“Composizione” (Piet Mondrian, 1921)
L’essenza della matematica (Parte II di 2)
di Giorgio Masiero
Quell’elevazione verso cieli sempre più alti e meno densi…
Il britannico G.H. Hardy, celebre per essere stato il mentore dell’enfant prodige indiano Ramanujan, era un amante della matematica astratta, quella che si coltiva solo per la sua piacevolezza. Per questa inclinazione egli si dedicò principalmente alla teoria dei numeri, a suo parere “la parte più pura e meno utile di tutta la matematica”. Che applicazioni può avere l’Ultimo teorema di Fermat?, mi ha chiesto qualche settimana fa un lettore, con la risposta negativa in tasca. Se Hardy era ai suoi tempi giustificato in questo pregiudizio, meno lo sarebbe un matematico contemporaneo: la teoria dei numeri infatti, nella quale rientra il teorema di Fermat, trova oggi molte applicazioni, dal controllo dei sistemi automatici alla trasmissione dei dati via satellite, dalla protezione dei record finanziari alla crittografia ad algoritmi efficienti per il calcolo, ecc. Quel lettore sarebbe sorpreso di sapere che la sua domanda, proveniente magari dall’altra parte del mondo, come le sue operazioni di home banking viaggiano nell’etere codificate sui numeri primi. E proprio dalla teoria dei numeri è nato il ponte che ha congiunto il discreto al continuo, ora non più due concetti opposti, ma espressioni della stessa characteristica mathematica.
Quale characteristica? In chiusura dello scorso articolo ho evocato le congetture di Weil, come l’occasione della mia comprensione. Spiegare rigorosamente le congetture di Weil ad un pubblico non specialistico è impossibile. Farò così: non renderò le cose troppo facili, per non svilire l’argomento, ma le semplificherò solo nella misura minima per farmi comprendere da uno studente di liceo, in un compromesso che andrà necessariamente a danno dell’esattezza dei concetti. I rigoristi sono avvisati! E la prenderò alla larga, come ormai i lettori hanno imparato che si fa in questioni matematiche.
Augustin Cauchy (1789-1857) fu una persona intransigente, tanto nell’ortodossia e nella morale cattoliche quanto nel rigore matematico. In cent’anni, a partire da Newton e Leibniz, l’analisi (reale) aveva fatto enormi progressi, ma quale scenario d’idee confuse e procedure inaffidabili si aprì agli occhi del giovane ingegnere parigino, che – abbandonati ponti e strade – sentì impellente il dovere di ricostruirla dalle fondamenta. Cominciò dai numeri reali e dalle operazioni delicatissime di limite, che erano state trattate troppo disinvoltamente dal vulcanico Eulero. Fatto ordine, Cauchy si dedicò all’investigazione di nuovi territori. Qui la sua scoperta più importante fu la teoria dell’analisi complessa, entro cui rientra il concetto di funzione analitica. Se c’è una rappresentazione visiva, comprensibile a tutti, dei concetti principali dell’analisi – continuità, liscezza (o differenziabilità), infinito – questa sta nel grafico (del modulo) di una funzione analitica (v. figura sottostante).
Una funzione analitica
In una funzione analitica ci si sposta da un punto all’altro
1) con continuità, senza salti;
2) in maniera liscia, senza punte né svolte aguzze; e
3) il paesaggio è vario, costituito di pianure, vallate, depressioni ed anche montagne con altissime vette.
Che cosa di più opposto, almeno in apparenza, al ticchettio monotono dei numeri naturali 0, 1, 2,…? Un’altra caratteristica delle funzioni analitiche, sorprendente e nell’analisi reale inimmaginabile, è
4) la prolungabilità:
se di una funzione analitica conosciamo un qualsiasi cammino interno (come quello bianco tratteggiato in figura, indicato con S), allora possiamo estrapolare una descrizione dell’intero paesaggio. Insomma, avviene come se dalla cartina di un sentiero alpino potessimo inferire una mappa 3D di tutte le Alpi, anzi di tutto il globo terrestre! Consideriamo allora un “sentiero” specialissimo, quello dei numeri primi:
2, 3, 5, 7, 11, 13, 17, 19, 23, 29, 31, 37, 41, 43, 47, 53, 59, 61, 67, 71, 73, 79, 83, 89, 97, 101, …
Si può immaginare una sequenza più discontinua e allo stesso tempo più imprevedibile di questa? I numeri primi – oltre ad essere infiniti, come dimostrò Euclide ricorrendo a quel grimaldello logico che gli Scolastici chiamavano reductio ad absurdum – si susseguono in un modo che costituisce tuttora il più grande mistero della matematica. Eulero: “Fino ad oggi [XVIII secolo] i matematici hanno tentato invano di trovare un ordine nella sequenza dei numeri primi. Noi abbiamo ragione di ritenere che questo è un mistero entro il quale la mente non penetrerà mai”. Eppure, proprio l’Eulero di questo giudizio sconsolato inventò il primo modulo d’attacco alla decifrazione della sequenza, che aggiunto ai moduli di Cauchy e di Riemann di un secolo dopo e agli sviluppi matematici più recenti, ci dà oggi la speranza di poter espugnare questa Masada un giorno. Anche se non possediamo ancora tutto lo spartito, udiamo già le prime note di una melodia sopra il rumore di fondo della sequenza…
Della sequenza dei numeri primi Eulero costruì una prima mappa uni-dimensionale, il “sentiero bianco tratteggiato” della figura precedente, da cui poi con il prolungamento di Cauchy, Riemann avrebbe estrapolato il paesaggio di un’intera funzione analitica, la funzione zeta (v. figura sotto).
