo proporrà l’ipotesi che non esiste, a priori, alcun livello privilegiato di azione causale nei sistemi biologici. Presenterò le prove, sperimentali e teoriche, che esiste azione causale verso il basso dalle scale maggiori a quelle minori, mostrando come la modellistica matematica ci abbia permesso di visualizzare il modo esatto in cui si verifica l’azione causale “bidirezionale” a molti livelli. Discuterò le conseguenze sui tentativi di comprendere gli organismi come sistemi multi-scala. Infine, mostrerò dove alcune delle estensioni del principio di relatività si situano oggi in relazione a questi obiettivi.
2. La gerarchia dei livelli: ‘su’ e ‘giù’ sono metafore
Nelle scienze biologiche, siamo abituati a pensare in termini di gerarchie di livelli, con i geni che occupano il livello più basso e l’organismo come un intero che occupa il livello più alto di un individuo. Proteine e reti metaboliche, organelli intracellulari, cellule, tessuti, organi e sistemi vengono tutti rappresentati come occupanti vari livelli intermedi. La catena causale riduzionistica è allora illustrata da frecce che puntano verso l’alto (figura 1). In questa figura, ho anche rappresentato l’azione causale tra geni e proteine con un tipo di freccia (punteggiata) diverso dal resto dell’azione causale verso l’alto dal momento che implica un passaggio che viene di solito descritto in termini di codifica, in cui particolari terne di acidi nucleici codificano amminoacidi specifici così che una proteina completa ha un calco completo di DNA (o, più correttamente, un calco completo di mRNA che si può formare a partire da vari esoni di DNA). La storia standard è che i geni codificano le proteine, le quali poi vanno a formare le reti. Una codifica di questo genere non si verifica da nessun’altra parte della catena causale, sebbene anche i meccanismi di segnalazione a quei livelli potrebbero essere descritti in termini di codifica (si può sempre dire che un segnale usi un codice in questo senso generale).
Figura 1. Azione causale verso l’alto: la catena causale riduzionista in biologia. Naturalmente questa è una semplificazione grossolana. Oggi nessuno crede seriamente che questo diagramma rappresenti tutta l’azione causale in biologia. Il discorso biologico riduttivo, tuttavia, privilegia questa forma di azione causale e lo considera come il più importante. In particolare, la natura e la direzione della freccia in basso (punteggiata) sono fissate e rappresentano l’impatto del dogma centrale della biologia molecolare. Adattato da Noble [1, fig. 1].
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I concetti di livello, e di “su” e “giù”, “alto” e “basso”, sono però tutti metaforici. Non vi è alcun senso letterale in cui i geni siano situati “sotto” le cellule, per esempio. I geni sono dappertutto nel corpo, come pure le cellule, e lo stesso organismo, ebbene, quello è davvero ovunque. Ecco perché preferisco “scala” a “livello”. Il vero motivo per mettere i geni, intesi come sequenze di DNA, al fondo della gerarchia è che essi si trovano alla scala più piccola (quella molecolare) nei sistemi biologici. La formazione di reti, cellule, tessuti e organi può essere vista come la creazione di processi a scale crescenti.
Importa davvero la natura metaforica del modo in cui descriviamo l’azione causale verso l’alto e verso il basso? La forzatura di senso introdotta dalla metafora è che c’è una forte tendenza a rappresentare i livelli più bassi come in qualche modo più concreti. Molte aree della scienza hanno progredito attraverso lo svelamento degli elementi piccoli sottostanti a quelli più grandi. Ma notate la forzatura che si insinua nella frase che ho appena scritto, attraverso la parola “sottostanti”. Non usiamo il termine “sovrastante” con niente di simile alla stessa forza causale. Tale forzatura di senso viene avvalorata dal fatto innegabile che, in biologia, molti grandi progressi sono avvenuti grazie all’invenzione di tecniche microscopiche e di altro genere sempre più potenti, che ci permettono di visualizzare e misurare componenti sempre più piccoli. Ero uno studente laureato quando furono introdotti i primi microscopi elettronici, e ricordo l’eccitazione per il fatto di riuscire a visualizzare, per esempio, le singole molecole delle proteine contrattili nelle cellule muscolari. Ciò permise di comprendere il funzionamento della proteina contrattile: nacque così il modello a filamento scorrevole della contrazione muscolare [2, 3]. Smontare un sistema per rivelare i suoi componenti e poi scoprire come questi lavorano insieme per formare il meccanismo è un paradigma standard della scienza.
Questo paradigma ha avuto un notevole successo. Scomporre l’organismo umano in qualcosa come 25.000 geni e 100.000 proteine è stata forse una delle più grandi imprese intellettuali del XX secolo, dato che il completamento del primo sequenziamento schematico dell’intero genoma umano è avvenuto appropriatamente al giro di boa del millennio [4, 5].
Come approccio scientifico, perciò, l’agenda riduzionistica è stata eccezionalmente produttiva. Il problema tuttavia rimane: se “su” e “giù” sono metafore, come può l’azione causale in una direzione essere privilegiata rispetto a quella nella direzione opposta? Gli eventi molecolari sono in qualche modo più importanti degli eventi che si verificano alle scale delle cellule, degli organi e dei sistemi? E ci sono processi causalmente efficaci che possono essere caratterizzati solo alle scale superiori?
3. Il dogma centrale della biologia molecolare: cosa dimostra?
È difficile immaginare una ragione a priori per cui un livello in un sistema biologico debba essere privilegiato rispetto ad altri livelli quando si parla di azioni causali. Questo sarebbe in contrasto con il principio di relatività. Inoltre, descriverò più avanti in questo articolo come i modelli matematici ci mettano in grado di visualizzare esattamente in che modo avviene l’azione causale “bidirezionale” a molti livelli. Se si deve giustificare la posizione riduzionista, perciò, lo si deve fare a posteriori: abbiamo bisogno dell’evidenza empirica che l’informazione possa essere vista come ciò che “controlla” o “fa sì” che il sistema passi in una sola direzione, cioè verso l’alto. In biologia, non dobbiamo cercare molto lontano quell’evidenza empirica. Il dogma centrale della biologia molecolare [6,7] è esattamente ciò. Oppure no?
