Circa un anno e mezzo dopo i fatti riportati nel primo articolo, si crearono le condizioni per quello che sarebbe stato il mio ultimo viaggio in Asia. Naturalmente, esso non fu motivato dalla ricerca di qualche guru che mi partecipasse della sua illuminata opinione sulla questione cancro; tuttavia, una buona conoscenza di tematiche che non fossero solo spirituali, fu determinante per la scelta del mio interlocutore. Che fu difficile, per molte ragioni, che qui è però utile almeno accennare. Prima di tutto, negli anni susseguenti al ’68, si creò una vera industria del gurismo; con centinaia di migliaia di giovani armati di buone intenzioni (materia della quale, notoriamente, sono lastricate le vie dell’Inferno), che, salvo pochissime eccezioni, passarono da un cattolicesimo inaridito, sempre più mondanizzatosi, e incapace di dare risposte forti e convincenti al bisogno di Trascendenza, all’illusione pura e semplice di nirvanici paradisi, cui era reso facile l’accesso da guru tanto più accoglienti, carismatici, e convincenti, quanto più truffaldini, e magari ancora peggio. Questa fu la regola, con poche, notevoli eccezioni; non farò nomi, né per la regola, né per le eccezioni.
Con l’aiuto di un amico indiano residente in India, col quale condividevamo interessi e obiettivi, e con cui da anni intercorreva una fitta corrispondenza, facemmo una ricerca di soggetti che rispondevano alle tre caratteristiche richieste:
1°, una conoscenza adeguata sia della cultura indiana, che di quella occidentale;
2°, una conoscenza dell’inglese tale da rendere possibile la comunicazione (fra le quattro, questa era la condizione più facile da soddisfare; in India, quasi senza eccezione, gli appartenenti alla classi colte parlano un ottimo inglese);
3°, essere considerati molto avanzati nel cammino spirituale, e, (opzionale) trovarsi almeno nella terza fase dell’esistenza (vanaprasthasrama), secondo la partizione indù; quella nella quale l’essere umano, soddisfatti tutti gli obblighi sociali e personali, dà un addio definitivo alla famiglia e alla costellazione parentale e amicale, rompe qualsiasi legame col mondo, si ritira in un eremo, e dedica da lì in avanti ogni momento della vita alla preghiera, nel tentativo di purificarsi dal veleno dell’egoità (ahaṃkara), raggiungere la condizione di assoluta assenza di desideri, e restare in attesa della Liberazione (moksa). Questa non è una mera consuetudine, ma è legata alla struttura stessa della cultura indiana, in cui tutto è rituale, ed è ancora oggi frequentissima. Mentre, in Occidente, il “pensionato” pare preferire le bocciofile, chiacchierare di sport ai giardinetti pubblici, nel migliore dei casi l’accudimento dei nipoti, e magari leggere qualche libro. Oriente e Occidente, insomma; e non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che il secondo pretende di insegnare tutto al primo, di primeggiare sempre e comunque.
Insomma, alla fine il mio amico mi trovò l’elemento ideale, un ex professore di filosofia, presso le università di Madras (oggi Chennai) e Bombay (oggi Mumbay), che tanto aveva eccelso nel suo campo da ricevere il titolo di Pandit (che vuol dire dotto in grado elevato). Questo signore si era ritirato in un eremo, da qualche parte nei pressi di Arunachala, uno dei siti più sacri dell’India, una montagna a circa 200 km da Madras. Per non farla lunga, mi assicurò di aver trovato per certo l’esatta ubicazione di questo eremo, che aveva scritto all’ex Pandit, preannunciandogli il mio arrivo di lì a poco, e chiedendogli la cortesia di un riscontro al suo indirizzo. Nel mentre, mie faccende personali non mi permettevano di aspettare la risposta del Pandit, semmai fosse arrivata, per cui, pressato dalle contingenze, decisi di partire. Mossa che sapevo azzardata, ma con poche alternative; dato che non sapevo quando e se avrei potuto fare qual viaggio, in futuro.
