“Paradiso X canto, Dante incontra Alberto Magno e gli altri spiriti sapienti ” (affresco di Philipp Veit 1824)
La Chimica di Sant Alberto Magno, Doctor Universalis.
By Alfonso Pozio
Introduzione
Oggi ricorre il 735 anniversario dalla morte di Sant’ Alberto Magno. A questo monaco tedesco va riconosciuto un ruolo importante nello sviluppo della Scienza moderna ed in particolare di quella Chimica. Intendiamoci, Alberto è un uomo del suo tempo, non possiede il concetto di atomo e di molecola, non conosce nessuna delle leggi ponderali e la sua tavola degli elementi si limita a sette metalli. Il sua lavoro si basa sull’esperienza (la tecnica) e le idee (la filosofia della natura) di quelli che lo hanno preceduto nell’antichità. Nozioni utili ma, senza il metodo scientifico, spesso anche enormemente fuorvianti e per questo Alberto inizia un processo di revisione sistematica delle fonti e di verifica che pone per iscritto ad uso dei posteri. Insomma, la Scienza come oggi la intendiamo deve a uomini come lui il merito di avere posto le basi necessario al suo futuro sviluppo.
Ci aiuta ricordare quanto ebbe a dire Giovanni Paolo II nel suo primo incontro con scienziati e studenti a Colonia il 15 novembre 1980 in un discorso dal titolo, “La difesa della ragione e la critica alla visione funzionalista della scienza – L’autonomia della scienza, libera per la verità.”, in cui proprio parlando di Alberto Magno disse:
La situazione storico-culturale dell’epoca di Alberto è contrassegnata dalla riscoperta crescente della letteratura aristotelica e della scienza araba. L’occidente cristiano fino ad allora aveva custodito, diffuso e sviluppata scientificamente la tradizione dell’antichità cristiana. Ora si incontrava con una visione complessiva del mondo non cristiana, fondata unicamente su una razionalità profana. Alberto riconosce la richiesta di verità di una scienza razionalmente fondata ed accettandola nei contenuti, completandola, correggendola e sviluppandola nella sua intrinseca esigenza di razionalità egli vede enormemente arricchita la propria comprensione del mondo. Allo stesso tempo, egli non rinnega alcun elemento essenziale della propria tradizione e dei fondamenti della propria fede. Alberto crede intimamente che tra una ragione, che in conformità con la propria natura che le proviene da Dio è ordinata alla verità ed è abilitata alla conoscenza del vero, e una fede, che si rifà alla stessa sorgente divina di ogni verità, non può insorgere alcun conflitto di fondo. Per lui, la fede conferma anzi i diritti propri della ragione naturale, essa li presuppone….Agli uomini di scienza, agli studenti universitari e a tutti voi, oggi qui convenuti, rivolgo un pressante invito e vi prego di avere sempre davanti agli occhi, nelle vostre aspirazioni verso la conoscenza scientifica, il fine ultimo del vostro lavoro e dell’intera vostra vita. A questo scopo vi raccomando particolarmente la virtù della fortezza, la quale difende la scienza in un mondo segnato dal dubbio, dal vuoto di verità e dal bisogno di significati, e della umiltà, mediante la quale noi riconosciamo la finitezza della ragione dinanzi alla verità che la trascende. Sono queste le virtù di Alberto Magno.
Un commento approfondito a questo discorso è quello del Prof. Strumia, ordinario di Fisica Matematica all’Università di Bari che così si conclude:
“Ciò che Alberto Magno fu in grado di realizzare, a partire dalle conoscenze disponibili ai suoi tempi, si ripropone come un esempio anche ai ricercatori di oggi.”
Dando uno sguardo ai titoli delle sue opere, ci si rende conto che la sua cultura ha qualcosa di prodigioso. I suoi interessi enciclopedici lo portarono a occuparsi non solamente di filosofia e di teologia, come altri contemporanei, ma anche di ogni altra disciplina allora conosciuta, dalla fisica alla chimica, dall’astronomia alla mineralogia, dalla botanica alla zoologia. Di lui, i critici moderni hanno scritto:
“Alberto è stato sicuramente, uno dei più straordinari uomini della sua età; si potrebbe dire, uno dei più meravigliosi uomini di genio che sono apparsi in passato ” (Jourdain, Recherches Critiques).
Per questo motivo Papa Pio XII lo nominò patrono dei cultori delle scienze naturali ed è chiamato anche “Doctor universalis” proprio per la vastità dei suoi interessi e del suo sapere. In particolare, in questo contributo scopriremo il ruolo da lui avuto nella storia della chimica analizzando alcuni passi di una delle sue opere più importanti dedicata ai minerali ed alla metallurgia, il “De Mineralibus”. Sorprenderà scoprire che alcune conoscenze della chimica moderna fossero all’epoca già note e comprendere che la pratica alchemica, per quanto non ancora scienza esatta, fosse simile nella sua manualità alla pratica odierna di laboratorio. Certamente, i metodi scientifici adoperati da sant’Alberto Magno non sono elaborati come quelli che si sarebbero affermati nei secoli successivi. Tuttavia il suo modo di procedere basato sull’osservazione, la descrizione, la classificazione dei fenomeni studiati e la verifica attraverso l’esperienza, ha aperto la porta alla definizione del metodo scientifico nel suo sviluppo futuro.
Le origini
Alberto Magno, figlio minore del Conte di Bollstädt, (Lauingen, 1206 – Colonia, 15 novembre 1280), fu un religioso dell’Ordine dei Predicatori domenicani ed è considerato il più grande filosofo e teologo tedesco del medioevo (James A. Weisheipl, Alberto Magno e le Scienze, Ed. ESD, 1994).
Fig. 1 – Alberto Magno, affresco di Tommaso da Modena nella sala capitolare dei domenicani a Treviso (1352).
A sedici anni venne inviato da uno zio prima all’Università di Bologna e poi in quella di Padova per completare gli studi. Il suo ingegno brillò tra i giovani colleghi, e fu notato dal predicatore domenicano Giordano di Sassonia il quale lo attira alla vita religiosa invitandolo ad entrare nel suo Ordine. Entrato nell’ordine domenicano, continuò a dedicarsi agli studi di filosofia naturale e di teologia. Fu nominato maestro a Colonia, Hildesheim, Friburgo, Ratisbona ed infine all’Università di Parigi dove ebbe tra i suoi allievi San Tommaso d’Aquino con il quale instaurò una profonda amicizia.
Una curiosità, Dante Alighieri nel decimo canto del Paradiso incontra Tommaso d’Aquino e Alberto tra i dodici sapienti beati della prima corona. Tommaso cosi dice di Alberto:
“Questi, che m’ è a destra più vicino Frate e maestro fummi, ed esso Alberto è di Cologna”
Nominato nel 1260 da Alessandro IV vescovo di Ratisbona, Alberto si dedicò immediatamente al risanamento finanziario della Diocesi, riorganizzando parrocchie e conventi, contribuendo a dare nuovo impulso alle opere di carità. Rimase alla guida della diocesi soltanto due anni, poi, col benestare del Papa, ritornò all’amata occupazione presso lo studio generale di Colonia, nella qualità di insegnante.
