Due uomini all’alba in riva al mare (Caspar D. Friedrich, 1836)
Un incidente tra Fermi e Dirac
di Giorgio Masiero
Come da un articolo di Fermi è scesa una catena di tecnologie e premi Nobel, fino all’ultimo di questi giorni
Il 20-21 ottobre si svolgerà a Roma, all’Accademia dei Lincei, una conferenza internazionale dal titolo “Ninety Years of Fermions”, per celebrare il 90° anniversario di un articolo di statistica quantistica scritto da Fermi. La conferenza è aperta a tutti, ma basta un’occhiata al programma per rendersi conto che sarà comprensibile solo ai fisici. Allora, letti i titoli delle relazioni, ho preso una decisione arrischiata: produrre in anticipo una liberissima sintesi degli atti futuri del congresso per i lettori di CS. Userò alcune formule matematiche: le si rimiri per qualche secondo e si vada avanti.
Facciamo un salto indietro di 90 anni. Ottobre 1926, dal Regio Istituto di Fisica di via Panisperna a Roma una secca lettera giunge al St. John College di Cambridge, indirizzata a Paul Dirac: “Caro signore, nel suo interessante lavoro ‘On the theory of quantum mechanics’, lei ha proposto una teoria del gas ideale basata sul principio di esclusione di Pauli. Ora, una teoria sul gas ideale, che è praticamente identica alla sua, è stata pubblicata da me all’inizio del 1926. Poiché immagino che lei non abbia visto il mio articolo, mi permetto di attirare la sua attenzione su di esso. Sinceramente, suo Enrico Fermi”.
Perché Fermi si era tanto irritato? L’“interessante lavoro” di Dirac era apparso l’1 ottobre 1926 in una rivista britannica. Siamo nell’epoca eroica della nascita della meccanica quantistica. Fermi ha 25 anni, Dirac 24 e stanno entrambi nel circolo dei fondatori. Tra i problemi della nuova teoria, nel suo articolo il fisico britannico esaminava la distribuzione energetica di un gas di elettroni. Pensiamo alle auto che corrono in città ad una data ora; qualcuno potrebbe voler conoscere come si distribuiscono percentualmente rispetto alle velocità: quante sotto i 25 km/h, quante tra 25 e 50, tra 50 e 75, ecc. Il problema di Dirac era simile: ad una data temperatura, come si distribuiscono gli elettroni rispetto all’energia?
Per trovare la risposta, Dirac assumeva un punto di partenza operativo, empirico, così come era stato statuito per primo da Galileo, e più recentemente ribadito da Einstein, Bohr, Heisenberg, Schrödinger e dagli altri protagonisti della nuova fisica…, e che alcuni fisici postmoderni tendono ahimè a dimenticare: ogni teoria fisica deve infine occuparsi solo di entità che possano essere misurate sperimentalmente. “Noi dovremmo aspettarci – scriveva Dirac nel suo articolo – che questa molto soddisfacente caratteristica persista in ogni futuro sviluppo” della fisica.
Scendiamo nel concreto. Nello studio d’un sistema di due elettroni, chiamiamoli 1 e 2, dobbiamo distinguere, sì o no, lo stato complessivo in cui l’elettrone 1 si trova nella configurazione (di velocità, energia, ecc.) a e l’elettrone 2 nella configurazione b, dallo stato complessivo in cui l’elettrone 1 si trova nella configurazione b e l’elettrone 2 nella configurazione a? Poiché gli elettroni sono particelle identiche, quei due stati del sistema sono sperimentalmente indistinguibili e allora, scriveva Dirac, “per preservare la caratteristica essenziale della teoria che ci permette di calcolare solo le quantità osservabili, dobbiamo adottare la seconda alternativa e dire che i due stati contano per uno solo”. Non è una questione astratta, ma genuinamente operativa: di qui infatti, trascurando le interazioni tra i due elettroni, Dirac giungeva a dimostrare che la funzione ψ di stato del sistema è data da una delle due seguenti equazioni, secondo che si prenda il segno più o il segno meno
ϕ(1; a) è la funzione del primo elettrone nella configurazione a, ϕ(2; b) quella del secondo elettrone nella configurazione b, ecc. Questa equazione può apparire strana, ma non lo è affatto, se non per la possibilità del segno meno che deriva dai postulati della meccanica quantistica: metti infatti, Lettore, al posto degli elettroni una coppia di dadi e supponi di voler calcolare la probabilità che dal loro tiro congiunto escano due numeri diversi, a e b. Otterresti la formula col segno più, dove stavolta ϕ(1; a) è la probabilità che esca il numero a dal primo dado, ecc.