Grafico del modulo della funzione zeta di Riemann
Nella figura, zeta ci si presenta come un tendone da circo a strisce colorate, con noi sotto a guardare lo spettacolo. La superficie del tendone pende in tante cuspidi fino a toccare il pavimento. Quando il vertice di una cuspide tocca terra, i matematici lo chiamano “zero”. Lungo una retta, l’asse x, si sa che gli zeri della funzione zeta sono infiniti, allineati ed equidistanti. Esattamente nelle posizioni: x = -2, -4, -6,… Questa è una prima regolarità della funzione, che però non sembra fornire alcuna informazione sulla distribuzione dei primi. Niente affatto banali sono invece gli zeri che appaiono allineati nella direzione y (precisamente, sulla retta x = +½) a distanze diverse! Anche di questi sappiamo che sono infiniti, ma ignoriamo se siano davvero tutti allineati e a quali distanze in generale si succedano. Riemann calcolò a mano nel 1859 la posizione dei primi 3 zeri non banali e li trovò allineati con la massima approssimazione che poté. Formulò allora la congettura che tutti gli zeri non banali della funzione zeta siano allineati sulla retta x = +½.
Senza dubbio la più importante questione aperta della matematica è questa congettura, detta l’Ipotesi di Riemann. Se essa è vera, la sequenza dei numeri primi è un singolare mix di ordine e caso. Nel 1903 Gram calcolò la posizione dei primi 15 zeri e li trovò allineati; nel 1935 Titchmarsh giunse alla determinazione dei primi 1.041: ancora tutti allineati. Con l’entrata in campo dei calcolatori questo genere di ricerche ha subito un’accelerazione: ai nostri giorni l’Ipotesi di Riemann è stata verificata per migliaia di miliardi di zeri e mai smentita. In questo modo diretto però, salvo che l’Ipotesi non sia falsa in uno zero raggiungibile, la Masada zeta non sarà mai espugnata.
È straordinario che la discretezza antonomastica dei numeri primi risulti codificata nella continuità antonomastica di una funzione analitica dei numeri complessi. È stupefacente che una regolarità di questa ci possa rivelare un ordine di quelli. La meraviglia lascia però il campo ad una riflessione inaudita: come si potrà mai dimostrare l’Ipotesi di Riemann senza superare, con una teoria matematica sufficientemente astratta, la dicotomia discreto-continuo?
Nella seconda metà del ‘900 sono germogliate con la geometria algebrica tutta una serie di funzioni “zeta locali”. La locuzione “geometria algebrica” è un ossimoro, perché sta per “continuità discreta”, che parrebbe una sorta di “bianchezza nera”! Un ponte tra isole discrete e continue della matematica, come la geometria algebrica, ci fa passare da un’isola all’altra, ma non dissolve l’identità delle isole, né può pertanto svelare l’unità dell’arcipelago. Eppure la geometria algebrica sta lì a dirci, con logica ferrea, che continuo e discreto devono coincidere se osservati da una posizione più elevata. Questa posizione fu trovata tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso nello sforzo di dimostrare le congetture di Weil.
Le congetture di Weil sono affermazioni sul numero di soluzioni di determinate equazioni, con l’aspetto di essere ipotesi ragionevoli e che tuttavia nessuno aveva la minima idea di come dimostrare quando furono formulate. Prendiamo un’equazione, per es.
Una soluzione è (x = 1; y = 3). Ce ne sono altre? Dipende da quali numeri ci beviamo per “buoni”. Meno pretese abbiamo, più grande è l’insieme dei numeri tra cui cercare e più sono le soluzioni di un’equazione. Se ci accontentiamo degli interi relativi, c’è anche la soluzione (1; -3). Se poi ci vanno bene i numeri reali, allora le soluzioni diventano ancora più numerose: (2; √14), (-1; -√11),… Le congetture di Weil facevano precise predizioni sulla quantità di soluzioni per ogni famiglia di equazioni e per ogni campo numerico ed io le incontrai la prima volta qualche anno fa in ragione della loro applicabilità in tecniche di compressione dei dati e nella crittografia di messaggi e reti telematiche.