Questo per quanto riguarda l’Alberto religioso ma, come abbiamo detto sopra, egli è patrono degli scienziati oltre che Dottore della Chiesa. Secondo i suoi agiografi, Alberto divenne sapiente in ogni ramo della cultura allora conosciuta tanto da meritare il titolo di “Grande” quando ancora era in vita. Fu un profondo conoscitore delle scienze naturali: fisica, geografia, astronomia, mineralogia, chimica (alchimia), zoologia e fisiologia. Raccolse in una enciclopedia tutta la conoscenza dei suoi tempi. Con rigore scientifico studiò le opere di Aristotele, convinto che tutto ciò che è realmente razionale è compatibile con la fede rivelata nelle Sacre Scritture. Non sorprenda il fatto che Alberto si fosse basato sulle fonti di informazioni che esistevano ai suoi tempi, in particolare sugli scritti scientifici di Aristotele. Tuttavia egli diceva:
“L’obiettivo delle scienze naturali non è semplicemente accettare le dichiarazioni narrate degli altri, ma investigare le cause che sono all’opera in natura” (De Mineralibus Libro II, tr. i, i).
E ancora:
“Dirò ragionevolmente sia quelle cose che ci sono state lasciate dai filosofi che quelle che ho veduto per prova.”
Nel suo trattato sulle piante affermò il principio:
“L’esperimento è l’unica guida sicura in tali indagini”. (De Vegetalibus, VI, tr. ii, i).
Ad esempio, contrariamente a molti alchimisti contemporanei, Alberto non crede nella trasmutazione di un metallo in oro che considera una frode e scrive:
“L’Alchimia non può trasmutare i metalli, ma può solo imitarli. Ho testato l’oro alchemico; ma dopo sei o sette trattamenti termici, si riduce a cenere” (De Mineralibus, 3,9).
In sostanza, come un moderno scienziato, Alberto parte dallo stato dell’arte che all’epoca erano i filosofi antichi, per poi volgersi alle informazioni ottenute sperimentalmente che giudica le uniche sicure. Vediamo qui la nascita del metodo scientifico che assumerà come suo cardine proprio l’esperimento.
Un altro punto di incontro con la scienza moderna è l’esame critico degli scritti dei filosofi a cui si riferiva come punto di partenza. Alberto non esitava a criticare Aristotele quando la sua esperienza lo contraddiceva e asseriva:
“Chiunque creda che Aristotele fosse un dio, deve anche credere che non commise alcun errore. Ma se si crede che Aristotele sia stato un uomo, allora è stato certamente passibile di errori, così come lo siamo noi.” (Physica lib. VIII, tr. 1, xiv).
Alberto dedicò un lungo capitolo a ciò che egli definiva “gli errori di Aristotele” (Sum. Theol. P. II, tr. i, quaest. iv). In una parola, il suo apprezzamento per Aristotele era scientificamente critico. La sua importanza sta nell’avere portato l’insegnamento scientifico del filosofo greco all’attenzione degli studiosi medievali, e soprattutto per aver indicato il metodo e lo spirito in cui tale insegnamento doveva essere recepito.
Ad esempio, la teoria cosmologica di Alberto Magno non segue quella concentrica di Aristotele bensì quella tolemaica con le orbite dei pianeti eccentriche rispetto alla terra. La teoria tolemaica spiega infatti molto meglio di quella aristotelica il movimento delle orbite dei pianeti rispetto alla terra ma, Alberto è cosciente dei limiti anche di questa teoria cosmologica quando afferma:
“I fenomeni celesti sono così lontano da tutto ciò che sappiamo che non abbiamo i mezzi per comprendere perfettamente.” (De Coelo et Mundo 2, 13)
Alberto traccia anche la linea di demarcazione tra scienza naturale e teologia dichiarando:
“Nello studiare la natura non abbiamo a indagare come Dio Creatore può usare le sue creature per compiere miracoli e così manifestare la sua potenza: abbiamo piuttosto a indagare come la Natura con le sue cause immanenti possa esistere” (De Coelo et Mundo, I, tr. iv, x).
Insomma, come il suo contemporaneo, il francescano Ruggero Bacone (1214-1294), Alberto fu un infaticabile studioso della natura ed applicò la stessa energia allo studio delle scienze sperimentali. Coltivò assiduamente le scienze naturali in tutti gli aspetti allora conosciuti. In tutti questi soggetti la sua erudizione era vasta e molte delle sue osservazioni sono tuttora valide.
Ad esempio, Ernst H. F. Meyer scriveva nel 1855 (Geschichte der Botanik, Königsberg, 1855):
“Nessun botanico che sia vissuto prima di Alberto può essere paragonato a lui, tranne Teofrasto, che non conosceva; e dopo di lui nessuno ha dipinto la natura in tali vividi colori, o l’ha studiata così approfonditamente, fino all’arrivo di Conrad von Gesner, e Andrea Cesalpino. Tutti gli onori, dunque, vanno tributati all’uomo che ha fatto tali stupefacenti progressi nella scienza della natura, da non trovare nessuno, non che lo sopravanzi, ma che lo eguagli nei tre secoli successivi.”
Nel suo trattato “Short History of Biology”, Charles Singer cita il “De Animalibus” di Alberto riguardo alle sue osservazioni sugli embrioni di uccelli e pesci e considera il “De Plantis” come il miglior testo di botanica scritto nel Medioevo.
Queste osservazioni come vedremo valgono in parte anche nel campo della chimica, della mineralogia e dei metalli. Alberto fu il primo ad esprimere il concetto di affinità chimica nelle combinazioni tra sostanze come oggi lo interpretiamo. A lui si deve la definizione di fiamma in anticipo rispetto a quella di van Helmont (1577-1644) e la preparazione accurata dell’acido nitrico.
Abbiamo per semplicità suddiviso questo contributo in brevi capitoli ciascuno dedicato ad un elemento o composto chimico per rendere più agevole la lettura. Il testo di riferimento che è stato utilizzato in questa analisi è l’opera composta da cinque libri “De Mineralibus o Delle Cose Minerali e Metalliche” scritta in latino nella metà del 1200. Recentemente, nel 1967 D. Wyckoff ha pubblicato una traduzione in inglese con commento, il suo lavoro estremamente completo è così chiaro che possiamo aggiungere solo qualcosa al suo contributo (Libro dei Minerali di Alberto Magno, traduzione di Dorothy Wyckoff, Oxford 1967). Nella nostra analisi utilizzeremo invece la traduzione in lingua volgare del 1557 di Pietro Lauro (Alberto Magno Sommo filosofo, de cose minerali, e metalliche. Libri cinque) cercando di individuare alcuni aspetti del lavoro di Alberto Magno rilevanti e curiosi da un punto di vista della storia della chimica.
Arsenico
Si pensa che sia stato proprio Alberto Magno il primo, almeno in occidente, ad individuare l’arsenico elementare, nel 1250 ben cinquecento anni prima dal chimico e mineralogista svedese George Brand che lo avrebbe isolato nel 1733. Vediamo il perché di questa ipotesi. Nel suo trattato Alberto così lo definisce:
“Falcone detto anche arsenico, dal volgo oro pigmento che significa la stessa cosa. Si trova sotto forma di specie citrine, rosse”…”Ha la stessa natura dello zolfo a scaldare, disseccare, calcinata con fuoco diventa nera: ma subito con la sublimazione ritorna bianchissima. Calcinandola poi di nuovo diventa nera, e con un’altra sublimazione: facendo così tre o quattro volte diventa tanto corrosivo che posta sopra il rame subito lo buca in più punti”.