Sorvoliamo sullo strano fatto che è stato definito un “dogma”, prima da Crick e poi dai tantissimi che lo hanno seguito. Niente nella scienza può essere un dogma, naturalmente. Tutto può essere messo in questione e sottoposto a verifica mediante i criteri gemelli della logica (per le idee matematiche) e delle scoperte sperimentali (per le teorie con conseguenze empiriche). Dunque, guardiamo più da vicino cosa vi è implicato. L’essenza del dogma centrale è che la “codifica” tra geni e proteine è a senso unico. Preferisco la parola “calco” a “codifica” dal momento che “codifica” già implica un programma. Un altro modo di esprimere il punto centrale di questo articolo è dire che il concetto di un programma genetico è parte del problema [1]. Spiegherò brevemente perché.
Le sequenze di terne del DNA formano calchi per la produzione di differenti sequenze di amminoacidi nelle proteine. Le sequenze di amminoacidi non formano calchi per la produzione di sequenze del DNA. Questo, in sostanza, è quanto è stato dimostrato. Il calco lavora in una sola direzione, il che fa apparire primario il gene. Dunque il genoma cosa causa? Le sequenze di codifica formano una lista delle proteine e degli RNA che potrebbero essere prodotti in un dato organismo. Queste parti del genoma formano una banca dati di calchi. Di sicuro, come banca dati, il genoma è anche estensivamente formattato, con molti elementi regolatori, gli operoni, inseriti al suo interno. Questi elementi regolatori abilitano il coordinamento [8] di gruppi di geni nei loro livelli di espressione. E ora sappiamo che anche le parti non-codificanti del genoma svolgono importanti funzioni di regolazione. Ma il genoma non è un programma fissato nel senso in cui un tale programma di computer fu definito quando Jacob e Monod presentarono la loro idea de le programme génétique [9–11]. È piuttosto una memoria di “lettura-scrittura” che può essere organizzata in risposta a segnali cellulari e ambientali [12]. Quali proteine e RNA vengono prodotti, quando e dove, non è pienamente specificato. Ecco perché è possibile per i circa duecento diversi tipi cellulari in un organismo come quello umano formare quei tipi di cellule usando esattamente lo stesso genoma. Una cellula cardiaca si forma usando precisamente lo stesso genoma del nucleo che è presente in una cellula ossea, del fegato, del pancreas ecc. Quelli che propendono per una visione da programma genetico dello sviluppo hanno costruito dei circuiti regolatori impressionanti [13,14], ma questi non sono indipendenti dalla “programmazione” che le stesse cellule, i tessuti e gli organi usano per controllare per via epigenetica il genoma e gli schemi di espressione genica appropriati per ogni cellula e tipo di tessuto negli organismi multi-cellulari. Come mostrerò più avanti, i circuiti delle funzioni biologiche maggiori includono necessariamente elementi non-genomici.
Questo fatto ci dice già che il genoma da solo è ben lungi dall’essere sufficiente. È stata Barbara McClintock, che ha ricevuto il Premio Nobel per il suo lavoro sui “geni saltatori” [jumping genes], a descrivere per prima il genoma come “un organo della cellula” [15]. Ed è proprio così. Le sequenze del DNA non fanno assolutamente nulla finché non vengono attivati a fare qualcosa da una varietà di fattori di trascrizione, che accendono e spengono i geni legandosi ai loro siti regolatori, e varie altre forme di controllo epigenetico, che includono la metilazione di certe citosine e le interazioni con le code degli istoni che costituiscono la spina dorsale proteica dei cromosomi. Tutte queste cose, e i processi cellulari, tissutali e organici che determinano quando vengono prodotte e usate, “controllano” il genoma. Per ulteriori dettagli su questo argomento, il lettore può fare riferimento all’articolo di Shapiro sulla ridefinizione del dogma centrale [16] e al suo libro Evolution: the view from the 21st century [12]. Un buon esempio pratico è il modo in cui i neuroscienziati stanno studiando ciò che chiamano accoppiamento di elettro-trascrizione [17], un chiaro esempio di azione causale verso il basso, dal momento che comporta la trasmissione di informazione dalle sinapsi neurali al DNA nucleare.
Pensare che il genoma determini completamente l’organismo è quasi altrettanto assurdo quanto pensare che le canne di un grande organo in una cattedrale determinino ciò che l’organista suona. Naturalmente, a determinarlo sono il compositore che ha scritto lo spartito e lo stesso organista che lo interpreta. Le canne sono i suoi strumenti passivi finché egli li porta alla vita secondo uno schema che impone loro, proprio come gli organismi multi-cellulari usano lo stesso genoma per generare tutti i duecento diversi tipi di cellule nei loro corpi mediante l’attivazione di diversi schemi di espressione. Questa metafora ha i suoi limiti. Non c’è un “organista”: la “musica della vita” si suona da sé [1], più o meno come fanno alcune orchestre che suonano senza un direttore. E, certo, l’”organo” varia da un individuo all’altro della specie. Ma è una metafora abbastanza buona. Le canne di un organo sono anche “formattate” per permettere l’attivazione contemporanea di sottoinsiemi mediante i vari registri, tastiere e accoppiamenti. Come le parti regolatrici del genoma, queste parti dell’organo rendono più facile il controllo, ma entrambi (genoma e organo) non fanno ancora nulla senza essere attivati. Gli schemi di attivazione fanno parte del “programma” tanto quanto lo stesso genoma [18].
Perciò, perfino al livello più basso in assoluto della catena casuale riduzionistica, scopriamo un errore concettuale. Le sequenze per la codifica delle proteine sono calchi; esse determinano con quale insieme di proteine deve giocare l’organismo, proprio come un bambino sa quali pezzi del Lego o del Meccano ha disponibili per le costruzioni. Quelle parti del genoma si possono considerare meglio come una banca dati. Anche quando aggiungiamo le regioni regolatrici e non-codificanti, non c’è un programma nel genoma nel senso che le sequenze potrebbero essere sezionate nel modo in cui analizzeremmo un programma di computer per capire che cosa esso specifica. La ragione è che mancano porzioni cruciali del programma. Per illustrare ciò, userò l’esempio del ritmo cardiaco per dimostrare che le parti non-genomiche sono essenziali.