Per contare le soluzioni di un’equazione, la geometria algebrica dovrebbe contare il numero di configurazioni sotto l’azione di una trasformazione continua di oggetti geometrici. Come già insegnava la vecchia geometria analitica cartesiana, ad un’equazione corrisponde una curva (o una superficie, o qualche altro oggetto geometrico con un numero maggiore di dimensioni), cosicché il problema algebrico di sapere il numero delle soluzioni di un’equazione coincide col problema geometrico di contare i punti “buoni” sulla figura geometrica corrispondente. E ciò a sua volta richiede una comprensione profonda delle proprietà geometriche di questa: punti d’inversione, torsioni, buchi, ecc. La geometria algebrica stabiliva in maniera precisa la dipendenza del numero delle soluzioni dell’equazione dalle proprietà geometriche della figura corrispondente. Però occorreva prima avere gli strumenti per conoscere queste proprietà al variare del campo numerico ammesso!
Quando il matematico fa questo tipo di ricerche si muove con la mente lungo curve o attraverso superficie e altre varietà; e passando da un punto all’altro la sua esplorazione può essere ostacolata dal fatto che qui o là non ci siano abbastanza punti. Una persona normale si arresterebbe, come un esploratore davanti ad un fiume o ad un abisso o ad un monte insuperabili. Ma un matematico no. Il matematico accerchia il problema astraendo, chiedendosi se la sua questione non possa rientrare in una più vasta, con una o più dimensioni ulteriori, da cui la questione di partenza potrebbe essere aggredita più facilmente. Come i Romani a Masada, che affrontando la fortezza dal cielo… se la trovarono spalancata. O Giosuè a Gerico, le cui mura gli caddero ai piedi agli squilli di tromba suggeriti dal Signore. Le congetture di Weil furono finalmente provate, quasi senza sforzo, ma ciò aveva prima richiesto tra il 1960 e il 1974 un volo di astrazione come forse mai prima era avvenuto nella storia della matematica.
Che cos’è un’astrazione? È un processo del pensiero nel quale, davanti a qualcosa di complicato, decidiamo di focalizzarci su pochi aspetti o anche su uno solo, eliminando tutti quelli che ci possono distrarre dalla “struttura” cui siamo in quel momento interessati. Quando un bambino comincia a contare 1, 2, 3,… fa forse la prima astrazione nella sua vita (e con ciò esegue la sua prima operazione matematica), perché considera gli oggetti solo nell’aspetto quantitativo, disinteressandosi di tutte le altre qualità che li differenziano. Il progredire della matematica coincide con la creazione di sempre nuove astrazioni da astrazioni precedenti, come in un’elevazione verso un cielo sempre più alto e sempre meno denso…
I matematici creano così oggetti che si comportano quasi come numeri, ma che non ne seguono tutte le regole; rette parallele che si vanno incontro; spazi con 4 o 11 o infinite dimensioni, e infinite di ordini cantoriani diversi; categorie, funzioni, grafi, ecc. Se credi, lettore, che la teoria degli insiemi sia il processo più elevato di generalizzazione, sei invitato a ricrederti: gli insiemi sono il linguaggio unitario di tutte le aree matematiche, così come la logica ne è lo strumento unitario di manipolazione. L’astrazione matematica trovò nella mia mente il suo apice quando appresi in qual modo le congetture di Weil poterono essere dimostrate: con una teoria nuova di zecca, la teoria degli schemi.
La teoria degli schemi è una creatura di Alexander Grothendieck, uno dei più grandi matematici di tutti i tempi. Con questa teoria Grothendieck ha apportato nella seconda metà del secolo scorso, in appena una decina d’anni, una tale rivoluzione in matematica da potersi paragonare solo alla rivoluzione che nella prima metà dello stesso secolo apportò Einstein in fisica con le due teorie della relatività, in un ugual breve periodo. Nella teoria degli schemi tocca al punto, il fondamento di tutta la geometria, subire l’ennesima generalizzazione.
Nella geometria elementare, i punti sono oggetti che “non hanno parti” (Euclide) e si prolungano all’infinito in tutte le direzioni dello spazio. Dopo la geometria cartesiana, potremmo equivalentemente dire che un punto è una posizione dove ogni funzione assume un valore costante. Ma questi sono solo i “punti di partenza” in matematica moderna. Dall’incrocio della teoria degli insiemi con l’analisi era nata all’inizio del XX secolo l’analisi funzionale. Già qui il punto fa un salto di qualità: ogni funzione vi è trattata infatti come un “punto” appartenente ad uno spazio astratto e si studiano operazioni e trasformazioni che sono eseguite su intere regioni di questo spazio, con lo spin off dell’apparizione di nuovi strumenti buoni per tutte le aree matematiche.