(De Mineralibus Libro II, Cap. II, p. 84)
Fig. 2 – Solfuri di arsenico.
Il minerale a cui Alberto si riferisce con il nome “oro pigmento” è il trisolfuro di arsenico. Il nome deriva dal latino auri pigmentum “colorante d’oro”, era infatti utilizzato dai pittori. Nell’antichità questo minerale veniva importato in Europa da giacimenti collocati nel Kurdistan e veniva commercializzato con il nome di orpimento turco; sino in età post-medievale si continuarono ad usare solfuri di arsenico come coloranti. Si rinviene quasi sempre associato ad un altro solfuro appunto di colore rosso, citato nel testo, denominato realgar. Questo nome deriva dall’arabo “rahj al ghar”, che letteralmente significa “polvere di miniera”. Anche questo era molto usato come colore sia nella cultura europea che in quella asiatica. Molti dipinti realizzati nell’antichità hanno cambiato tonalità a causa del fatto che il realgar si altera alla luce del sole.
Fig. 3 – Aludel, piccolo recipiente tronco-conico di argilla, aperto alle estremità, in modo che più recipienti si possono imboccare l’uno sull’altro formando una colonna, lunga a piacere, usata per condensare i vapori di metalli o di composti capaci di sublimare (da M. Fumagalli, Dizionario di Alchimia e di Farmaceutica Antiquaria, ed. Mediterranee 2000).
Qui Alberto descrive la pratica alchemica che consiste nel porre il minerale in un vaso in gres detto alutel o aludel (Fig. 3) circondando il becco di uscita con della tela bagnata. Il minerale contenente arsenico viene sottoposto ad arrostimento. L’arsenico metallico sublima senza fondere alla temperatura di 613 ºC e successivamente condensa sulle pareti fredde del becco del recipiente, lasciando come residuo solido il solfuro ferroso sul fondo del reattore. L’arsenico metallico così prodotto è bianco ma esposto all’aria si ossida rapidamente assumendo un colore nero. Attraverso vari passaggi (quattro secondo Alberto) di arrostimento e sublimazione è possibile purificarlo fino a produrre arsenico puro. Ovviamente a secondo del grado di purezza del prodotto varia la reattività dello stesso. L’Arsenico prodotto dopo vari passaggi è, secondo Alberto, talmente reattivo da forare il rame. Il testo non lascia intendere se l’arsenico appena prodotto sia posto a contatto del rame. Si precisa però che l’elemento ha proprietà di ustionare tutti i metalli eccetto l’oro. Il testo poi continua così:
“posto sopra il rame lo fa diventare bianco perciò se ne servono quelli che falsificano il rame per renderlo simile all’argento, in quanto produce un ottimo effetto” (De Mineralibus Libro II, Cap. II, p. 84)
Si tratta della descrizione di un metodo di adulterazione del rame stesso. L’arsenico a contatto con il rame forma una lega metallica detta appunto rame bianco. Alberto spiega come sia possibile in tal modo falsificare il rame rendendolo simile all’aspetto al più prezioso argento. In sostanza si tratta di sporcare la superficie del rame con l’arsenico prodotto e riscaldando si ottiene una colorazione superficiale bianca costituita dalla lega rame arsenico.
In un altro parte del lavoro dedicato al rame Alberto descrive nuovamente la procedura:
“L’arsenico calcinato si fa da nero a rosso ma poi essendo sublimato nell’aludel, vaso coperto con il collo alto, come si è detto spesso ritorna bianco come neve; replicando più volte questa calcinazione, sublimazione, diventerà acutissimo, candidissimo; si che con questa sua acutezza unito al metallo, penetra in quello, lo fa divenire bianco; ma tenendo lungamente il rame nel fuoco, quell’arsenico svanisce, il rame ritorna al suo primo colore come si è provato nelle opere alchimistiche.”
(De Mineralibus Libro IV, Cap. V, p. 141)
In questo brano Alberto ribadisce la necessità di purificazione dell’arsenico elementare (bianco) a partire dall’ossido (nero) attraverso calcinazioni e sublimazioni successive. In aggiunta, qui viene descritta la formazione della lega rame-arsenico ed una sua eventuale individuazione ed eliminazione per trattamento termico ad alta temperatura la stessa lega. In chiave moderna diremmo che Alberto sta indicando un metodo per il controllo della qualità.
Solfuro di Mercurio
Il Solfuro di Mercurio, cinabro o azurium ha origini molto antiche. Geber, famoso chimico, alchimista, arabo del secolo VIII, osservò per primo che lo zolfo con il mercurio per sublimazione forma il cinabro, in arabo “uzufur”. Alberto conosce molto bene gli alchimisti arabi e in un’altra opera di cui si è ipotizzato sia autore, il “Compositum de compositis”, descrive minutamente la preparazione del cinabro definito dall’arabo azurium o azur. In questo brano ne ripropone la sintesi:
“Ma l’argento vivo con zolfo, sale armoniaco sublimato si muta in polvere rossa, e risplendente, nuovamente arso nel fuoco ritorna a quella sostanza…e forse quella parte, che si soffoca nel collo del vaso in cui avviene la sublimazione, si trasforma in un minerale simile all’alabastro: essendo lungamente arso torna all’argento vivo”.
(De Mineralibus Libro IV, Cap. I, p. 135)
Fig. 4 – Cinabro o Cinnabrite, Minerale di Solfuro di Mercurio.
Nel metodo descritto il sale si ricava a secco amalgamando zolfo e mercurio (che gli alchimisti chiamavano argento vivo) in presenza di sale armoniaco sublimato e riscaldando ad alta temperatura. Fino ad ottenere la sublimazione del composto stesso sul collo dell’aludel. In sostanza dopo un primo lieve riscaldamento il recipiente, una volta tappato, veniva portato ad alta temperatura fino a far diventare il collo rosso. Una volta raffreddato il pigmento veniva raccolto e lavato una prima volta con liscivia per diminuire lo zolfo libero, e lavato una seconda volta poi in acqua e macinato sottilmente. Alberto spiega anche che tramite arrostimento e successiva condensazione, si poteva estrarre nuovamente il mercurio.
Il testo specifica la presenza del sale armoniaco sublimato. Questo composto altro non è che cloruro di ammonio. Questo sale veniva prodotto insieme al carbonato di ammonio a partire dall’urina di animali ruminanti attraverso un processo misto di putrefazione e successiva distillazione e sublimazione. Anticamente si otteneva per sublimazione su muri e soffitti dei vapori prodotti dalla combustione delle feci dei cammelli. E’ noto che riscaldando il cloruro di ammonio a temperatura superiore ai 30 ºC sublima decomponendosi in buona parte in ammoniaca e acido cloridrico. Ma, il cloruro di ammonio secco, a caldo, è fortemente aggressivo nei confronti di molti metalli; ciò è dovuto alla presenza dello ione ammonio capace di rilasciare un protone. La sua presenza dovrebbe favorire dunque l’ossidazione del mercurio metallico ad Hg(II) velocizzando la reazione di formazione del cinabro ed aumentando la resa.
Un ultima curiosità, nel Dizionario di alchimia e di chimica antiquaria di Gino Testi (Ed. Mediterranee 1980) si trova citato l’azurium di Alberto Magno e la sua composizione, 2 p. di mercurio, 1 di zolfo ed 1 di cloruro di ammonio.