4. Indicazioni dagli esperimenti e dai modelli matematici sulle cellule cardiache
Nell’arco di molti anni, il mio lavoro di ricerca ha coinvolto studi sia sperimentali sia computazionali sulle cellule del cuore. Sono stato il primo ad analizzare i canali degli ioni potassio nel muscolo cardiaco [19,20] e a costruire un modello al computer basato sulle osservazioni sperimentali [21,22]. Da allora, si è sviluppato un intero campo di ricerca sulla modellistica del cuore [23,24].
Come costruiamo tali modelli? La strada fu spianata da Hodgkin e Huxley [25] col loro lavoro sull’impulso nervoso, che li condusse a vincere il Premio Nobel. Le proteine del canale ionico che si trovano a cavallo della membrana cellulare ne controllano il potenziale elettrico, determinando la quantità di carica che fluisce attraverso la membrana cellulare per rendere il potenziale cellulare negativo o positivo. L’apertura di questi canali è controllata a sua volta dal potenziale cellulare. Si tratta di un anello tra molti livelli: il potenziale è un parametro al livello della cellula; le aperture e chiusure dei canali ionici sono parametri al livello delle proteine. L’anello, originariamente definito ciclo di Hodgkin, è assolutamente essenziale al ritmo cardiaco. Se si interrompe la retroazione (azione causale verso il basso) tra il potenziale cellulare e l’apertura dei canali ionici, i ritmi cellulari vengono annullati. Un semplice esperimento su uno dei modelli di cellula cardiaca fornirà una dimostrazione computazionale di ciò.
In figura 2 [26], un modello del nodo seno-atriale (la regione del cuore che stabilisce l’andatura) è stato fatto girare per 1300 ms, intervallo di tempo in cui sono state generate sei oscillazioni. Queste corrispondono a sei battiti cardiaci ad una frequenza simile a quella del cuore di un coniglio, la specie sulla quale sono stati ottenuti i dati sperimentali usati per costruire il modello. Durante ogni battito, anche tutte le correnti che scorrono attraverso i canali proteici oscillano in una sequenza specifica. Per semplificare il diagramma, qui sono rappresentati solo tre di questi canali proteici. A 1300 ms, è stato eseguito un esperimento sul modello: è stata interrotta l’“azione causale verso il basso” tra la proprietà globale della cellula, il potenziale di membrana, e l’apertura dei canali ionici, dipendente dal potenziale elettrico. Se ci fosse un “programma” sub-cellulare che forza le proteine ad oscillare, le oscillazioni continuerebbero. Di fatto, però, tutte le oscillazioni terminano e l’attività di ogni proteina tende a raggiungere uno stato stazionario, come accade anche sperimentalmente. In questo caso, perciò, il “programma” include la stessa cellula e il suo sistema di membrana. In effetti, qui non c’è bisogno del concetto di un programma separato. La sequenza di eventi, che comprende la retroazione tra il potenziale cellulare e l’attività delle proteine, è semplicemente il ritmo cardiaco. È una proprietà delle interazioni tra tutte le componenti del sistema. Non ha alcun senso parlare di ritmo cardiaco al livello delle proteine e del DNA, e non ha senso supporre che ci sia un programma separato che “guida” il ritmo.
Figura 2: Modello al computer del ritmo del battito cardiaco [27]. Per i primi sei battiti, si consente al modello di girare normalmente ed esso genera un ritmo strettamente simile a quello di una cellula reale. Poi la retroazione dal potenziale cellulare (a) ai canali proteici ((b) correnti in nanoampere) viene interrotta mantenendo costante la tensione (blocco della tensione [voltage clamp]). A quel punto tutte le oscillazioni nei canali proteici cessano; tendono lentamente a valori costanti stazionari. Senza l’azione causale verso il basso dal potenziale cellulare, non c’è nessun ritmo. Adattato da Noble [1, fig. 3].
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Naturalmente, tutte le proteine coinvolte nel ritmo cardiaco sono codificate dal genoma, ma queste da sole non genererebbero ritmo. È questo il senso (vedi sopra) in cui io affermo che non esiste nel genoma un programma per il ritmo cardiaco. Anche gli elementi strutturali non-genomici sono essenziali. Argomenti simili si applicano, per esempio, al ritmo circadiano [1,28] e, in realtà, a tutte le funzioni che richiedono tanto eredità strutturale cellulare quanto eredità genomica. In effetti, trovo difficile identificare funzioni che non coinvolgano ciò che Cavalier-Smith [29,30] ha caratterizzato come membranoma. Gran parte della logica della vita risiede nelle sue delicate membrane oleose.
5. Generalizzazione dell’argomento in termini matematici
Possiamo generalizzare ciò che accade qui in termini matematici. L’attività dei canali ionici è rappresentata da equazioni differenziali che descrivono la velocità e la direzione dei processi di apertura e chiusura per ogni proteina. I coefficienti in queste equazioni differenziali si basano su dati sperimentali. Si può pensare che – ammesso che tutti i meccanismi proteici siano stati inclusi nel modello, che i dati sperimentali siano affidabili, e che le equazioni si adattino bene ai dati – il ritmo cardiaco dovrebbe “emergere” automaticamente da queste caratteristiche. Non è così. La ragione è molto semplice ed essenziale per qualsiasi modello basato su equazioni differenziali. In aggiunta alle equazioni differenziali occorrono le condizioni iniziali e al contorno. Tali valori sono altrettanto “causa” della soluzione (il ritmo cardiaco) quanto lo sono le equazioni differenziali. In questo caso, le condizioni al contorno includono la struttura cellulare, in particolare quelle delle sue membrane e compartimenti. Senza i vincoli imposti dalle strutture di livello più alto, e da altri processi che mantengono le concentrazioni ioniche, non si avrebbe il ritmo. Se dovessimo mescolare tutte le componenti in un piatto di Petri insieme a una soluzione nutriente, le interazioni essenziali alla funzione non esisterebbero. Verrebbe a mancare l’organizzazione spaziale necessaria.