Il passo successivo di Dirac fu la scelta del segno. La meccanica quantistica non dà indicazioni, ma con l’aiuto del Principio di esclusione, che Wolfgang Pauli aveva avanzato l’anno precedente (sulla rivista Zeitschrift für Physik di febbraio 1925) e che vieta a due elettroni di stare nella stessa configurazione, Dirac mostrava con facilità che va scelto il segno meno:
così che nel caso a = b, cioè con i due elettroni nella stessa configurazione, si ottenga ψ = 0, ovvero nessuno stato fisico, come dev’essere per il Principio di esclusione. Con i quanti di luce, i fotoni, Dirac invece proponeva il segno più: usava un argomento sbagliato, ma la scelta si rivelò giusta. Da allora tutte le particelle della fisica saranno divise in due grandi gruppi: quelle per cui si prende il segno meno e quelle per cui si prende il segno più. Nella chiusura del suo articolo, usando metodi statistici, Dirac perveniva alla formula della distribuzione dell’energia:
E beh? Tutto molto bello…, solo che Fermi 8 mesi prima era pervenuto allo stesso risultato e Dirac non lo citava nel suo articolo! Il lavoro di Fermi s’intitolava “Sulla quantizzazione del gas perfetto monoatomico”, era stato presentato il 7 febbraio 1926 a Firenze, all’Accademia dei Lincei, e in una versione più ampia era stato pubblicato in tedesco nella primavera dello stesso anno da Zeitschrift für Physik, allora numero 1 al mondo delle riviste di fisica.
La protesta di Fermi creò molto imbarazzo a Dirac, che si affrettò a scusarsi. Molti anni dopo, Dirac avrebbe ricordato quei momenti così: “Quando [dopo la lettera di Fermi, N.d.R.]andai a leggere il suo articolo, mi ricordai di averlo già visto, ma me ne ero completamente dimenticato. Temo che sia un mio difetto quello di avere una memoria non molto buona e qualcosa deve essere come scivolato via dalla mia mente, se non ne capii a suo tempo l’importanza. Quando avevo letto la prima volta l’articolo di Fermi, non avevo visto quanto avrebbe potuto essere importante per tutti i problemi fondamentali della teoria quantistica; mi era apparso un lavoro distaccato. Mi uscì del tutto dalla mente, e quando poi scrissi l’articolo sulle funzioni d’onda antisimmetriche [quello che suscitò la reazione di Fermi, N.d.R.], non me ne ricordavo assolutamente più”.
Le scuse di Dirac si tradussero in un generale riconoscimento della priorità di Fermi da parte della comunità scientifica sulla scoperta, se è vero che a partire dal 1945 le particelle associate al segno meno nella funzione d’onda sarebbero state denominate, su proposta di Dirac, fermioni e la nuova statistica sarebbe stata denominata Statistica di Fermi-Dirac (mentre le particelle associate al segno più sarebbero state denominate bosoni, dal nome del fisico indiano Bose, che insieme ad Einstein aveva sviluppato la relativa statistica, la “Statistica di Bose-Einstein”). A determinare la statistica di una particella, si scoprirà, è una sua caratteristica intrinseca, lo spin, semintero (1/2, 3/2, …) per i fermioni e intero (0, 1, …) per i bosoni.
Fig. 1 – Il Congresso Solvay del 1930. Vi si riconoscono i principali fisici dell’epoca: Dirac è in piedi in centro, Fermi in piedi secondo da destra, Pauli in piedi quinto da destra.