Acetato di Piombo.
In questo brano Alberto descrive la formazione di un composto detto sbiacca che non ha nulla a che fare con la biacca (carbonato basico di piombo) se non il colore e lo stato di ossidazione del Piombo (II):
“Hermete, che fece molte esperienze quanto alla trasmutazione dei metalli, dice nella sua Alchimia, che una lama di piombo posta sopra un vaso di forte aceto, si che il vapore di questo aceto percuota sempre la lama, corromperà in tal modo la sostanza del piombo e la muterà in polvere di colore bianco detta sbiacca: e spargendo aceto sulla lama quella diventerà molto bianca.”
(De Mineralibus Libro IV, Cap. II, p. 136)
Alberto descrive la formazione dell’acetato di piombo secondo il metodo ricavato dagli scritti di Ermete Trismegisto, personaggio leggendario dell’età ellenistica la cui opera nota come “Corpus hermeticum”, ebbe grande credito e fu molto popolare tra gli alchimisti del medioevo. La lamina di piombo viene posta sopra un vaso contenente aceto. L’acido acetico contenuto in un aceto di vino è compresa tra 7-10 % ed evaporando produce la reazione di ossidazione del piombo con formazione di acetato di piombo una polvere di colore bianco. Lo stesso effetto si ottiene in maniera rapida immergendo il piombo nell’aceto e rendendolo così di colore bianco. L’acetato di piombo è dolce al gusto; nell’antica Roma era il principale componente dello zucchero di Saturno, un dolcificante prodotto facendo bollire e concentrare il mosto in pentoloni di piombo.
Acido Solforico
In questo brano Alberto parla di un minerale, la marcasite, un solfuro di ferro simile alla pirite (ma più leggero e fragile) e ugualmente usato per l’estrazione dell’acido solforico.
“Diciamo dunque che la marcasite possiede due sostanze nella sua composizione; di argento vivo modificato approssimante alla fusione; di zolfo che brucia. E che vi sia in questo minerale lo zolfo si capisce con un esperimento; quando il minerale viene sublimato stilla una sostanza sulfurea che si brucia. E si capisce la presenza di zolfo senza la sublimazione dal fatto che scaldata alla fiamma, non si infiamma se prima non brucia lo zolfo. Si vede poi la presenza dell’argento vivo dal fatto che riduce il rame alla bianchezza dell’argento vivo, poiché è in esso argento vivo: che nella sublimazione induce il colore celeste; che possiede una lucentezza metallica evidente”
(De Mineralibus Libro V, Cap. V, p. 151)
Fig. 5 – Marcasite, minerale di solfuro di ferro.
Come è noto, la scoperta dell’acido solforico (vetriolo) risale al IX secolo ed è attribuita al medico ed alchimista persiano Ibn Zakariya al-Razi, che lo ottenne per distillazione a secco di minerali contenenti ferro (II) solfato eptaidrato noto come vetriolo verde e rame (II) solfato pentaidrato noto come vetriolo azzurro. La produzione dal vetriolo si diffuse in Europa attraverso la traduzione degli scritti di fonte islamica, per questo l’acido solforico era noto agli alchimisti europei nel medioevo con nomi come olio di vetriolo o spirito di vetriolo. Qui Alberto dimostra di conoscere il processo di produzione quando afferma che scaldando il minerale “stilla da quello una sostanza sulfurea”.
Argento
In questo brano si parla dell’estrazione dell’argento dai minerali che lo contengono:
“L’argento si estrae nel fuoco con il piombo, il quale per fusione lo estrae; le sozzure si separano dall’argento”
(De Mineralibus Libro IV, Cap. IV, p. 140)
Il processo descritto da Alberto è definito coppellazione, si tratta di una particolare lavorazione metallurgica che permetteva di ottenere grandi quantità d’argento dalla lavorazione del piombo.
La coppellazione avveniva fondendo il minerale di piombo in presenza di aria in un crogiolo poroso e resistente al calore: il piombo si liquefa, solubilizzando tutte le impurezze (sozzure), e viene lentamente assorbito dal recipiente poroso mentre, l’argento galleggia in superficie.
Va specificato che Alberto dedica numerose pagine dell’opera all’estrazione ed alla fusione dei metalli la cui pratica era la parte più antica dell’alchimia. La fusione dei metalli pone ad Anselmo un interrogativo circa la loro natura. L’elemento distintivo del metallo rispetto a tutti gli altri elementi naturali conosciuti che Alberto definisce genericamente pietre è quello di potersi fondere e separare. I metalli conosciuti da Alberto sono, l’oro, l’argento, il rame, lo stagno, il piombo, il ferro ed il mercurio (argento vivo). Egli osserva che tutti questi elementi possono trovarsi mescolati a pietre (minerali), alcuni allo stato nativo. In ogni caso l’esperienza gli conferma che la pietra non fonde, al contrario del metallo. Si tratta a questo punto di capirne la ragione. Il liquidi per eccellenza di riferimento a cui si può riferire Alberto sono essenzialmente due: l’acqua e l’olio. Alberto osserva come le proprietà del metallo fuso si distinguano da quelle dei liquidi a lui noti. L’acqua sottoposta ad una fonte di calore evapora, l’olio brucia lasciando un residuo. Il metallo fuso non si comporta in nessuno dei due modi. A differenza dell’acqua e dell’olio poi il metallo fuso non impregna le superfici su cui viene versato. Ad un contemporaneo queste osservazioni sembreranno banali ma se consideriamo l’epoca in cui furono scritte non lo sono affatto. Va precisato che per le conoscenze dell’epoca tutti i metalli conosciuti si ritenevano come originati da due elementi base lo zolfo ed il mercurio.
Ottone
In questo brano si descrive la preparazione della lega ottone. L’ottone è una lega rame-zinco con un titolo di zinco oscillante tra il 36 e 45%. Ovviamente all’epoca non si conosceva lo zinco e quindi l’ottone era semplicemente rame le cui proprietà apparivano modificate dopo il processo illustrato.
“Ho visto fare l’esperienza di mutazione del rame in ottone, con la polvere della pietra calaminare: quando la pietra svapora, vi resta tuttavia uno splendore oscuro, che piega alquanto al colore dell’oro. Ma volendo fare più bianco, sicché si rassomigli più alla giallezza dell’oro, vi mescolano alquanto stagno: in tal al modo il rame perde la sua malleabilità”
(De Mineralibus Libro IV, Cap. V, p. 141)
Fig. 5 – Minerali di Calamina.