Figura 3: Molti modelli di sistemi biologici consistono in equazioni differenziali per la dinamica di ogni componente. Queste equazioni non possono dare una soluzione (l’output) senza impostare le condizioni iniziali (lo stato delle componenti al momento in cui inizia la simulazione) e le condizioni al contorno. Le condizioni al contorno definiscono quali vincoli sono imposti al sistema dal suo ambiente e si possono perciò considerare come una forma di azione causale verso il basso. Questo diagramma è enormemente semplificato per rappresentare ciò che di fatto risolviamo matematicamente. In realtà, le condizioni al contorno sono coinvolte anche nella determinazione delle condizioni iniziali e i parametri in uscita possono influenzare anche le condizioni al contorno, mentre queste a loro volta sono anche le condizioni iniziali per un ulteriore periodo di integrazione delle equazioni. Come nei diagrammi dei livelli nei sistemi biologici (vedi i paragrafi 2 e 5), le frecce non sono davvero unidirezionali. Le frecce punteggiate completano il diagramma per mostrare che l’output contribuisce alle condizioni iniziali (sebbene non univocamente), e determina le condizioni iniziali per il prossimo passo di integrazione.
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Questo fatto ci dice perciò come i livelli superiori nei sistemi biologici esercitino la loro influenza su quelli inferiori. Ogni livello fornisce le condizioni al contorno sotto le quali operano i processi ai livelli inferiori. Senza condizioni al contorno, non esisterebbero funzioni biologiche.
Le relazioni in tali modelli sono illustrati in figura 3. Il nucleo del modello è l’insieme delle equazioni differenziali che descrivono la dinamica delle componenti del sistema (per esempio le proteine di canale in figura 2). Le condizioni iniziali sono rappresentate sullo stesso livello dal momento che sono lo stato del sistema all’istante in cui la simulazione inizia. Le condizioni al contorno sono rappresentate ad un livello più alto dato che descrivono l’influenza del loro ambiente sulle componenti del sistema. Finché si tratta di proteine, il resto della cellula è parte del loro ambiente.
Figura 4: Il completamento della figura 1 con varie forme di azione causale verso il basso che regola i componenti di livello più basso nei sistemi biologici. In aggiunta ai controlli interni all’organismo, dobbiamo anche tener conto dell’influenza dell’ambiente su tutti i livelli (non mostrato in questo diagramma). Adattato da Noble [1, fig. 2]. L’azione causale è, perciò, bidirezionale, sebbene ciò non sia rappresentabile al meglio disegnando le frecce con due punte. Una forma di azione causale verso il basso non è una semplice forma rovesciata di azione causale verso l’alto. Si può vedere meglio come il completamento di un circuito retroattivo, come gli esempi discussi nel testo.
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Il diagramma di figura 1 perciò dovrebbe somigliare di più a quello di figura 4. Ci sono retroazioni multiple dai livelli superiori ai livelli inferiori in aggiunta a quelle dai livelli inferiori ai superiori. In qualsiasi modello dei sistemi di livello inferiore, questi formano i vincoli che bisognerebbe incorporare nelle condizioni al contorno e iniziali. Come indica la figura 4, questi includono gli attivatori della segnalazione cellulare (tramite ormoni e trasmettitori), il controllo dell’espressione genetica (tramite fattori di trascrizione), il controllo epigenetico (tramite metilazione e marcatura istonica), e si noti inoltre che è il macchinario proteico che legge i geni – e ripara continuamente gli errori di copiatura rendendo perciò il genoma affidabile. Per capovolgere una metafora popolare, quella del gene egoista [31], è il “goffo robot” che è responsabile di qualsiasi genere di “immortalità” i geni possiedano!
6. Concezioni differenziale e integrale delle relazioni tra genotipi e fenotipi
Tutto ciò è fondamentale e perfino parecchio ovvio per i fisiologi, che tendono a integrare. I fisiologi hanno avuto familiarità con le idee di base sul controllo a molti livelli fin da quando Claude Bernard formulò il concetto di controllo dell’ambiente interno nel libro Introduction à l’étude de la médecine expérimentale del 1865 [32] e Walter B. Cannon sviluppò l’idea di omeostasi in The wisdom of the Body [La saggezza del corpo] del 1932 [33]. Dunque, come mai la corrente maggioritaria della biologia ha cercato di ignorarlo, come ha fatto anche la fisiologia – seppure con qualche eccezione, come il modello della circolazione di Guyton [34]? Penso che qui il colpevole principale sia stato il neo-darwinismo e in particolare le divulgazioni di questa teoria come visione puramente gene-centrica [31]. L’idea essenziale delle teorie gene-centriche è quella che io chiamo la concezione differenziale delle relazioni tra geni e fenotipi [35–38]. L’idea è essenziale nel senso che esclude teorie alternative sostenendo che ciò che conta in termini evolutivi sono i cambiamenti nel genotipo che si riflettono in cambiamenti nel fenotipo. La selezione del fenotipo è perciò, secondo questa logica, fondamentalmente equivalente alla selezione di particolari geni (o, più esattamente, di alleli genici). Questo punto di vista poteva essere appropriato per un’epoca in cui i geni erano considerati delle entità ipotetiche definite come la causa di ogni fenotipo. Non è appropriato rispetto alla definizione, ispirata dalla moderna biologia molecolare e dei sistemi, di gene come particolare sequenza di DNA, che viene replicata ed espressa all’interno di sistemi cellulari e multi-cellulari. In linea di principio, possiamo studiare tutte le funzioni in cui quella sequenza di DNA è coinvolta, sebbene tale obiettivo rimanga ancora molto ambizioso nella pratica. Non dobbiamo limitarci a studiare le differenze. In ogni caso, questo significherebbe focalizzarsi sulla punta dell’iceberg. Prendere in considerazione solo le differenze al livello genico è altrettanto limitativo quanto sarebbe per la matematica ridursi alle equazioni differenziali senza integrarle, come se il segno di integrale e ciò che esso rappresenta non fosse stato mai inventato [37].
L’analogia con la matematica del calcolo differenziale è profondamente illuminante. L’integrazione richiede la conoscenza delle condizioni iniziali e al contorno in aggiunta alle stesse equazioni differenziali (figura 3). Queste si possono ignorare solo restringendosi al “livello” dell’equazione differenziale. Analogamente, la sintesi neo-darwiniana tende a ignorare l’azione causale verso il basso proprio perché tale azione richiede, per essere analizzata, una concezione integrale piuttosto che differenziale della genetica.