L’irritazione di Fermi dell’ottobre ’26 non si giustifica però solo con la sbadataggine di Dirac. C’era un assillo ben maggiore che da mesi tormentava l’italiano e cui l’articolo del britannico aveva dato un’occasione per sfogarsi pubblicamente. Per capire, occorre fare qualche passo indietro, risalendo alla tesi del diploma di Fermi alla Normale di Pisa, “Un teorema di calcolo delle probabilità ed alcune sue applicazioni” (1922), e a due dei suoi primi lavori, “Dimostrazione che in generale un sistema meccanico normale è quasi ergodico” (1923) e “Considerazioni sulla quantizzazione dei sistemi che contengono degli elementi identici” (1924), tutti pubblicati sulla rivista Il Nuovo Cimento. Dunque, nei 4 anni precedenti e fin dalla laurea, Fermi si era occupato di meccanica statistica, con un interesse particolare verso le particelle identiche in un crescendo che sarebbe culminato nell’articolo del 1926. Specificatamente, nell’articolo del 1924 egli aveva messo in discussione le regole di quantizzazione di Sommerfeld, “che non sono applicabili nel caso che alcune parti di un sistema siano tra di loro completamente identiche”, vi scriveva. Fermi aveva fatto l’esempio semplice quanto illuminante (Fig. 2) di un sistema di 3 particelle poste ai vertici di un triangolo equilatero:
Fig. 2 – Tre particelle, distinguibili (a sinistra) e indistinguibili (a destra), ai vertici di un triangolo equilatero
Se le particelle sono distinguibili (figura di sinistra), allora l’anello ritorna nelle stesse condizioni dopo una rotazione di 360 gradi, e in questo caso la regola di Sommerfeld dà giustamente:
p·2πr = nh;
ma se le particelle non sono distinguibili (come nel caso di 3 elettroni, figura di destra), allora “per riportare l’anello nella sua situazione iniziale, non sarà necessario farlo ruotare di un angolo di 360 gradi, ma basterà un angolo di 120 gradi” e la regola di Sommerfeld va aggiustata per un terzo di circonferenza:
p·2πr/3 = nh.
Nei due casi, come capisce anche uno scolaro delle medie, per p e r – cioè per velocità ed orbite degli elettroni – si ottengono soluzioni diverse. Oltre però, Fermi non riuscì ad andare nell’articolo del ’24. Il pezzo che gli mancava per ricostruire il puzzle completo – cioè per arrivare alla formula della distribuzione dell’energia – era il Principio di esclusione, che sarebbe arrivato con l’articolo di Pauli del 1925 e che avrebbe procurato il premio Nobel all’austriaco nel 1945.
Il punto è che Fermi, non solo aveva anticipato nel 1926 Dirac nel calcolo della distribuzione dell’energia degli elettroni, ma avrebbe potuto farlo fin dal 1924, anticipando lo stesso Pauli nella formulazione del Principio di esclusione…, se solo avesse dedicato più tempo alla teorizzazione – i cui strumenti matematici padroneggiava perfettamente – e ne avesse dedicato un po’ meno alla sperimentazione. Invece, a differenza di Dirac, di Pauli e di altri fondatori della rivoluzione quantistica, Fermi considerava il laboratorio il primo luogo del lavoro dello scienziato, per il quale la teoria doveva intervenire solo ancillarmente a supporto.
Nel gennaio del ‘26, ad un anno ormai trascorso dalla pubblicazione dell’articolo di Pauli, un Fermi sconsolato, mentre dava gli ultimi ritocchi all’articolo sull’energia degli elettroni, scriveva all’amico e collega Enrico Persico: “… L’articolo di Pauli mi ha sconvolto e depresso. Avevo cominciato a riflettere sulla questione dell’entropia di un gas perfetto fin dal mio soggiorno a Leida, ma continuava a sfuggirmi una qualche regola generale su come contare gli atomi nello spazio delle fasi. Ed ora Pauli l’ha trovata. Una regola semplicissima, ovviamente, e io mi sento uno stupido completo. A cosa è servito dedicare ogni mia energia alla fisica per tutti questi anni? Forse è il coraggio che mi manca. Dovevo osare, formulare quella maledetta regola, e invece l’ha fatto lui. Quando l’ho incontrato a Gottinga [nel ’23, N.d.R.], quasi non mi voleva stringere la mano, troppo impegnato a non voler capire la fisica con Born, Heisenberg e Jordan. Perché ciò di cui ragionano loro non è più fisica, è zoologia dei termini spettroscopici o, peggio, pura filosofia! E quella è una lingua che proprio non riesco a comprendere. Pauli una sera, più ubriaco del solito, mi ha chiamato “ingegnere quantistico”. E forse ha ragione lui. Non sono adatto all’astrazione di questa nuova fisica. Io sono e rimango figlio di un ferroviere. È una ben triste condizione la mia: superato nella teoria da un ubriacone tedesco [Pauli in verità era austriaco, N.d.R.] …”. E continuava: “Malgrado lo sconforto, ma forse a maggior ragione, in questi giorni ho lavorato intensamente all’idea di Pauli (che certo avrei potuto avere io, se solo avessi avuto ancora un po’ di tempo) applicandola alla quantizzazione di un gas perfetto monoatomico. Vorrei riuscire a presentare un lavoro alla riunione dell’Accademia dei Lincei che si terrà tra qualche giorno. Sono convinto che le molecole di un gas possano essere trattate in modo quantistico ed ora, dopo l’intuizione di Pauli, posso forse calcolarne la statistica. Magari ne viene qualcosa di buono da pubblicare anche su Zeitschrift für Physik…”, come appunto accadde. In questo vaso colmo Dirac avrebbe aggiunto la goccia traboccante, per una banale dimenticanza.