La pietra Calaminare detta anche Calamina o Giallamina perché scaldata emanava un vapore giallo, è un silicato basico di zinco. Si tratta di un minerale, di colore bianco, ma spesso colorato da impurità in giallo, rosso, verde e azzurrino, con lucentezza vitrea si trova spesso misto a smithsonite (carbonato di zinco). La tecnica prevedeva il riscaldamento di rame e calamina in un crogiolo chiuso contenente carbone. Il calore e l’ambiente riducente portava lo zinco allo stato metallico. L’ossido di zinco si presenta come un solido incolore, dall’interessante effetto termocromico, ovvero quando scaldato a elevate temperature, cambia di colore diventando giallo, mentre quando viene raffreddato torna nuovamente bianco. Lo zinco volatilizzandosi (da qui il vapore giallo) al di sopra dei 907°C diffondeva e veniva poi assorbito dal rame, formando così un ottone superficiale che impartiva una colorazione dorata al rame stesso. Aggiungendo stagno si otteneva un bronzo ovvero una lega ternaria rame/stagno/zinco che a secondo della quantità di stagno introdotto aveva colorazioni diverse. Il testo prosegue nella descrizione:
“I falsari per rendere il rame simile all’oro, scaldano il rame a contatto della pietra per lungo tempo fino ad estrarre tutto il vapore: per fare questo introducono vetro polverizzato sopra il rame: il vetro polverizzato galleggia sul fuso ed impedisce al vapore che esce dalla pietra di volatilizzarsi: in questo modo il metallo trattiene le proprietà della pietra purgandosi per lungo tempo, alla fine si esaurisce la pietra e si ottiene uno splendido ottone. Ma chi vuole rendere l’ottone più simile all’oro, ripete queste procedure aggiungendo olio di vetro e inserisce al posto dello stagno l’argento in tal modo da far credere che sia oro e non ottone“
(De Mineralibus Libro IV, Cap. V, p. 142)
Qui Alberto descrive un metodo ingegnoso per produrre un ottone che poteva essere colato in stampi o forgiato e simile nell’aspetto all’oro. Si consideri che formare una lega rame zinco per fusione è complesso in quanto lo zinco ha un punto di fusione più basso rispetto al rame (1083°C), per cui la maggior parte dello zinco tende ad evaporare. La tecnica descritta consiste nello spargere polvere di vetro all’interno del crogiuolo. La polvere di vetro funge da tappo, galleggiando sul fuso, in tal modo si impedisce la volatilizzazione dello zinco che si fonde con il rame all’interno del crogiolo e può essere colato in stampi producendo un materiale simile all’oro. Regolando la quantità di minerale era possibile aumentare o ridurre il tenore di zinco. E’ curioso osservare che attualmente, le leghe rame zinco con tenori di zinco fino al 30% in peso sono denominate “similori” proprio per il loro aspetto simile a quello del metallo prezioso, e sono usate per la bigiotteria. Per capire la modernità di questo processo si pensi che, ancora oggi nella saldatura degli ottoni si usano bacchette di ottone contenti piccoli tenori di silicio che formano un velo protettivo di SiO2 (vetro) sul punto di fusione evitando così la volatilizzazione dello zinco (E. Rinaldi, Saldatura e Taglio dei Metalli, Ed. Hoepli, Milano, 1987, 417).
Alberto svela un ulteriore trucco per rendere la lega ternaria rame/zinco/stagno simile all’oro. Si ripete più volte il processo con acido solforico (olio di vetro) ed inserendo argento al posto dello stagno si ottiene una lega ancora più splendente e simile nell’aspetto all’oro puro. Probabilmente, l’acido solforico decompone il minerale di partenza facilitando l’estrazione dello zinco.
Ossido di Zinco.
Alberto, non conosce lo zinco metallico ma, come abbiamo già accennato, utilizza minerali a base di zinco per produrre l’ottone. Oltre la sopra citata pietra calamina nel suo trattato nomina la Tuzia o Tucia definendola, “mistura artificiale e non naturale”. Si tratta di ossido di zinco che mescolato con il rame da lo stesso effetto di doratura della pietra calamina. Alberto osserva dunque che anche inserendo Tuzia polverizzata nel fuso di ottone e possibile ottenere color oro. Il monaco tedesco dunque è stato il primo osservatore a distinguere tra calamina e tuzia ciò è degno di nota se si considera che l’uso dell’ossido di zinco non ebbe sviluppo fino al sedicesimo secolo. Nel testo troviamo scritto:
“La Tuzia che è molto in uso come mistura artificiale e non naturale…si forma nel processo di purificazione del rame e dello stagno dalle pietre sia per sublimazione ed è la migliore e sia come residuo non sublimato e prende il nome di chimio”
(De Mineralibus Libro V, Cap. VII, p. 151)
In sostanza, Alberto descrive la sintesi dell’ossido di zinco affermando che il composto viene originata dal fumo che aderisce alle pareti nel processo di purificazione del rame. I minerali del rame a cui Alberto si riferisce sono quelli presenti in Germania i quali contengono sia zinco che stagno. Quindi, l’ossido di zinco si produce dalla volatilizzazione (907°C), ossidazione e successiva condensazione dello zinco presente nel fumo che aderisce ai lati delle fucine delle fornaci in cui si fonde rame e stagno.
Fig. 6 – Alchimista al lavoro (affresco del XV secolo).
Sali del rame.
In questo brano Alberto conferma l’esperienza di Hermete Trimegisto descrivendo la formazione di alcuni sali di rame.
“Hermete, di cui si conferma l’esperienza dice che spargendo sul rame del sale e ponendolo sopra un vaso di aceto o di urina si ottiene la formazione di una sostanza verde. Inoltre ponendo del rame su delle vinacce per effetto del vapore emesso da queste muteranno il colore del rame in un verde ottimo e lucente. Ponendo su questo sostanza verde oro pigmento o arsenico particolarmente adusto e si ridurrà la lucentezza del verde ottenendo una tonalità particolare più scura”
(De Mineralibus Libro IV, Cap. V, p. 142)
In questo passaggio Alberto descrive la formazione di sali di rame di colore verde intenso per reazione del rame con salgemma e vapori di acidi organici tra cui l’acido acetico, l’acido urico, o acidi di derivazione vegetale. Il metodo più semplice per ottenere questi sali verdi è proprio quello di mettere del sale sul metallo lasciarlo esposto all’umidità dell’aria, ai vapori acidi dell’aceto o dell’urina. Ponendo sale sopra il rame in presenza di umidità si ha la formazione del cloruro rameico che a temperatura ambiente si presenta come una polvere verde molto solubile in acqua, con un aspetto cristallino e colore verde-azzurro. In alternativa, l’acido acetico evaporando può formare acetato di rame reagendo abbastanza facilmente con l’ossido di rame:
Anche questo composto a temperatura ambiente si presenta come un solido verde inodore.
Successivamente si descrive come per trattamento con solfuro di arsenico (oro pigmento) o arsenico metallico è possibile ottenere un verde particolare, più scuro. E’ interessante notare che Leonardo da Vinci nel XV secolo propose l’utilizzo come pigmento pittorico di una polvere di solfuro d’arsenico e acetato di rame (verderame) che pare molto simile a quella descritta da Alberto. Che l’abbia usata in alcuni dipinti come la famosa Dama con l‘Ermellino è un ipotesi suggestiva.
Fig. 7 – Dama con l’Ermellino. Olio su Tavola, Leonardo da Vinci.
Un pigmento verde a base di Arsenico è il così detto verde di Scheele sintetizzato dal farmacista svedese Cari Wilhelm Scheele nel 1775. Si tratta dell’arsenito di rame ottenuto dalla precipitazione di solfato di rame con arsenito potassico.
Un altro pigmento che ricorda quello di Alberto è quello prodotto nel 1814 dai chimici Wilhelm Sattler e Friedrich Russ (verde di Germania o verde di Basilea). Si tratta dell’acetoarsenito di rame, i cui cristalli di un bel verde brillante, sono derivati dalla reazione del verderame sciolto in aceto con arsenico bianco e carbonato di sodio. Il colore è verde bluastro (acqua marina) e, rispetto al verde di Scheele, presenta una maggiore stabilità. Sull’uso di questi pigmenti nella sartoria e nella tappezzeria si è ipotizzata una influenza nefasta nel corso del XIX secolo dovuta proprio all’avvelenamento da Arsenico.