Grothendieck e il suo gruppo di Nancy (1958-’70)
Nella teoria degli schemi invece, ci sono molti generi di punti, dotati di una struttura interna che è determinata dalle specie di funzioni sempre costanti da essi supportate: così c’è una moltitudine di punti complessi che ruotano nello spazio, in fin dei conti perché esistono due radici quadrate di -1 interscambiabili, e ci sono altre moltitudini di punti ancora più complicati. Il piano, caro lettore, brulica di tante specie di punti di cui al liceo non hai neanche sentito l’accenno. Per non parlare dello spazio e degli iperspazi… E così, per serendipity, salta fuori che quando tutti questi punti-extra vengono presi in considerazione, molte questioni matematiche di aree diverse che non si sapeva neanche da che parte afferrare si fondono in una.
Lo schema è l’idea da cui tutte le varietà algebriche prendono incarnazioni diverse e da cui possono essere affrontati i problemi in ogni singola incarnazione. Gli schemi hanno la caratteristica di strumenti sufficientemente generalizzati e potenti per rappresentare e allo stesso tempo risolvere i problemi di tutte le aree matematiche, discrete e continue. La risoluzione dell’Ultimo teorema di Fermat si deve per la gran parte alla teoria degli schemi.
L’astrazione da una struttura ad un’altra si chiama in matematica morfismo. Con ciò, i morfismi sono strumenti per descrivere ogni cosa dotata di una struttura. Se “la matematica è il linguaggio del mondo” (G. Galilei) ciò si deve semplicemente al fatto che il mondo è una struttura (di strutture di strutture…) e la matematica è la scienza dei morfismi. Perché allora stupirsi dell’“efficacia irragionevole della matematica nelle scienze naturali” (E. Wigner), che hanno proprio per oggetto lo studio delle strutture del mondo? Piuttosto stupiamoci dell’esistenza di una specie come quella umana che fa morfismi, cominciando dallo “schema” di dare un nome ad ogni cosa.
“L’uomo è un animale che parla” (Aristotele). Da quando esiste – anzi in quanto esiste, perché in ciò si differenzia dalle altre specie – l’uomo chiama le cose, creando con la lingua morfismi dalle cose (classificate per astrazioni successive) alle parole; e crea morfismi di morfismi (concetti e teorie) con i linguaggi del mito, della religione, dell’arte, della cultura, della filosofia. E della matematica. Questo sì dei linguaggi umani dei diversi generi, ossia del simbolo, è un mistero del quale non abbiamo alcuna spiegazione. Col simbolo dell’uomo l’Universo acquista consapevolezza di se stesso.
Nell’incontro con le congetture di Weil e la teoria degli schemi, riconobbi in un lampo finalmente la characteristica mathematica che cercavo da studente: la classificazione dei morfismi di morfismi in un linguaggio logico univoco. Questa ricerca di nuovi, sempre più astratti, morfismi di morfismi di morfismi… arriverà mai alla fine? Bella domanda. Che merita forse il tentativo di una risposta in altra occasione.
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26 commenti
Grazie, Giorgio, per questo scorcio che apri sull’universo della matematica! Consiglierò senz’altro questa serie di articoli ai miei studenti, nel momento in cui saranno in procinto di uscire dal liceo (così che possano apprezzarne pienamente la portata).
Caro Michele, tu da docente di liceo mi lusinghi con questa intenzione! Considerami a disposizione delle tue classi per una mattinata, se vuoi che venga ad illustrare di persona ai tuoi allievi la mia concezione della matematica. Per me sarà anche l’occasione di visitare ancora una volta la tua magnifica città!
Grande idea, Giorgio! Vediamo se c’è verso di organizzare concretamente qualcosa entro la fine dell’anno scolastico. Ti farò sapere!
Benissimo.
Questa proprietà della prolungabilità delle funzioni complesse è fantastica. Non la conoscevo. Grazie. Ma una funzione complessa è prolungabile da un sentiero qualsiasi?
Non vale per “tutte” le funzioni complesse, Anna, ma per una loro estesa classe. Quanto al cammino, non occorre nemmeno che sia continuo, ma che abbia un numero infinito di punti. Grazie a Lei.
Avendo fatto solo Analisi 1 e Analisi 2 all’università per laurearmi e non per passione, ho sempre avuto grande ammirazione per i matematici che hanno a che fare con le sempre più complesse astrazioni della loro disciplina di cui non ho potuto che assaggiare le sole basi, trovandola peraltro poco dilettevole se non una vera e propria tortura. Analoga ammirazione, rispetto e stima le ho sempre avute, anche quando non ero credente, per i sacerdoti e le loro scelte davvero impegnative anche solo a livello di promessa di vita (indipendentemente dalla pratica). Questo perché trovo impegnativo seguire questi ardui percorsi, poi è ovvio che arriva un matematico impertinente alla Odifreddi e mi casca tutta la categoria, come me la fa cascare la scoperta di un sacerdote dedito alla mondanità.