A novembre comunque, Fermi poté consolarsi, insediandosi a Roma nella prima cattedra di Fisica Teorica istituita in Italia, si può dire ad personam in ragione dei suoi meriti. Docente di fisica teorica, egli restò per tutta la vita prima di tutto un fisico sperimentale. La stessa formula di distribuzione dell’energia dei fermioni, da lui ricercata e trovata per primo, non sarebbe solo servita a Chandrasekhar per i suoi empirei studi sulle nane bianche (premio Nobel 1983), ma già a partire dal 1927 avrebbe fornito a Sommerfeld e a Pauli (proprio loro, che Fermi aveva corretto e criticato!) la base su cui fondare la teoria quantistica dei metalli. Quella funzione spiega infatti la conduzione elettrica, in particolare il comportamento dei semiconduttori, cosicché ad essa si fa risalire l’alba dell’elettronica moderna: poco dopo la II guerra mondiale, presso i laboratori Bell, sarebbe stato inventato il primo triodo a semiconduttore, il transistor.
Nel 1956, ai tre inventori del transistor fu conferito il Premio Nobel ed uno dei premiati, John Bardeen, aprì la sua Nobel Lecture mostrando la funzione di Fermi elaborata a Firenze agli inizi del 1926 (Fig. 3).
Fig. 3 – La Nobel Lecture di John Bardeen (1956).
Dalla funzione di Fermi deriva anche la superconduttività, per la cui teoria Bardeen avrebbe vinto una seconda volta il Nobel nel 1972, unico caso nella storia della fisica. Si sa che la corrente elettrica incontra una resistenza a passare lungo un circuito metallico e deve perciò essere alimentata di continuo da un generatore. Studiando come la resistenza varia con la temperatura, ancora nel 1911 si era scoperto che in molti metalli la resistenza si annulla sotto una certa “temperatura critica”, vicina allo zero assoluto. Questo fenomeno si chiama superconduttività e fu spiegato matematicamente solo nel 1957 da Bardeen con altri due fisici, per mezzo della statistica di Fermi-Dirac e di Bose-Einstein unitamente: gli elettroni, ad una temperatura sufficientemente bassa, si bosonizzano accoppiandosi a due a due in stati di spin intero. A questo punto, non essendo più vincolati al Principio di Pauli, vanno in massa ad occupare lo stesso stato di energia minima, formando un’unica particella quantistica in moto, cui corrisponde una corrente elettrica persistente, che può proseguire per sempre senza la necessità d’un generatore.
Dalla superconduttività sono discese tecnologie come i treni MAGLEV, basati sulla levitazione magnetica (mag-lev), e le diagnosi a risonanza magnetica. L’ultima applicazione della formula di Fermi ha meritato in questi giorni, dopo 90 anni esatti, il premio Nobel a tre fisici britannici per le loro ricerche sempre nel campo della superconduttività, che hanno condotto alla produzione di nuovi materiali e promettono sviluppi nell’informatica quantistica.
Lo scienziato è un creatore di miti, costruisce un sistema di simboli per interpretare la fenomenologia e li struttura in una teoria matematicamente coerente. Ma al mito della teoria – in cui ogni poeta può cimentarsi – la tecno-scienza aggiunge la disciplina della predizione, che attraverso il controllo della comunità dei ricercatori pone un freno alla creatività e attraverso la riproduzione genera sempre nuove applicazioni. La scienza naturale è un matrimonio tra mito e disciplina, fecondo di tecnologie.