La calamita.
Un ultima curiosità più fisica che chimica la troviamo nel terzo trattato del secondo libro in cui Alberto cita il libro delle Pietre di Aristotele in cui si parla della calamita.
“Aristotele afferma, nel libro delle pietre, che una certa calamita ha il potere di orientare un pezzo di ferro in modo tale che un lato volge a nord, e questo sistema è utilizzato dai marinai, e un altro lato a sud. Avvicinando del ferro al nord della calamita questo poi volgerà a nord ed avvicinato del ferro al sud della calamità questo poi volgerà al sud. Dice ancora Aristotele che se una o più calamite sono disposte con un certo ordine sopra o sotto un pezzo di ferro senza toccarlo così che venga influenzato, esso rimarrà sospeso”
(De Mineralibus Libro II, Cap. III, p. 141)
Rifacendosi all’opera del filosofo greco, in questo passaggio si descrive il funzionamento di una bussola ed il suo utilizzo in ambito marinaro. Curiosamente si ritiene oggi che gli antichi greci non la conoscessero e non la applicassero in ambito marittimo. Al contrario l’osservazione delle fonti di Alberto prova con certezza che così non era. I Greci conoscevano il magnetismo ed avevano il concetto di polarità magnetica e la caratteristica di poter magnetizzare il ferro avvicinandolo alla magnetite. Alberto descrive addirittura la possibilità, utilizzando il magnetismo, di tenere sospeso nell’aria ed in equilibrio del ferro.
Conclusioni.
Il testo in esame evidenzia la conoscenza di numerose altre sostanze chimiche tra cui, salgemma, nitrato di potassio, allume, etc. Oltre questo vi sono osservazioni significative circa gli effetti dei metalli sulla salute, in particolare sull’avvelenamento da piombo e da mercurio e sulla caratteristica dei recipienti di rame di alterare il sapore dei liquidi. Si tratta della prima descrizione nella letteratura occidentale di queste affezioni. Alberto rivela un notevole istinto nei confronti della base chimica dei processi metallurgici. Limitandoci agli esempi tratti dal De Mineralibus se ne evidenzia la sua attualità. Infatti, pur nei limiti delle conoscenze e delle risorse del tempo non si può non osservare nei suoi scritti una mentalità “scientifica” e non riconoscere il modus operandi proprio della chimica. A distanza di secoli il riconoscimento della scienza chimica a quello che ne è stato uno dei precursori non può che essere unanime. Nella pratica come nella teoria Alberto riconobbe che lo spirito della scienza naturale non consiste nella semplice accettazione delle altrui affermazioni, ma nell’investigare le cause che operano in natura.
Possiamo concludere questo tributo al “Doctor Universalis” con le parole che chiudono l’opera citata in cui da uomo di scienza Alberto considera il suo lavoro semplicemente come punto di partenza per quelli che lo seguiranno:
“Et per quanto s’è detto potrà ogni uomo di ingegno conoscer quelle, che non sono da me in questo Libro nominate.”
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L’approccio sperimentalista e rigoroso di Alberto Magno, descritto in questo articolo in modo dettagliato per il campo chimico, ma che si potrebbe estendere agli altri settori della filosofia naturale che sono stati solo citati, dovrebbe – penso – far ricredere chi è stato educato a pensare al Medio evo come ad una successione di secoli bui ed ignoranti.
La scienza non è nata nel secolo x o y, ma è un progresso che si sviluppa ininterrottamente sulle conoscenze, le prove, gli errori e le tecniche che la specie umana ha accumulato fin dalla sua comparsa. Appartiene solo alla vanità dei moderni credere di aver inventato qualcosa di nuovo, il che naturalmente accadrebbe ad ogni secolo, essendo il concetto di moderno transeunte col tempo ed il moderno di oggi essendo destinato a diventare il passato di domani! Così il Rinascimento si considerava superiore al Medio evo, l’Illuminismo al Rinascimento, ecc., per non parlare di noi contemporanei che, ogni settimana, facciamo una scoperta sensazionale che fa impallidire la scienza della settimana prima…
La velocità con cui le innovazioni ci stanno stupendo giorno dopo giorno supera di gran lunga quel che hanno vissuto nei secoli scorsi i nostri parenti umani… E se è come dice lei, Masiero, ne vedremo delle belle e ne vedranno delle belle i nostri figli e i figli dei nostri figli… In questi giorni tristi in cui la barbarie ci è stata molto vicino, è bello pensare a una scienza che potrà anche tirar fuori l’uomo dalle secche dell’istinto che, come ha detto papa Francesco, porta a dimostrazioni che non hanno nulla di umano… Scusate l’OT, ma le considerazioni del prof. Masiero mi hanno stimolato in questo senso.
Io non ho la Sua fiducia, Cipriani, che la scienza possa fare qualcosa, anche un solo iota, per “tirar fuori l’uomo dalle secche dell’istinto”. Il male, questo mostro tanto reale quanto inspiegato, ecco, io penso che possa essere solo dilatato nelle sue conseguenze dalla potenza della tecnica…
So che è sempre l’uomo a fare la differenza, nel bene e nel male. Per una volta, da agnostico, voglio osare aver fede che sarà il bene a prevalere, anche con l’aiuto di quel progresso a 360 gradi che coinvolge tutte le risorse che sappiamo mettere in gioco, compresa una scienza indirizzata solo al bene dell’uomo… Utopia? Forse sì, ma sperarci non costa nulla.
Toh, scava, scava, il nostro Cipriani crede nella causa finale, in questo caso per lui rappresentata dalla “scienza”. Eppoi va ripetendoci che tutto è casuale…. 😉
Giuseppe scrive
“voglio osare aver fede che sarà il bene a prevalere”
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Prima dovresti definire cosa sia il “bene” Giuseppe, e spogliarti quindi per un attimo dei panni del relativista. Se infatti mantieni quei panni ciò per te e’ il Bene con la B maiuscola per un altro potrebbe essere il Male con la M maiuscola.
Per esempio per me il bene potrebbe sostanziarsi nel giocare a fare il novello Mengele con zingari e barboni. Come mi dimostreresti che io sono in torto? Visto che hai parlato di bene (che per un relativista e’ relativo, quindi non definibile), ora sei costretto a darne una definizione, altrimenti cadi in contraddizione con quanto hai scritto.
Potresti scrivermi che “ci siamo evoluti così, per essere animali sociali e aiutarci al fine di preservare la specie”, ma ti anticipo che di fronte ad una replica simile io potrei ben rispondere che il mio desiderio è quello di affrancarmi dai patterns evolutivi imposti da un meccanismo (quello evolutivo appunto) del tutto neutrale e indifferente, in una situazione simile il mio ribellarmi ai “buoni” doveri imposti dall’evoluzione sarebbe anzi quasi una presi di autocoscienza di quello che (secondo tale visione) non sarebbe altro che un robot biologico senz’anima ne’ libertà, per poter veramente essere libero.
Perciò trova un’altra replica, che questa l’ho già smontata. 😉
Simon…
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sarebbe interessante capire perché un finalismo positivo relativo all’uomo dovrebbe essere in contraddizione col concetto di “casuale”, nel senso che si va ripetendo qui su CS da mesi, ma che dico mesi? anni!