Detto questo i miei due soldi di ragionamento per questo bell’articolo del prof. Masiero, non posso che spenderli per le incredibili capacità del cervello umano nell’arrivare a questi morfismi di morfismi di morfismi…. C’era bisogno di tanta capacità per sopravvivere alla selezione naturale ? A che serve tutta questa potenza e come ha fatto a spuntare da sola ? A noi sarebbe andato bene qualcosa di più modesto, giusto per mangiare, bere, dormire tranquilli, magari riprodursi con piacere, insomma bastava una bici o al massimo uno scooter e ci ritroviamo con una Ferrari, ma dove dobbiamo andare di così lontano, a così alta velocità, per non parlare dell’accelerazione ? 🙂
Grazie, Muggeridge.
La spiegazione darwiniana (ma non wallaciana!) di questa potenza matematica del cervello umano fin dalla sua comparsa (milioni di anni fa), assolutamente spropositata rispetto alle esigenze di sopravvivenza e di riproduzione della specie? Exaptation, secondo un’invenzione di quel moderno Esopo che risponde al nome di Gould!
Michele Forastiere ed io, non soddisfatti, ci abbiamo scritto un articolo un paio d’anni fa: http://www.enzopennetta.it/2013/02/effetto-ramanujan-lesigenza-di-un-nuovo-approccio-al-problema-dellevoluzione-umana/
Qualche dettaglio in piu’ rispetto a “exaptation” (piu’ precisamente, l’idea che le abilita’ cognitive necessarie per sviluppare la matematica siano derivate da quelle necessarie per il liguaggio) in questi anni e’ stato proposto e testato.
Una review abbastanza recente e’ offerta qui -> http://www.pnas.org/content/109/Supplement_1/10725.full
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Interessanti sono anche i lavori di Nunez e Lakoff sull'”embodied mathematics”, anche se da prendere con le pinze e senza dimenticare che gli autori NON si cimentano nell’offrire una ipotesi evolutiva ma “solo” (che in realta’ e’ tanto) una spiegazione cognitiva di come facciamo matematica “ora”. Seppure non credo che tutto quello che scrivono sia solido, hanno mostrato che leabilita’ cognitive matematica siano radicate di piu’ in abilita’ legate ad esperienze sensoriali e motorie (attraverso quelle che loro chiamano “grounded metaphors”) di quello che si pensava (ad esempio, ai tempi di Gould). Questo e’ una pubblicazione abbastanza recente, uno sviluppo de “Where Mathematics Comes from” -> http://www.cogsci.ucsd.edu/~nunez/web/Cognitive_Linguistics_and_the_Concepts_of_Number.pdf
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Detto questo, Homo sapiens e le altre specie di primate hanno delle abilita’ matematiche in comune (un esempio fra tanti http://www.pnas.org/content/111/18/6822) e delle differenze (http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0885201414000331), forse anche a causa del diverso processo di sviluppo nelle due specie.
Grazie, Gvdr, del Suo contributo alla discussione.
La selezione naturale può “spiegare” che anche gli animali abbiano minime nozioni aritmetiche, geometriche e anche meccaniche. È infatti indubitabile che una buona comprensione intuitiva della propria nicchia ambientale costituisce un vantaggio evolutivo per una specie. Qui rientrano le relazioni d’equivalenza e d’ordine, l’esecuzione di alcune elementari operazioni aritmetiche, l’intuizione di concetti geometrici elementari, l’idea di velocità, ecc., tutti strumenti utili in ogni ambiente a procurarsi il cibo, a fuggire un predatore, ecc., insomma fondamentali per la sopravvivenza. Che le api “conoscano” la geometria dell’esagono e un asino “sappia” scegliersi il mucchio di fieno più grande, ecc. rientra nelle possibilità esplicative della selezione naturale. Perfino le piante esibiscono alcune capacità matematiche. Così, i “circuiti neurali” umani potrebbero essere stati selezionati in corrispondenza ai criteri suddetti, essendo ogni avanzamento avvenuto in modo casuale e contingente (altri problemi a parte…).