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19 commenti
Se continui così (forse) comincerò a capire di che si tratta quando parlano di bosoni e fermioni. Grazie.
Su questo tema potrebbe piacerle un modo molto sintetico e divulgativo con cui Zichichi spiegò le due statistiche delle particelle elementari (http://www.enzopennetta.it/2015/05/zichichi-a-scampia/):
“Le cose obbediscono a due leggi statistiche, “più ce n’è, meglio è” per i bosoni e “per ognuno il proprio posto” per i fermioni. Noi siamo fatti di fermioni perché lo sono i protoni, i neutroni e gli elettroni; infatti in questo auditorium ognuno ha il suo posto. Se fossimo fatti di bosoni, riusciremmo ad entrare tutti e sette miliardi in questa sala, ma saremmo come la luce che non può stare ferma ma viaggia costantemente a circa 300’000 km/s.”
Grazie della segnalazione. Una curiosità “sociologica”: perché quasi tutti omettono di aggiungere “nel vuoto” quando parlano della velocità della luce e citano i circa 300 mila km/s? Dove il circa significa l’arrotondamento di 299792458 m/s. E non velocità effettiva nel mezzo reale, che vuoto in genere non è (tranne che nei CRT).
Come sarei stato felice di lavorare con propagazione rettilinea a velocità costante!
Ed ora, prima che arrivi il mio parente tedesco Alz von Heimer, corro a Scampia a trovare Zichichi, di cui ricordo una bellissima disanima dei vari infiniti.
La specificazione “nel vuoto”, la velocità non approssimata e il fatto che in genere non esiste veramente un vuoto assoluto sono omissioni che si usano fare semplicemente per comodità, quando non c’è rischio di gravi equivoci e in un contesto divulgativo o quasi divulgativo. In un paper o in un’aula universitaria ovviamente non succede, a meno che il professore non dichiari prima di voler fare un discorso volutamente basato solo sugli ordini di grandezza, per esempio quando vuole spiegare perché si può trascurare oppure no in un calcolo una grandezza rispetto ad un’altra.
Io penso, Luigi, che dipenda dal fatto che – nel comune parlare – s’intende la velocità della luce nell’aria, o nello spazio cosmico, e in questi casi l’indice di rifrazione relativo al vuoto è (quasi) uguale a 1.
Grazie per il bellissimo articolo, prof.Masiero, veramente un’interessantissima pagina di storia della scienza in cui si percepiscono chiaramente alcuni ingredienti fondamentali che “regolavano” la ricerca scientifica di allora, e che, magari in forma attenuata, si riscontrano anche ai nostri tempi, come per esempio in merito alla competizione personale per la paternità di un’idea o di un risultato sperimentale. Chissà se Dirac si sarà veramente “dimenticato” del lavoro di Fermi. Molto bello anche il riferimento alle ricadute tecnologiche che derivano da certi programmi di ricerca particolarmente fecondi. E’ vero, la scienza naturale è proprio un matrimonio tra mito e disciplina e quindi anche tra idea e risultato, tra teoria e dati sperimentali, matrimonio che in alcune occasioni può essere conciliante, in altre decisamente conflittuale.
Ringrazio anche io Giorgio per quest’articolo che rispecchia molto ciò che mi piace di più nella divulgazione fatta bene (e che penso piaccia a molti): mettere nello stesso testo sia il “dietro le quinte” della Scienza sia le riflessioni di carattere generale.
Il primo elemento serve per segnalare l’importanza della Storia della Scienza, mostrandola come storia fatta principalmente di persone, non di un qualche Spirito del Progresso che non può che manifestarsi ineluttabile; il secondo per indicare meglio dove stia il bello della scienza, nel matrimonio di cui parla Giorgio, senza né speculazioni vuote (tipo Matrix) né tabelle di dati insipide (tipo l’empirismo più radicale).
Ringrazio tutti per le parole di apprezzamento sincero, che sono la migliore ricompensa allo sforzo di contro-divulgazione scientifica che si cerca di fare, in un oceano di disinformazione, di diseducazione logica e di acritica esaltazione.
Come l’ingegner Mojoli, posso anch’io sperare di apprendere sempre più l’argomento anche se però sono molto più svantaggiato. Grazie dott Masiero. Pagina storica bellissima e riportata meravigliosamente.