Nella fattispecie, quando i neo-darwinisti si riferiscono ai “geni” per qualsiasi particolare fenotipo sul quale agisca la selezione, non si riferiscono alle sequenze complete di DNA per la codifica proteica, ma piuttosto alle differenze tra alleli. Il “gene” viene perciò definito come questa differenza ereditabile nel fenotipo. Non importa nemmeno che si tratti di una differenza nel DNA oppure in qualche altro fattore ereditabile, come i cambiamenti citoplasmatici ereditati nel Paramecio [39], o le influenze citoplasmatiche sullo sviluppo osservate nella clonazione inter-specie di pesci [40].
Al contrario, la concezione integrale che io sostengo non si focalizza sulle differenze. Invece chiede: quali sono tutte le funzioni a cui quella particolare sequenza di DNA dà un contributo? In effetti, non importa se queste sono funzioni che hanno come risultato un fenotipo diverso. Grazie all’esistenza di meccanismi di sicurezza multipli, molte alterazioni del DNA, come i knockout genici, non hanno un loro effetto fenotipico. Fino all’ottanta per cento dei knockout nel lievito sono in questo modo di norma “silenti” [41]. La loro funzionalità può essere rivelata solo quando si cambiano le condizioni al contorno, come l’ambiente nutritivo. L’analogia che sto tracciando con il calcolo differenziale e integrale trae la sua forza precisamente da questa dipendenza dalle condizioni al contorno. Un’equazione differenziale, di per sé, ha un insieme infinito di soluzioni fino a che esse vengono ridotte dalle condizioni al contorno. Analogamente, una differenza nella sequenza del DNA può avere un’ampia varietà di possibili effetti fenotipici, compreso nessun effetto del tutto, fino a quando non si impostano le condizioni al contorno, che comprendono le azioni di molti altri geni, gli stati metabolici e di altro genere della cellula o dell’organismo, e l’ambiente in cui l’organismo vive.
7. Una teoria (biologica) della relatività
Io e i miei colleghi abbiamo espresso molte delle idee brevemente illustrate qui nella forma di alcuni principi della biologia dei sistemi [1,42–44]. Uno di questi principi è che, a priori, non esiste un livello privilegiato di azione causale nei sistemi biologici. La determinazione del livello a cui una funzione viene integrata è una questione empirica. Il ritmo cardiaco viene chiaramente integrato al livello della cellula del nodo seno-atriale, e non esiste nemmeno al di sotto di tale livello. Il principio può essere riformulato in modo più preciso dicendo che il livello a cui ogni funzione viene integrata è almeno parzialmente una faccenda di studio sperimentale. Non ci dovrebbe essere alcun dogma quando si tratta di azione causale nei sistemi biologici.
8. Collegare i livelli
Un modo di collegare i livelli nella simulazione biologica può essere ricavato immediatamente dalla figura 3. Dato che le condizioni al contorno per l’integrazione sono impostate al livello superiore, la determinazione di quelle condizioni a quel livello mediante la misura o mediante il calcolo permetterebbe di inserirle nelle equazioni al livello inferiore. Questa è la maniera in cui l’organizzazione strutturale dell’intero cuore viene usata per vincolare le equazioni differenziali ordinarie e parziali che descrivono i canali proteici e il flusso della corrente ionica attraverso la struttura – la conduzione è più veloce lungo un asse della fibra, per esempio, che trasversalmente e tra le fibre. Questi tipi di vincolo si rivelano essere molto importanti nello studio delle aritmie cardiache, in cui la sequenza di eventi nel passaggio da ritmo ordinato a tachicardia e poi a fibrillazione dipende dalla struttura ad alto livello [45–52].
Un approccio analogo potrebbe essere usato per simulare altri processi biologici come lo sviluppo. Se avessimo una conoscenza sufficientemente dettagliata della struttura e delle reti cellulari dell’uovo fertilizzato, incluse in particolare le concentrazioni e le posizioni dei fattori di trascrizione e le influenze epigenetiche rilevanti, potremmo immaginare di risolvere le equazioni per lo sviluppo che coinvolgono schemi di espressione genica determinati sia dal genoma sia dai suoi regolatori non-DNA. In questo caso, i vari livelli “sopra” la cellula (per meglio dire, “intorno” alla cellula) si svilupperebbero in realtà con il processo stesso, mentre questo si muove attraverso i vari stadi, creando così i vincoli più globali interagenti con l’ambiente dell’organismo. Al momento non sappiamo fare questo ambizioso genere di calcolo, e il motivo non è che non conosciamo il genoma che è stato sequenziato. Il problema si trova a livello più alto. Non siamo ancora in grado di caratterizzare tutte le concentrazioni significative dei fattori di trascrizione e delle influenze epigenetiche. È l’ignoranza di tutte queste forme di azione causale verso il basso a frenare il progresso. Perfino la definizione di quali parti della sequenza del DNA vengono trascritte (e quindi l’identificazione di “geni” al livello del DNA – e qui includerei le sequenze che formano calchi degli RNA come “geni”) richiede una conoscenza a livello più alto. Questo approccio terrebbe conto naturalmente del ruolo della segnalazione cellulare e tissutale nella generazione dei principi organizzativi coinvolti nell’induzione embrionale, originariamente identificata nel lavoro pionieristico di Spemann e Mangold [53–55]. L’esistenza di tale induzione è essa stessa un esempio di dipendenza dalle condizioni al contorno. I meccanismi di induzione emergono via via che l’embrione interagisce con il suo ambiente. La morfogenesi non è interamente scolpita nel genoma.