A partire da Newton, però, una matematica sempre più astratta e sempre meno intuitiva si è dimostrata sufficiente a descrivere alcuni meccanismi nascosti della realtà fisica; e con il progresso delle scienze naturali si è scoperto che, attraverso strutture matematiche sempre più astratte – lontanissime dall’intuizione diretta – il metodo scientifico galileiano è in grado di spiegare un po’ del funzionamento del mondo in maniera precisa. Per giunta, tali strutture risultano valide in un intervallo di scale spazio-temporali ed energetiche enormemente più ampio della scala di quell’esperienza ordinaria che in logica darwiniana avrebbe dovuto selezionare reti neurali economicamente sufficienti ad una matematica giusto necessaria alla vita. La natura degli oggetti matematici è un problema aperto in filosofia, è vero. Tuttavia, che si assuma una concezione realistica (platonica) del numero come ente esistente di per sé, o che se ne assuma una formalistica, dove esso è un prodotto della mente, il problema permane: com’è potuto accadere che i nostri circuiti neurali siano stati selezionati milioni di anni fa (non adesso! andrebbe ricordato a Jessica Cantlon, che è andata fuori strada fin dal titolo del suo articolo, perché non abbiamo nessuna evidenza di un “developing brain”, ma solo di una “developing mathematics”, che è un’ovvietà della storia della matematica) per comprendere, o per creare milioni di anni dopo, strutture matematiche che hanno superato di gran lunga la soglia oltre la quale esse erano indifferenti nella produzione di vantaggi competitivi per la specie?
Se è vero che la matematica è la scienza della classificazione dei morfismi dei morfismi, il problema della matematica umana è rinviato all’insorgenza del linguaggio simbolico e questo è un “mistero, la cui origine rimane misteriosa come non mai” (Hauser, Yang, Berwick, Tattersall, Ryan, Watumull, Chomsky e Lewontin).
Articolo grandioso,complimenti. Ma mi chiedo: è poi stato pubblicato peer reviewed ? Se lo è stato dovrebbe aver fatto scalpore, oppure silenziato…
Diciamo che dice molte cose che mi frullavano in testa vagamente, ma non maneggiando appropriatamente gli strumenti per una formalizzazione di tipo logico-matematico non riuscivo a esprimere. Mi sono sentito in pratica un piccolo Ramanujan senza Hardy 🙂
Comunque quando nell’articolo ho letto il riferimento ad alcuni strumenti logici e matematici di base che hanno utilità per la vita umana mi è venuto in mente il mio prof. di Analisi 2 quando diceva che per attraversare una strada sulla quale scorrono dei veicoli applichiamo senza saperlo delle equazioni differenziali che se dovessimo svolgere consapevolmente ci porterebbero con certezza ad essere investiti 🙂
Sì, Muggeridge, l’articolo è stato pubblicato nella rivista della Fondazione Ronchi nel numero di novembre-dicembre 2012, dopo essere stato “peer reviewed”.
Prima di questo articolo non avevo mai sentito nominare Grothendieck. Adesso sono andata a leggere su Internet qualcosa di lui e risulta il più grande matematico del secolo scorso. Incredibile. Ma di cosa parlano i giornali?
Grazie CS!!
Quelli, Nadia, che parlano tutti i giorni sui giornali saranno dimenticati dopo la morte, non avendo avuto il tempo né messo l’impegno per scoprire nulla d’imperituro. Grothendieck è passato un paio di mesi fa nelle braccia del Creatore, tra il silenzio generale. Ma certamente non c’è al mondo uno studente o un ricercatore di matematica che non lo ricordi, chinato sulle sue intuizioni o rispettivamente proiettato nell’ambizione di farne avanzare il programma di ricerca dagli Schemi ai Topoi ai Motivi.
Ottimo professore.
p.s. è sempre molto gradevole leggerLa, nonostante le dovute semplificazioni per un articolo di divulgazione.
Grazie, Alio.
Grazie, come sempre, per questo stupendo articolo.
La domanda che le pongo è questa: se un giorno venisse dimostrata la congettura di Riemann, che cosa sapremmo di più sui numeri primi? Sarebbe possibile costruire una funzione P(n), calcolabile con un numero finito di passaggi, che restituisca l’ennesimo numero primo? L’attuale crittografia basata sul prodotto di numeri primi sarebbe a rischio e diventerebbe obsoleta?
E se invece si trovasse un controesempio (anche se credo nessun matematico se lo aspetti) ?
Ultimissima cosa: ha parlato di “ordine e caso”, ma che cos’è il caso in matematica?
Perdoni se le domande sono tante, ma l’articolo è davvero molto stimolante.
Grazie
Grazie a Lei, Giovanni.
Io non sono un matematico professionista, anche se mi avvalgo di matematici nella professione. Quindi le mie risposte alle Sue domande non hanno l’ambizione di usare un linguaggio rigoroso, ma solo euristico.
Parto dal “caso” matematico. Se vogliamo evitare definizioni circolari, l’unica via è di affidarsi a definizioni indirette attraverso la teoria del calcolo delle probabilità. Un po’ come si fa in geometria, dove non si ricorre più alle definizioni “ingenue” (di Euclide) di punto, retta, piano, ecc., ma questi enti primitivi sono definiti indirettamente attraverso gli assiomi. Nella teoria delle probabilità si hanno diverse funzioni, che caratterizzano diversi scenari ideali di eventi “casuali”. Per es., la distribuzione di Poisson, di Gauss, di Bernoulli, ecc.