Arrivai a Madras-Chennai alle 12 del mattino locali, dopo 25 ore di viaggio, senza aver chiuso occhio. Distrutto. Concordai il prezzo per Arunachala con un tassista locale (proprio come ci si immagina un tassista indiano), e cinque ore più tardi, dopo che aver chiesto numerose volte l’ubicazione esatta della destinazione, fui scaricato con la mia valigia nel bel mezzo del nulla, salvo il pullulare tropicale di vegetazione, davanti ad una baracca, sotto la pioggia monsonica. Si stava facendo sera, e non avrei potuto sapere che quella era l’ora preferita dagli scorpioni per uscire dalle loro tane. Sotto la pioggia, e con una specie di tappeto tremolante attorno, fatto di scorpioni che si contorcevano nella fanghiglia, e chissà cos’altro. Capii solo allora perché il mio amico indiano mi aveva raccomandato, più e più volte, di portare degli stivaletti, o comunque delle scarpe con tomaia alta, e indossare jeans di spessa stoffa. Vinta la disperazione, mi avvicinai alla baracca e bussai. Bussai ancora, e ancora. Niente, pensai che sarei morto lì, tra gli scorpioni, sotto i monsoni. Cigolando la porta si aprì, una figura mi squadrò un momento, poi mi fece cenno di entrare, quasi buio, uno stranissimo, indefinibile odore, come di spezie, garofani, e qualcosa di primordiale. La luce, quella di una candela. Fu uno shock: aveva l’aria di una specie di bottegaio, mi venne in mente quell’attore che interpretava il salumiere negli spot della Citterio. Balbettando, mi presentai. Costui mi rispose testualmente: “Uhm … sono contento che lei sia questa persona che dice di essere; cosa posso fare per lei”?
Risultò questo: effettivamente, aspetto a parte, era almeno la persona che cercavo; non aveva mai ricevuto lettere da parte di alcuno, pertanto non mi aspettava e non aveva la minima idea di chi fossi e del perché l’avessi cercato; proprio in quei giorni stava per decidere se fare o meno il voto del silenzio perenne. Armato del coraggio della disperazione, gli chiesi se poteva rimandare quel voto, indicarmi una pensione dove alloggiare, e se magari avesse dell’acqua da bere.
Rimasi da lui, non esisteva alcuna pensione lì intorno, solo nuclei familiari sparsi; se mi fossi avventurato fuori, sarei certamente morto in pochissimo tempo, scorpioni, serpenti, o chissà cosa. Mi disse candidamente che apprezzava la mia follia, e che questa era la sola ragione per la quale mi permetteva di violare la sua solitudine. Lo ringraziai, e poco dopo, cambiatomi, senza aver toccato cibo da almeno dodici ore, stramazzai su una stuoia. Cullato dal martellare del diluvio, dormii fino al mattino.
Due parole sui titoli del mio ospite (titoli raccolti dal mio referente indiano): laureato in filosofia indiana e cinese a Bombay, e in filosofia (occidentale) a Cambridge; perfetta conoscenza di Sanscrito vedico e Sanscrito classico, Pali, Cinese Arcaico e Mandarino, Inglese, Latino, Greco antico, e ovviamente Hindi. Oltre a questo, nei dieci giorni di permanenza, appurai personalmente conoscenze mai superficiali, quasi sempre superiori alle mie, in tutti i campi dello scibile che trattammo o sfiorammo.
Mi alzai che il sole era già alto. Il mio ospite stava a pochi metri da me, ci separava solo una tendina semitrasparente, stesa su uno spago tra due pareti; doveva averla messa mentre dormivo. Stava seduto sui talloni, schiena dritta, occhi chiusi, immobile, davanti ad una delle più classiche immagini di Shiva, nella quale ogni singolo, minimo, dettaglio, rimanda a un simbolismo cosmico e metafisico, tanto da potersi dire che questa sola immagine è considerata un’epitome dell’intera Dottrina Indù. Pochi secondi dopo, aprì gli occhi, girò il collo, e sorridendo mi disse: “Buon giorno, Mr. Francesco, per i bisogni, c’è spazio fuori dalla capanna, da dietro fino al ruscello, che troverà se prosegue lungo il sentiero. Le ho trovato della carta (vicino la porta, per terra, una piletta di fogli di giornali, minuziosamente riquadrati), se si accoscia, non lo faccia in mezzo all’erba, ma in spiazzi sterrati, per via di serpenti o altre creature, ce ne sono di velenose. L’acqua del ruscello è potabile, ma le sconsiglio di fare il bagno, non si sa cosa ci si può trovare; però può tranquillamente lavarsi sulla sponda. Lì, potrà anche lavare i suoi panni, sempre che poi asciughino, ha scelto la stagione sbagliata. Se vuole, sul tavolino (avrei scommesso che la sera prima non c’era alcun tavolino) c’è la sua colazione, non è certo quello cui è abituato, ma temo dovrà adattarsi. Vedrò di trovarle del caffè. Quanto tempo ha intenzione di trattenersi?”