9. Proprietà emergenti e condizioni al contorno
Il riferimento alle proprietà emergenti mi porta a un punto fondamentale sui limiti del riduzionismo. Una motivazione importante a favore del riduzionismo è la riduzione della complessità. L’idea è che se un fenomeno è troppo complesso da capire al livello X allora scendi al livello Y e vedi, prima di tutto, se le interazioni al livello Y sono più facili da capire e da teorizzare, poi, secondariamente, vedi se da quella comprensione si può automaticamente comprendere il livello X. Se in effetti tutto ciò che è importante al livello X dovesse essere interamente derivabile da una teoria al livello Y, allora avremmo un caso di quella che definirei “emergenza debole”, intendendo che le descrizioni al livello X si possono allora vedere come una specie di versione breve dell’analisi esplicativa più dettagliata al livello Y. Pertanto si potrebbero definire di “emergenza forte” i casi in cui questo non vale, come abbiamo visto col modello del ritmo cardiaco descritto prima. Sarebbero esattamente quei casi in cui ciò che è semplicemente contingente al livello Y è sistematico al livello X. Sostengo che, se il livello Y è il genoma, allora già sappiamo che l’“emergenza debole” non funziona. C’è “emergenza forte” perché è anche la contingenza al di là di quanto si trova nel genoma, vale a dire nel suo ambiente, a determinare quel che succede.
Questo tipo di limitazione al riduzionismo non è circoscritta alla biologia. La rottura spontanea della simmetria nella fisica delle particelle è un caso confrontabile. Una differenza infinitesima può determinare in che modo si rompe la simmetria [56]. Come questo accade nei casi particolari non è derivabile dalla teoria particellare in sé. Quei riduzionisti biologici, la cui motivazione è quella di ridurre la biologia alla fisica, dovrebbero essere consapevoli che anche la stessa fisica mostra quel genere di limiti che descrivo qui; né questi limiti sono circoscritti alla teoria delle particelle.
Il collegamento dei livelli mediante l’impostazione delle condizioni iniziali e al contorno derivate dall’analisi multi-livello ha fin qui servito molto bene la biologia, come è attestato dal Progetto Fisioma [23,57]. Ma ci sono due ragioni per cui penso che forse non sia abbastanza.
10. Calcolabilità
La prima è il problema della calcolabilità.
Esaminiamo ancora il cuore. Fin dalle primissime simulazioni al supercomputer [58,59] in cui i modelli cellulari erano incorporati in strutture anatomiche rappresentanti il tessuto cardiaco e l’intero organo [23,60,61], ci siamo continuamente spinti oltre i limiti di velocità di calcolo e di memoria. Perfino oggi, stiamo solo cominciando ad avvicinarci alla simulazione in tempo reale dell’attività elettrica di organi interi, che prenda cioè solo un secondo di elaborazione per calcolare un secondo di tempo del cuore. Tuttavia, tali modelli descrivono solo una piccola percentuale del numero totale di proteine coinvolte nella funzione cardiaca, sebbene, naturalmente, speriamo di aver incluso quelle più importanti per le funzioni che stiamo rappresentando. E le equazioni per ciascun componente sono le più semplici in grado di catturare la dinamica rilevante della funzione dei canali ionici. L’espansione dei modelli fino a includere la maggior parte, piuttosto che pochissimi, prodotti dei geni, l’estensione del modello di ciascuna proteina a un dettaglio maggiore, e l’estensione della scala temporale oltre alcuni battiti cardiaci richiederebbero un aumento di ordini di grandezza nella potenza di calcolo.
Di fatto, è relativamente semplice dimostrare che le ricostruzioni complete dal basso verso l’alto, dal livello delle molecole al livello di interi organi, richiederebbero molta più potenza di calcolo di quanto sarà mai probabilmente disponibile, come ho sostenuto in un precedente articolo [37]. In quell’articolo iniziavo col porre due domande. Come prima cosa, “gli organismi sono codificati come descrizioni molecolari nei loro geni?”; in secondo luogo, “potremmo, analizzando il genoma, risolvere il problema diretto del calcolo del comportamento del sistema da questa informazione, come era implicito nell’idea originale del ‘programma genetico’ e nella rappresentazione più moderna del genoma come ‘libro della vita’?” (per una recente affermazione di queste idee vedere [62]). La risposta a entrambe le domande è stata “no”. La prima avrebbe richiesto che il dogma centrale della biologia molecolare avesse ragione nell’escludere il controllo del genoma da parte del suo ambiente, mentre il secondo incappa nel problema dell’esplosione combinatoria. Il numero delle interazioni possibili tra 25.000 geni supera il numero totale delle particelle elementari nell’intero Universo conosciuto [63], anche quando circoscriviamo drasticamente i numeri dei prodotti genici che possono interagire reciprocamente (vedere anche [64]). È concepibile che si possa guadagnare un po’ di accelerazione incorporando il calcolo analogico per superare i limiti di Turing [65], ma non è ancora plausibile aspettarsi che un’aumentata potenza di calcolo possa fornire tutto ciò che ci serve o che costituisce la soluzione migliore [66].
11. Relatività di scala
La seconda ragione per cui il collegamento dei livelli mediante le condizioni al contorno possa non bastare è che esso presuppone che le stesse equazioni differenziali rimangano inalterate quando fanno parte di una gerarchia di livelli. Questo è quanto ci aspettiamo da un’analisi classica; ma è necessariamente corretto?
Una delle motivazioni per cui ho introdotto questo articolo con alcune osservazioni sul principio generale di relatività e sulla sua storia come ciò che ci ha permesso di allontanarci dalle assunzioni indimostrate relative a prospettive privilegiate, è che possiamo porre la stessa domanda riguardo ai livelli e alle scale. Se non esiste un livello privilegiato di azione causale, allora perché dovrebbe esistere una scala privilegiata? Questo è il quesito sollevato dalla teoria della relatività di scala di Laurent Nottale [67,68]. Come dimostrato da Nottale et al. [69] in un libro recente, le conseguenze dell’applicazione del principio di relatività alle scale sono ampie e profonde, variando dalla comprensione della transizione quantistica–classica in fisica alle applicazioni potenziali nella biologia dei sistemi [70,71].
Concluderò, perciò, questo articolo descrivendo cosa implica quella teoria, come si collega alla teoria generale della relatività biologica che ho qui accennato, e qual è oggi lo stato di tali teorie.