Ciò detto, se venisse dimostrata l’Ipotesi di Riemann, la funzione π(x) – che dà la quantità di numeri primi sui primi x naturali – sarebbe la sovrapposizione di una funzione f1 calcolabile esattamente e di una funzione f2 probabilistica, quindi non saremmo comunque in grado (con questi soli mezzi) di avere una procedura capace di calcolare in tempi non cosmici e con certezza l’ennesimo numero primo. Però…
… però sarebbe seriamente minacciata la crittografia attuale basata sui numeri primi. Perché? Oggi per scomporre un numero composto “grande, ma non troppo” si ricorre ai calcolatori. Con sofisticati algoritmi che utilizzano recenti scoperte matematiche sulla distribuzione dei numeri primi (alcune, bellissime, hanno procurato nel 2006 una medaglia Fields all’australiano Terence Tao), un normale pc ci può dire in tempi ragionevoli se un dato numero di qualche centinaio di cifre è primo o no, e ci può anche trovare un nuovo primo di tali dimensioni. Non esiste tuttavia nessun software per nessun computer (sia pure il super-computer di Standard & Poor, o il K computer di Kobe da 8 milioni di miliardi di istruzioni al secondo, né quello 1.000 volte più veloce di cui si disporrà tra 10 anni) che sappia scomporre in tempi fisici il prodotto di due numeri primi di alcune centinaia di cifre. Ecco, la sicurezza di internet si posa su questa scommessa: che nessun computer possa scomporre in tempi fisici il prodotto di due numeri primi di alcune centinaia di cifre. Ma, se l’Ipotesi di Riemann fosse dimostrata, significherebbe che la funzione π(x) è (a meno di infinitesimi) uguale all’integrale da 2 a x di 1/ln(t) e ciò implicherebbe che il problema della scomposizione di un numero composto prodotto di due numeri primi diventa di tipo polinomiale, cioè risolvibile con un software in tempi ragionevoli!
Ovviamente se l’Ipotesi di Riemann fosse falsificata, la distribuzione dei numeri primi sarebbe ancora più avvolta dal mistero e la crittografia potrebbe ragionevolmente dormire sonni tranquilli.
Colgo l’occasione di questo commento per farle una domanda, prof. Masiero, forse un po’ stupida perché non ha risposta allo stato attuale ma mi incuriosisce la sua posizione a riguardo. Secondo lei P = NP? o no? o è indecidibile? Mi rendo conto che è una domanda campata un po’ per aria ma ha delle ipotesi a riguardo?
La questione P vs NP è a mio parere il problema con maggiore impatto applicativo a lungo termine della matematica.
Le rispondo, Luca C., nell’unico modo per me possibile in questo caso, cioè in base alla mia concezione teologica della matematica:
P = NP, ma indecidibile.
E per giunta, sono portato a supporre che esistano un numero infinito di problemi NP riducibili a P che non sappiamo ridurre a P.
Magari è già in programma un articolo su questa questione, ma considerando che il prof. Masiero parla di concezione teologica, sarebbe interessante approfondire.
In proposito ho trovato interessante questo articolo:
http://www.newyorker.com/tech/elements/a-most-profound-math-problem
L’unica cosa che posso azzardarmi a dire in merito è che forse P=NP in un contesto in cui la parola (logos) si traduce in atto, per noi sin qui resterebbe P≠NP.
Ho letto l’articolo del Newyorker. Grazie, Muggeridge! Non è vero secondo me ciò che vi si dice da parte di alcuni, ovvero che P=NP implicherebbe la fine dell’intuizione e della creatività. Sapremmo solo che c’è sempre un modo di risolvere ogni problema NP diverso dalla forza bruta, ma dovremmo comunque usare intuizione e creatività per risolverlo! Al contrario, secondo me, il sapere che c’è una soluzione c’incoraggerebbe a trovarla…
PS. Non ho “in programma” alcun articolo sulla questione!
Grazie a lei prof. Masiero. Io ho inizialmente interpretato la questione come: P=NP teologico, quindi P≠NP possibilmente a-teologico. Però approfondendo mi pare che la cosa non possa stare in questi termini. Leggendo l’articolo del Newyorker mi è parso che il poter diventare Mozart ascoltando una sinfonia ed esempi simili, sia qualcosa di non appartenente all’umano, mentre il percorso attraverso mistero, fatica e frustrazioni da una parte e indagine, eventuali scoperte e piacere nel ricercare e nel trovare dall’altra, sia una buona sintesi dell’esistenza umana terrena. Però se tali vicissitudini restassero intatte anche con P=NP non sarebbe nemmeno questa la differenza tra le due soluzioni del dilemma. Quindi mi chiedo se P=NP appartiene a una concezione teologica della matematica, P≠NP a che concezione si rifarebbe ?
Lei non demorde, Muggeridge!