Vincent… non capisco perché dovrei definire il bene per giustificare quel che ho affermato. Sarebbe interessante confrontarci (te credente forte, io agnostico spirituale), per esempio, sul bene parametrato sui 10 comandamenti. Ma siamo OT, purtroppo, e non si può fare…
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Ma una domanda te la faccio: definiscimi tu il bene che è bene per te in una frase circostanziata, chiara e, soprattutto, espressione di verità oggettiva.
Giuseppe, ad esempio, una legge morale oggettivamente giusta per me è
« Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti. »
(Gesù nel discorso della Montagna, dal Vangelo secondo Matteo 7,12)
Questa e’ una delle tante leggi oggettivamente giuste, ma solo se appoggiate ad un “totalmente altro”, perché in ambito relativista non c’è una ragione cogente per seguire questo precetto. Seguirlo non è altro che mera opinione personale, che ha lo stesso valore di uno che raccatta zingari per fare il novello Mengele. Non c’è nessuna differenza, in un paradigma relativista, tra le due azioni.
Ma prendiamo ad esempio un abile squalo della finanza: egli non vorrebbe che qualcuno lo inculasse come lui inculca gli altri, eppure lui trae un beneficio enorme dai suoi raggiri, trae molto più beneficio (materiale) dall’operare quei raggiri che dal non operarli.
Pertanto, anche qui, un relativista che decide di essere onesto, buono eccetera non può non riconoscere che la sua decisione e’ basata sul nulla, che non ha nessun fondamento razionale. Conclusione inevitabile quando la Verità non esiste o, se esiste, non è conoscibile.
Un altro insegnamento (come tutti quelli di Cristo, per me) oggettivamente giusto e’ «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». » (Luca 10,25-28)
Tutto ciò in una prospettiva nella quale non solo la Verità esiste, ma si rende conoscibile dagli uomini e soprattuto ha in serbo UN FINE per loro. Inutile dire che una vita senza senso di un povero animale venuto dal nulla e destinato al nulla non ha alcuno scopo, e comandamenti come questi non avrebbero alcun valore in se (sebbene la nostra mente potrebbe definirli giusti razionalmente) poiché non sarebbero altro che l’esplicazione di “programmazioni” evolutive atte a far sopravvivere la specie, in altre parole un colossale inganno di un meccanismo, l’evoluzione (intesa in senso neodarwinista) tanto neutrale quanto crudele.
In tale prospettiva nulla avrebbe valore, è da Paolinista convinto direi “mangiamo e beviamo perché domani moriremo”.
Anche da non credente, e fin da piccolo (sul serio, ho ricordi di quando avevo 2/3 anni) sono sempre stato ossessionato dalla morte, dalla prospettiva della morte intesa come annichilimento, poi (e qui mi ricollego a Paolo) anche io come Paolo ho avuto un’esperienza di conversione non “naturale”, dovuta all’interazione tra questo mondo e il mondo dell’inconoscibile, forse è per questo che mi definisci “credente forte”, perché tale esperienza (sebbene molto negativa e dalla quale sono uacito solo grazie alla Chiesa) mi ha reso inevitabilmente sicuro della Verità. Ma prima la mia ossessione per la morte era ben presente, e infatti vi ero una vita nichilista, improntata allo sfascio più totale, tanto pensavo “se tutto è fatuo e passeggero che senso ha, meglio non legarsi a nessuno, meglio prendere tutto alla leggera, meno sofferenza”.
Pertanto, Giuseppe, quelli che ti ho indicato sopra sono solo alcuni insegnamenti che ritengo oggettivamente giusti, ma possono esserlo solo se fondati sul senso, sulla Verità.
Altrimenti non sarebbero altro che mere opinioni.
Sarebbe bello approfondire, ma ci vorrebbe troppo tempo. Chiaro che non posso essere d’accordo, per me l’etica prescinde dai dogmi e dalle imposizioni, per quanto possano essere considerate fonti di verita al di sopra di tutto. Opinione tua.
Il fatto, Giuseppe, e’ che la tua etica può essere contrapposta a quella di un altro che vede etico il sacrificio umano, ad esempio. Questi sono alcuni problemi dell’etica soggettiva/relativa, se non è fondata su null’altro che sui pareri umani che fondamenfo ha? Personale? Benissimo, ma allora nessuno critichi JOSEPH MENGELE sul piano umano. Oppure lo si può criticare, BEN consci che lui potrebbe rivolgere le stesse critiche per esempio ad un missionario cristiano, che per lui svolgerebbe una funzione immorale, e nessuno potrebbe constrastarlo.
Insomma, nel regno delle opinioni come si afferma la verità? Con la forza della maggioranza, e infatti ad esempio P alcuni qui portano tesi pseudoscientifiche per avvalorare gender e robe simili, ma se fossero vissuti ai tempi nei quali la scienza avvalorava le teorie della razza avrebbero fatto lo stesso.
Non è questione di dogmi, Giuseppe, col relativismo si avanza come da ciechi senza bastone, e per andare avanti ci si crea dei “propri” assoluti che però, razionalmente, non hanno motivo di essere sostenuti.
Credo che il tuo grosso limite, caro Vincent, sia quello di identificare l’etica senza Dio in un etica senza morale… il che per me è inconcepibile. Alla fine rimane la “tua” etica, nulla di più. Fondala su quel che ti pare, ma ha avuto i suoi bei limiti, in quanto la morale che ritieni eterna è cambiata con i tempi, lo ha dimostrato la storia!
Adesso chiudiamola dai! Avremo modo di sviscerare il nostro sentire più intimo col passare del tempo, degli argomenti proposti dal nostro caro ospite, l’oste Enzo, che dei nostri OT dovrebbe aver le scatole piene.
Giuseppe, confondi anche qui assolutismo e oggettivismo, e si che Simon ha spiegato bene la differenza.
Vorrei fare un paio di commenti rapidissimi.
(1) Il numero delle innovazioni e delle scoperte addirittura aumenta in modo esponenziale: ma quel che è esponenziale sembra molto lento vicino all’origine. È un effetto di errore di prospettiva credere che il processo era “lento” al tempo dei romani o del medio-evo, in quanto è sempre stato esponenziale fin dall’inizio dei tempi preistorici.
(2) La quantità di innovazioni sembra seguire, grosso modo, il numero di umani sul pianeta, il che fa senso visto che se ci sono più teste dedicate a pensare e ad innovare per forza la quantità di innovazioni cresce. Vedremo se la tendenza continuerà ad essere esponenziale adesso che si desidera limitare il numero di umani: probabilmente diventerà lineare
(3)Alberto il Grande fu il Maestro di Tommaso d’Aquino che nell’aristotelismo trovò il giusto approccio per conciliare il metodo induttivo a quello deduttivo. Il fatto però che il discorso scientifico di Alberto Magno non continuò a svilupparsi più rapidamente nei due-tre secoli seguenti tiene più al fatto che la tecnologia, che è dipendente dai finanziamenti, in un’economia a somma zero che è attenta all’utilità diretta di uno sviluppo qualunque, ha stallato quanto alla capacità di concezione e di produzione di nuovi strumenti di misura.
Costava meno speculare intellettualmente che sviluppare tecnologia concreta e costosa.