L’aspetto centrale dal punto di vista della modellistica biologica può essere apprezzato osservando che le equazioni per la struttura e per il modo in cui gli elementi si muovono e interagiscono in quella struttura dipendono necessariamente, in biologia, dalla risoluzione alla quale essa è rappresentata. A meno di rappresentare tutto al livello molecolare – il che, come discusso sopra, è impossibile (e fortunatamente neanche necessario) – le equazioni differenziali dovrebbero essere dipendenti dalla scala. Per esempio, al livello delle cellule, le equazioni possono rappresentare una dettagliata compartimentazione e non-uniformità di concentrazioni, e perciò includere equazioni di diffusione intracellulare, o altri modi per rappresentare la non-uniformità [72–74]. Al livello dei tessuti e degli organi, spesso assumiamo il mescolamento completo (cioè l’uniformità) delle concentrazioni cellulari. A quel livello, inoltre, di solito ammassiamo interi gruppi di cellule in punti della griglia di calcolo dove le equazioni rappresentano il comportamento cumulativo in quella posizione.
Ci sono ragioni pratiche per cui le equazioni che usiamo dipendono dalla scala. La teoria formale della relatività di scala va molto oltre dal momento che essa propone che è teoricamente necessario che le equazioni differenziali dipendano dalla scala. Lo fa presupponendo che lo stesso spazio-tempo sia continuo ma in generale non differenziabile, perciò frattale, non uniforme. La distanza tra due punti, perciò, dipende dalla scala alla quale si opera e dunque, nel limite, dato che dx o dt tendono a zero, il differenziale spessissimo è indefinito. Ciò non vuol dire che non si possano usare equazioni differenziali, ma semplicemente che si dovrebbero includere termini corrispondenti alla scala come estensione delle solite equazioni differenziali in quanto influenze esplicite della scala sul sistema. La derivazione di questi termini di estensione si può trovare in Auffray e Nottale [70, pp. 93–97] e in Nottale [69, pp. 73–141].
L’idea di uno spazio-tempo frattale potrebbe sembrare strana. Personalmente lo vedo come un’estensione del principio della relatività generale che lo spazio-tempo non è indipendente dagli stessi oggetti che si trovano in esso, cioè lo spazio-tempo non è uniforme. Oggi siamo abituati a questa idea in relazione alla struttura dell’Universo e al modo in cui, secondo la relatività generale di Einstein, lo spazio-tempo viene distorto dalla massa e dall’energia creando fenomeni come la lente gravitazionale [75,76]. Però di solito si assume che, alle scale minori, le rappresentazioni classiche dello spazio-tempo siano sufficienti. È una questione aperta se sia così e se la scala debba essere incorporata in termini espliciti nelle equazioni che usiamo nei modelli multi-scala. Ricordiamo inoltre che l’utilità di un concetto matematico non dipende da quanto facilmente riusciamo a visualizzare gli enti interessati. Troviamo difficile immaginare un numero come √−1, ma ha grande utilità nell’analisi matematica del mondo reale. Potremmo dover pensare l’inimmaginabile allo scopo di comprendere pienamente la natura multi-scala della biologia. Il concetto di scala è, dopo tutto, profondamente connesso alla nostra concezione dello spazio-tempo.
12. Conclusioni
Benché io ritenga che possiamo essere certi che l’azione causale multi-livello con retroazioni tra tutti i livelli sia un aspetto importante degli organismi biologici, gli strumenti a nostra disposizione per affrontare tale azione causale necessitano di ulteriori sviluppi. Il problema non è se esista l’azione causale verso il basso del genere discusso in questo articolo, ma è piuttosto come incorporarla al meglio nella teoria e nella sperimentazione biologica, e quale tipo di matematica debba essere sviluppata per questo lavoro.
Ringraziamenti
Questo articolo si basa su una presentazione alla conferenza sull’Azione Causale Verso il Basso [Downward Causation] che si è tenuta presso la Royal Society nel settembre 2010. Vorrei ringraziare per le preziose discussioni molti dei partecipanti alla conferenza. Ringrazio anche Charles Auffray, Jonathan Bard, Peter Kohl e Laurent Nottale per avermi suggerito dei miglioramenti al manoscritto, e i revisori della rivista per le preziose critiche. Dichiaro il sostegno di un assegno di ricerca EU FP7 per il progetto VPH-PreDiCT.
Successivamente all’accettazione di questo articolo, la mia attenzione si è rivolta all’articolo sull’azione causale verso il basso di Michel Bitbol [77]. Egli affronta il problema dai punti di vista kantiano e quanto-meccanico, ma riconosco che molte delle sue intuizioni somigliano e sono compatibili con le idee espresse qui, in particolare riguardo al ruolo delle condizioni al contorno e alla prospettiva relativistica.
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6 commenti
Bellissimo e illuminate articolo questo di Denis Noble, una mente veramente libera da pregiudizi e che non ha paura di chiamare le cose con il loro nome (si legga ad esempio il suo riferirsi a Claude Bernard come il primo ‘system biologist’ laddove ,ci ricorda Noble, che la ‘systems biology’ non è altro che la vecchia e gloriosa fisiologia:
http://ep.physoc.org/content/93/1/16.short).
Ora, chiunque abiti a Roma sente ogni giorno gli effetti della causazione top-down sulla sua vita quotidiana, basti pensare a quanto siamo condizionati dal traffico (un evento su scala globale, necessitante di diverse migliaia di automobili con percorsi correlati) al nostro livello microscopico. Per essere un pochino più scientifici, ci dovremmo ricordare dalla chimica del liceo che le caratteristiche fisiche (es. carica parziale) dello STESSO atomo di idrogeno inserito in una molecola d’acqua sono DIVERSE da quelle che avrebbe se inserito in una molecola di metano: la molecola (livello superiore) influenza l’atomo (livello inferiore)..potremmo parlare poi dell’effetto della mente sulle nostre malattie organiche o la coordinazione indotta nelle cellule di un tessuto dal far parte di un insieme integrato..ma insomma dovrebbe essere del tutto ovvio e pacifico che i legami causali si muovono attraverso i livelli.
Ma ovvio pare non sia se Noble ha avuto bisogno di scrivere questo articolo per dissipare una mitologia pervasiva che vuole ridurre tutto alla sequenza del DNA.
Noble ci spiega come questa mitologia sia un effetto collaterale di un darwinismo portato alle estreme conseguenze attraverso il (falso) sillogismo:
SE niente ha senso in biologia se non in termini di evoluzione E se il solo livello che noi conosciamo poter essere attingibile dai meccanismi evolutivi sono le modificazioni del DNA ALLORA l’unico livello causale rilevante in biologia è quello molecolare.