P ≠ NP e P = NP sono entrambe compatibili con la teologia. Ma impattano diversamente una concezione teologica della matematica. In due parole: noi umani vediamo già in questo mondo che 2 + 2 = 4 con la stessa trasparenza di Dio o no?
Da Agostino e Tommaso ho imparato che la ragione filosofica ha dei limiti, che solo la metafisica dell’essere dell’Esodo e la teologia cristiana possono (un po’) estendere. Penso al concetto di creazione ex nihilo, all’essere (contingente) e al tempo, che la filosofia greca ha ignorato e che ora sono diventati temi anche della filosofia laica, fino a Bergson e a Heidegger.
Uno dei problemi irresolubili dalla filosofia, ma non dalla teologia cristiana, è la natura dei numeri. Dopo aver spiegato la sua teoria dei 3 mondi (1- materiale, 2- mentale, 3- delle idee), “ciascuno poggiante sul precedente” come si deve per una concezione naturalistica, il razionalista Popper balbetta: “Ma dove li metto i numeri? I numeri primi, ovviamente, sono fatti autonomi non intenzionali ed oggettivi; e nel loro caso è ovvio che ci sono molti fatti per noi da scoprire […] Ci sono congetture, come quella di Goldbach, che quantunque riguardino oggetti di nostra creazione, si riferiscono a problemi e fatti che in un modo o nell’altro non possiamo controllare…”. Sono “oggetti di nostra creazione”, o sono “fatti autonomi, oggettivi, che non possiamo controllare”?
Che cosa sono i numeri? Se non si assume la risposta platonica, che però non si poggia sul realismo – cui io mi voglio tenere stretto – essendo fatta di essenze senza esistenza, l’unica razionale è quella di Tommaso. Gli oggetti matematici non sono “creati” dal logos divino (e quindi nemmeno da quello umano) come tutte le altre cose (compresi spazio-tempo e materia-energia) e gli altri concetti, ma appartengono alle proprietà del logos creatore. Come i principi logici, anche se non coincidenti con i principi logici: “Cum principia quarundam scientiarum, ut logicae, geometriae et arithmeticae, sumantur ex solis principiis formalibus rerum, ex quibus essentia rei dependet, sequitur quod contraria horum principiorum Deus facere non possit: sicut quod genus non sit praedicabile de specie; vel quod lineae ductae a centro ad circumferentiam non sint aequales; aut quod triangulus rectilineus non habeat tres angulos aequales duobus rectis.” (Contra Gentiles). Dunque mi piace pensare che NP = P, perché nella matematica (di Dio) non c’è il tempo a distinguere un tempo polinomiale da uno esponenziale.
La ragione dell’uomo però è limitata. E’ dolce sottomettersi ai limiti della ragione. E’ perfino razionale ammettere i limiti della ragione: “La ragione non si sottometterebbe mai, se non giudicasse che ci sono casi in cui si deve sottomettere: dunque, è giusto che si sottometta, quando giudica di doverlo fare” (Agostino). Gödel ha dimostrato l’intuizione di Agostino quando ha mostrato che il programma hilbertiano di una ragione matematica onnisciente era destinato al fallimento. La matematica contiene problemi che non è in grado di risolvere. Quindi è possibile che la questione NP vs P sia indecidibile. E certamente, ove decisa positivamente, la decisione non ci aiuterà automaticamente a risolvere tutti i problemi NP.
P ≠ NP è certamente possibile per la teologia, ma significherebbe – a mio parere – che vivremo nell’eternità un’intuizione della matematica superiore per qualità (oltre che per estensione) a quella che noi umani oggi viviamo nel tempo. Un logos umano mondano, oltre che limitato, anche qualitativamente inferiore a quello divino e angelico e a quello che avremo in Paradiso, almeno con riferimento alla matematica (ma non alla logica, per es.).
E adesso, Muggeridge, che mi ha costretto controvoglia quasi ad un articolo, La metto in guardia che ho buttato giù le idee di getto su un argomento arduo e … quindi non ne rispondo!
Ringrazio il prof. per l’interessantissima risposta e ringrazio anche Muggeridge per il suo contributo e per aver costretto Masiero ad un quasi articolo che mi auguro anch’io in futuro possa diventare un articolo 🙂
La ringrazio, professore. Mi spiace averla costretta a una spiegazione così articolata, spero che questo quasi-articolo possa diventare un giorno un articolo, perché questi concetti espressi qui tra i commenti rimarrebbero poco accessibili ai più e questo sarebbe un peccato. Per me su quanto ha scritto, seppur di getto, c’è da riflettere per più tempo, ma non penso che troverò qualche appunto da farle in merito (e se lo trovassi ora mi guarderei bene dal farglielo 🙂 ), diciamo che per me come risposta sarebbe stato più che sufficiente il solo penultimo periodo.