Probabilmente la scoperta delle Americhe e l’apporto consecutivo di ricchezze permise lo sviluppo di tecnologie a scopo più direttamente scientifico/speculativo nei decenni e secoli successivi permettendo l’ignizione di un cerchio virtuoso tra economia, scienza e tecnologia.
Davvero interessante, Simon… Non avevo pensato all’esponenziale relativo ai tempi (e al numero di umani). Quasi geniale.
Oltre il discorso numerico ne butto li un altra che cmq è collegata.
L’invenzione della stampa (qualche anno prima della scoperta dell’America) a caratteri mobili credo sia stato uno dei punti dello sviluppo. La conoscenza non poteva diffondersi senza un veicolo opportuno, esteso e a basso costo. Il metodo scientifico in se richiede che vi sia qualcuno che legga le esperienze fatte da altri. Il caso di Alberto è emblematico.
Le sue fonti sono le traduzioni dal greco e dall’arabo accessibili ai monaci che
dedicano tempo ed energia alla trascrizione manuale.
Scrive il testo nella metà del 200 ma solo nella metà del 1500 appaiono traduzioni in volgare a stampa accessibili a tutti.
Non so quanti tra il 1200 ed il 1500 potevano avere accesso all’opera del maestro di Colonia.
Penso che il primo salto l’umanità l’aveva fatto con la scrittura. Il terzo noi con Internet?
E’ interessante però che questi tre mezzi sono collegati al numero di abitanti di Simon.
Informazione scritta, stampata, digitalizzata.
Un altro commentino a proposito di America. Alberto elaborò anche una sua dimostrazione della sfericità della Terra nonche’, scrisse dell’esistenza di terre inespolarate ad ovest, parlo di un isola dal clima molto rigido (Groenlandia).
Ringrazio anch’io Alfonso per questa opera di informazione storica che contribuisce ad eliminare degli stereotipi sul passato.
Mi interessano molto gli studi sulla sfericità della terra, c’è un link dove posso trovare qualcosa?
O, ancora meglio, perché non farci un prossimo articolo? 🙂
Si Enzo, in effetti l’argomento è curioso e andrebbe esplorato.
L’ordine cronologico di studiosi che ne hanno parlato è pressapoco:
Aristotele, Eratostene, Posidonio, Ipparco, Tolomeo, Marino di Tiro.
Tutti questi sapevano benissimo che la terra era sferica e sia Marino (r=6019 km) che Eratostene (r=6300 km) ne calcolano il raggio con ottima precisione (6370 km quello reale). Tolomeo e Marino introducono latitudine e longitudine. Ma allora come è nata la volgata della terra piatta?
Uno studio condotto dal professor Reinhard Krüger dell’università di Stoccarda cita più di 100 scrittori tra la fine dell’impero romano e il 1492, tutti fermamente convinti che la terra è una sfera. (Compreso il nostro Alberto)
Pare che il colpevole sia uno scrittore americano, Washington Irving, il quale pubblicò nel 1828 un libro dal titolo “La vita e i viaggi di Cristoforo Colombo”; in queste pagine si afferma proprio che prima di Colombo l’umanità si pensava collocata su un disco piatto in mezzo al nulla. Irving ha una strana idea di come andarono i fatti alla fine del ‘400: attacca la Chiesa dell’epoca sostenendo che Colombo era il solo a credere alla sfericità della terra, avversato dalle alte sfere religiose. Ma invece le cose non stanno affatto così.
Vi suggerisco questo sito che racconta il tutto in modo molto divertente:
http://www.noncicredo.org/index.php?option=com_content&view=article&id=300:ma-colombo-sapeva-quello-che-faceva&catid=68:archivio-anno-2011&Itemid=63
Anche io lo ringrazio, Enzo, ho riletto l’articolo due volte ed è davvero interessante. La portata di pregiudizi e calunnie verso un certo periodo storico e’ però dura da scalfire.
Buongiorno,
ringrazio il prof. Pozio per questo gradevole articolo su Alberto Magno.
Concordo con l’utente Simon de Cyrène nel ritenere complessivamente esponenziale il processo di avanzamento scientifico-tecnologico umano; d’altronde, la progressiva sedimentazione di un sostrato di conoscenze permette nel tempo un maggior numero di combinazioni, tassonomie ed analogie fra le conoscenze, atte a produrre ulteriori conoscenze. Se si pensa poi alla positivizzazione dei beni materiali nella cultura nordica che ha fatto da spartiacque fra Medioevo ed Età Moderna (non cito direttamente Weber, essendo in parte superati alcuni punti della sua tesi “calvinistica”), si può comprendere come economia e cultura incidano nello sviluppo scientifico e tecnico, pur dovendo notare come certe tendenze in voga già nel Medioevo abbiano contribuito allo scopo, da cui il contributo di Alberto Magno, di cui apprezzo moltissimo la poliedricità e il rifuggire da qualunque forma di ipse dixit.
Importante, come affermato in un commento dal prof. Pozio, l’introduzione della stampa; si è scritto molto nel secolo scorso sul contributo del libro stampato, per cagione della sua strutturazione logica e del suo fruimento fortemente individuale e non più collettivo (a differenza dei manoscritti e libri nei secoli passati), al diffondere di un certo tipo di cultura gnoseologica basato sul senso della vista, il senso più astratto capace di far da ponte fra l’esperienza sensibile e la sistemazione logico-matematica galileiana dell’universo (ma presente sul piano embrionale già in Aristotele, per quanto concerne almeno la dinamica).
A proposito della teoria della “crescita esponenziale”, non trascurerei la tesi di Lucio Russo secondo il quale i periodi di accrescimento della conoscenza e sviluppo tecnologico, tra i quali certamente rientra il Basso Medioevo, si sarebbero alternati a fasi di interruzione e regresso, o comunque a periodi nei quali è la società si sarebbe involuta in un modo da non richiedere il raggiungimento di un elevato livello di conoscenza se non da parte di settori assai ristretti di popolazione (come sarebbe avvenuto, a suo parere, alla fine dell’Ellenismo e con la diffusione della civiltà romana).
Secondo questo autore, ad esempio, gli antichi avrebbero conosciuto l’America del Sud, non solo la Groenlandia, e commerciato con essa, come proverebbe anche il famoso mosaico romano con la raffigurazione di un ananas. Il suo libro “L’America dimenticata” è un riferimento anche per la questione della sfericità della terra, che qui mi permetto di segnalare.
Lo stesso fatto, sopra citato, che il funzionamento della bussola fosse noto ad Aristotele e fosse stato in seguito dimenticato potrebbe giocare a favore di questa teoria, e comunque è noto a tutti come Cristoforo Colombo pensasse di poter raggiungere il Levante attraverso il Ponente sulla base di una stima della circonferenza terrestre largamente inesatta rispetto a quella fatta da Eratostene sedici secoli prima.
Anche se dell’autore possono risultare sgradevoli, e anche inesatte, alcune considerazioni relative al ruolo della Chiesa, questo non vuol dire che le sue idee siano da rigettare in toto. Anche laddove suggerisce, tra le righe, l’idea che la società attuale stia entrando in un altro di questi cicli di involuzione.
Sulla terra “non piatta”, un interessante incontro col prof. Barbero…
https://www.youtube.com/watch?v=xDOGq6rTLrU
Non lo conoscevo. L’osservazione di tutti gli imperatori del medioevo con il globo della terra in mano mi era sfuggita. Grazie.