Comunque, grande orgoglio nazonale Enrico Fermi!
Grazie prof. Masiero, sopratutto perché questo articolo ci fa meglio capire l’attualità dei tre Nobel britannici che non è stata molto capita sui media (proprio ieri vedevo in TV una spiegazione “terra-terra” di Tozzi che con la fisica comunque dovrebbe c’entrarci poco).
Un altro Nobel (teoricamente della “letteratura”) e appena scomparso, ha fatto in tempo a proclamare Darwin il più grande scienziato di sempre, anche se per l’uomo comune il non plus ultra dovrebbe essere Einstein, comunque leggendo di Fermi e degli altri fisici suoi contemporanei, trovo che Darwin sia costretto a collocarsi molto più in basso nella classifica dei grandi scienziati (ammesso che questa abbia un senso, mischiando specialisti di discipline diversissime), se non altro proprio per le ricadute in tecnologia e progresso dell’uomo.
“Mischiare specialisti di discipline diversissime” e trarne una graduatoria di merito è senz’altro scorretto, però in questo caso si può osservare che l’ide(uzz)a di Darwin si capisce in pochi minuti, mentre per capire a fondo la meccanica quantistica, la relatività o il calcolo delle perturbazioni richiede parecchi anni di dura applicazione e una certa predisposizione naturale.
Prof @Masiero perdoni il mio off topic ma giusto ieri sera ho recuperato il suo articolo sulla metafisica medioevale e la fisica moderna e volevo chiederLe se fosse possibile spiegarmi bene la sua idea su un universo discreto. Durante un dibattito con amici e colleghi di facoltà circa l’ipotesi “Matrix” uno dei suoi sostenitori ha sostenuto che se si provasse la natura discreta dell’universo allora sarebbe la prova definitiva che viviamo in una simulazione al computer. Non sono un fisico ma ho sostenuto che anche se si rilevasse la natura discreta dello spazio tempo comunque non si potrebbe arrivare a sostenere la balzana idea di un universo simulato perché comunque non abbiamo creato nulla ma semplicemente potremmo trovare una buona approssimazione per rappresentare lo spazio tempo. Vorrei che mi desse una mano insieme anche ad @Htagliato se possibile. Grazie mille
“se si provasse la natura discreta dell’universo allora sarebbe la prova definitiva che viviamo in una simulazione al computer.”
Detto così, non capisco nemmeno perché la discretizzazione implica la realtà virtuale. Forse prendono spunto dal fatto che tutto ciò che esiste nei nostri computer, smartphone e tablet è composto di 0 e 1, ma
1) c’è più che un salto logico, un vero e proprio volo pindarico tra la discretizzazione e la computazione digitale;
2) la similitudine regge nella nostra epoca con linguaggio macchina basato su 0 e 1, ma un domani potrebbe basarsi sui bit quantistici che permettono combinazioni continue dei due bit principali, per cui non conviene basare una tecnologia futura su quella presente, ci sono salti nel progresso che non possiamo prevedere;
3) parlare in ogni caso di “prova” di una cosa meta-fisica a partire da un’osservazione fisica è sempre sbagliato. Scimmiottando Godel, non possiamo usare il linguaggio (della fisica, in questo caso) per uscire da essa, possiamo solo spingerci ai limiti di ciò che dice, ma anche se lo facciamo, non possiamo scoprire cosa la giustifica.
@Htagliato grazie mille! L’unica cosa che ho potuto dire di fronte a questa provocazione da parte del mi collega è stato che oggi (ab)usiamo della metafora IP ma se chiedo di uscire fuori di metafora cascano tutti perché troppo assuefatti da essa.
Dica ai Suoi amici, William, che “la fisica non sa cosa sia la realtà” (Hawking): immaginiamoci poi se può sapere di sovra-realtà a più livelli! I Suoi amici sono prigionieri di Hollywood, più che di Matrix.
Io non ho un’idea di universo “fisico” – ripeto fisico -, diverso da quello del modello Standard (e del Big bang), anche se so che sono errati.