Uscire fuori da questo circolo vizioso è più che mai importante.
Un articolo molto interessante, grazie per averlo pubblicato!
“Presenterò le prove, sperimentali e teoriche, che esiste azione causale verso il basso dalle scale maggiori a quelle minori, mostrando come la modellistica matematica ci abbia permesso di visualizzare il modo esatto in cui si verifica l’azione causale “bidirezionale” a molti livelli”.
Finalmente qualcuno stà cominciando a prendere sul serio l’idea che la classica catena causale riduzionistica dal basso verso l’alto non e’ sufficiente per descrivere la complessità biologica. Come direbbe anche il Prof. Masiero è assurdo che la biologia continui a ragionare unicamente in termini riduzionistici quando anche la fisica ha mostrato l’insufficienza di questo tipo di approccio per la comprensione del mondo fisico.
In un altro articolo il Prof. Pennetta, replicando a Michele Bellone, scriveva giustamente:
“Tutte le aggiunte fatte alla TDE consistenti in: equilibri punteggiati; system biology; deriva genetica; variazioni criptiche; dynamical patterning modules; canalizzazione dei processi epigenetici ecc… non intaccano minimamente la questione sull’improbabilità statistica che determinate proteine e/o funzioni siano comparse per somma di mutazioni casuali, è come se aumentando il lavoro sul livello successivo riteniate di rendere più probabile quello precedente.
Quello che invece emerge è una situazione come quella in cui si venne a trovare il sistema tolemaico che prima di essere soppiantato da quello copernicano si caricò di una serie di spiegazioni che cercavano di rattoppare i punti deboli della teoria (epicicli, deferenti, equante, eccentrico) anche se poi andavano anche in contrasto tra loro”.
La biologia moderna, per poter progredire, deve sforzarsi di compiere un vero e proprio cambio di paradigma.
Aristotele: 1 – Neodarwinismo: 0 😀
I darwinisti, che propongono una spiegazione storico-funzionalistica dell’evoluzione, hanno bisogno di un “calco” per l’assemblaggio meccanico contingente delle forme organiche: questo ruolo di calco è per loro svolto dai geni nel DNA. Contingenza + selezione = imprevedibilità storica = narrazione infalsificabile. Che pretendono gli altri, esclama scandalizzato Bellone nel suo ultimo articolo su Pikaia (per il resto condivisibile), che replichiamo in laboratorio l’evoluzione di una lucertola in rana?
A quelli come noi, invece, che cercano una spiegazione fisico-strutturalistica dell’evoluzione, bastano le leggi naturali (e la selezione come effetto secondario di adattamento). Noi crediamo nelle equazioni della chimica e della fisica, e nella loro “cristallizzazione vivente” sulla base delle condizioni al contorno date dall’ambiente. Necessità + selezione = predittività dei Tipi (le forme che si conservano per centinaia di milioni di anni attraverso i taxa durante l’evoluzione) = teoria falsificabile.
Il darwinismo postula il pre-formismo, cioè un dettagliato calco (prodottosi anch’esso per contingenza e selezione naturale) per la morfogenesi e l’ontogenesi; mentre lo strutturalismo implica l’epigenesi, cioè l’emergere di forme viventi dall’auto-organizzazione della materia in base alla teoria quantistica dei campi e alla chimica.
Il gene-centrismo, anche se ora non è più creduto dagli stessi darwinisti dopo che è stato falsificato (con l’eccezione dei soliti Dawkins, Dennett, ecc.), come spiega Giuliani più sopra è tuttavia necessario al paradigma darwiniano: solo se la forma vivente è codificata nei geni, essa è essenzialmente arbitraria e l’ordine biologico risulta contingente (“senza senso”, Pievani). Solo in questo caso la biologia evolutiva diventa una narrazione storica, ed ogni regolarità che si ripeta attraverso i taxa può essere interpretata – non come l’evidenza della presenza di leggi costrittive di natura (come accade in tutte le altre scienze naturali) – ma come una successione di contingenze storiche registrate nei geni, in cui sono rimaste tracce di antenati comuni, ora inutili ma che in passato “devono” essere servite a qualche scopo…
Questo articolo di Noble mostra che i geni non sono tutto, e che quindi il neodarwinismo è una teoria quanto meno incompleta dell’evoluzione. Che sia impredittiva (che implicherebbe, secondo la definizione popperiana, non “scientifica”), lo ammettono ormai anche i darwinisti, che non possono pretendere la botte piena della predittività e la moglie ubriaca del “non senso” e della contingenza delle forme viventi, i quali ultimi sono concetti per definizione anti-predittivi!
“potremmo, analizzando il genoma, risolvere il problema diretto del calcolo del comportamento del sistema da questa informazione, come era implicito nell’idea originale del ‘programma genetico’ e nella rappresentazione più moderna del genoma come ‘libro della vita’?” […] la risposta è stata no… incappa nel problema dell’esplosione combinatoria. Il numero delle interazioni possibili tra 25.000 geni supera il numero totale delle particelle elementari nell’intero Universo conosciuto [63], anche quando circoscriviamo drasticamente i numeri dei prodotti genici che possono interagire reciprocamente “
Il superamento della visione gene-centrica del genoma come ‘libro della vita’ è un passo indispensabile per una nuova biologia.
E in particolare per una nuova biologia evolutiva.
Che non avverrà affatto facilmente per gli enormi interessi dell’industria della medicina.
1) predittivi: vendita/laboratori kit analisi genoma, identificazione di un determinato gene, probabilità di sviluppare malattia futura. (generando oltretutto ansie colossali).
2) curativi: “cura” della malattia spacciata per probabile tramite vendita di farmaci mirati allo specifico gene.
Sottolineo il fatto che in questo modo si riesce a “curare” i SANI facendo leva sulle paure di ognuno, non i malati, con ovvia estensione enorme del bacino di utenza. Oltretutto le nuove “medicine” avranno sicuramente altri effetti collaterali, generando altri malati, questa volta veri, ovviamente da “curare”.
Ancora una volta i miliardi e gli interessi di pochi influenzano pesantemente la cosiddetta “scienza”…