Colgo al volo l’occasione per porre una domanda a Masiero. Premetto che la mia conoscenza della teoria quantistica dei campi è molto superficiale, avendone al massimi capito le assunzioni e i passaggi che coinvolgono la matematica ma non il senso profondo che, come per ogni teoria, si acquista studiandone nei dettagli le concrete applicazioni. La domanda: è possibile giustificare/dimostrare il principio di esclusione di Pauli oppure dobbiamo accontentarci di accettarlo come un postulato, come ad esempio l’interpretazione probabilistica della meccanica quantistica?
PS. La lettera di Fermi è veramente molto interessante. Dove l’ha trovata? Ce ne sono altre?
Mi trovavo a passare e provo a rispondere.
” è possibile giustificare/dimostrare il principio di esclusione di Pauli oppure dobbiamo accontentarci di accettarlo come un postulato, come ad esempio l’interpretazione probabilistica della meccanica quantistica?”
RISPOSTA BREVE (per tutti): È possibile giustificare/dimostrare il Principio di Esclusione.
RISPOSTA LUNGA (per volenterosi): Si può fare in modo che il Principio di Esclusione di Pauli non sia posto “al vertice” come Principio indimostrabile ma lo si può far derivare dal Principio di Indistinguibilità, cioè il fatto che le particelle elementari (a rigore, in una certa Hamiltoniana) siano indistinguibili, implica che la funzione d’onda complessiva deve essere simmetrica o antisimmetrica per scambio di due particelle. Aggiunge quindi il teorema di spin-statistica che precisa che le particelle a spin semi-intero saranno fermioni e quelle a spin intero bosoni, per cui i fermioni vorranno la funzione d’onda antisimmetrica e viceversa.
Quando infine va a scrivere una funzione d’onda antisimmetrica per N fermioni, scoprirà che deve passare per un determinante di una matrice NxN indicizzato con i valori possibili dei gradi di libertà di ogni particella (in genere posizione e spin); QUI scatta la “magia”: la matematica ci ricorda che il determinante di una matrice è nullo se due righe o due colonne sono uguali, che in questo contesto fisico è proprio il caso di due fermioni con stessa posizione e spin. In breve, si può riformulare il tutto ponendo come Principio l’indistinguibilità, allora il Principio di esclusione diventa un corollario.
@ Cordani
1. “è possibile giustificare/dimostrare il principio di esclusione di Pauli oppure dobbiamo accontentarci di accettarlo come un postulato?”
Bella domanda. La risposta di ogni studente di fisica sarebbe: nella meccanica quantistica (non relativistica) il principio di esclusione è equivalente all’antisimmetria della funzione d’onda per i fermioni e l’uno o l’altra sono postulati la cui validità è corroborata dalle loro predizioni sperimentali; nella teoria quantistica dei campi (QFT) invece, che è relativistica, l’antisimmetria è una conseguenza nel campo di Dirac dell’elettrone delle relazioni di anticommutazione, che a loro volta sono necessarie se vogliamo preservare la causalità. Quindi, in QFT il principio di Pauli è una conseguenza del principio di causalità, direbbe lo studente diligente.
Però, Cordani, si può forse essere come logici-matematici più rigorosi. Perché ci sono fermioni e bosoni?
Io penso che gli assiomi indipendenti in QFT, per le particelle elementari, siano 3: 1) indistinguibilità, 2) Pauli per i fermioni e 3) le due statistiche diverse (di B-E e di F-D) per i bosoni e i fermioni. L’esistenza di due classi diverse di spin poi, è conseguenza del fatto che il gruppo SO(3) non è semplicemente connesso, ma trova copertura nel gruppo semplicemente connesso SU(2), le cui rappresentazioni irriducibili sono caratterizzate da numeri interi e seminteri. Le rappresentazioni irriducibili di SO(3) hanno invece solo spin intero, cosicché possiamo concludere che l’esistenza dei fermioni (oltre ai bosoni) è una conseguenza della struttura topologica non banale del gruppo delle rotazioni nello spazio 3-dimensionale fisico del nostro universo.
2. “dove ha trovato la lettera di Fermi? Ce ne sono altre?”. In “Dirac, a scientific biography” di H. Kragh e in “Enrico Fermi a Firenze, Le Lezioni di Meccanica Razionale al biennio propedeutico agli studi di Ingegneria: 1924-1926”, a cura di Roberto Casalbuoni, Giovanni Frosali, Giuseppe Pelosi.
Dimenticavo: nei due libri citati, potrà trovare riferimenti a libri contenenti molte altre lettere di Fermi.