“Ho il volo da Chennai tra dodici giorni, ma non intendo …”.
Mi interruppe.
“Se vuole, se si adatta, sarei onorato di ospitarla; salvo che non decida per altra sistemazione, nel caso potrei forse trovarle qualche famiglia, qui attorno…”.
Insomma, naturalmente decisi di sfruttare quell’irripetibile occasione. Non fu facile adattarsi al nulla. Scoprii che il cibo, e tutto il necessario per la sopravvivenza, gli (ci) veniva donato da famiglie del circondario, che, come millenaria consuetudine, consideravano un onore e un privilegio, l‘accudimento di un vanaprastha, la cui sola presenza beneficiava chiunque gli stesse intorno. Per cui, quel cibo (compresa la rudimentale carta igienica) mi erano stati donati. Il mio ospite, infatti, trascorreva tutto il tempo in preghiera e pratiche rituali. Nei dieci giorni e mezzo di permanenza, non lo vidi mai dormire. Solo una volta, essendomi svegliato nella notte per un tuono, ebbi l’impressione, dapprima, che stesse dormendo. La notte teneva sempre accesa una candela votiva. Stava in Padma Asana (posizione del loto) davanti all’immagine di Shiva, sembrava la statua di una qualche deità del mondo antico, un’immobilità innaturale, aguzzai gli occhi, e fui certo che non respirava più di quattro o cinque volte al minuto. Un altro tuono, che sembrava l’urlo di Marte irato, lacerò l’aria e fece tremare la baracca. Niente! Quel rumore, talmente imo e potente, che a me mosse persino le viscere, lui parve non udirlo. Rimasi a guardarlo forse per mezz’ora, fin quando mi vidi come un bambino impudente, davanti a cose riservate agli adulti, e mi rimisi a dormire.
Tornado alla prima mattina, guardandomi attorno, vidi tre quadretti, quasi affiancati su una parete.
Nel primo da sinistra, era riportato, in latino e per intero, il celeberrimo “Inno alla carità”, in Paolo 1° Corinti, di cui cito solo l’incipit:
“Si linguis hominum loquar et angelorum caritatem autem non habeam factus sum velut aes sonans aut cymbalum tinniens.
(Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’amore, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna).
Nel secondo, in cinese antico (ne appresi in seguito il contenuto), un passo del Tao Te Ching. Nel terzo, una brano della Bhagavad Gita, in sanscrito. Questo era tutto l’arredamento, a parte il tavolino, due ciotole di terracotta, qualche stuoia, delle candele, una piccola cassapanca, una copia della Bhagavad Gita, e l’immagine di Shiva.
Prima di uscire per i bisogni e darmi una ripulita, non poteri trattenermi dal chiedergli cosa ci facesse nella sua scarna dimora quel passo paolino. Questo rispose:
“Nei tre brani che ho avuto la debolezza di portare con me, è contenuta, da prospettive diverse, facenti capo a Rivelazioni diverse, la totalità della Sapienza cui può avere accesso un essere umano. Ciò che parla in San Paolo, in quel brano, è senza dubbio quell’ipostasi Divina Suprema che voi chiamate Spirito Santo. Sarebbe sufficiente l’approfondimento della Verità ivi contenuta, unitamente alla pratica delle relative virtù, per ottenere ciò che chiamate salvezza, o quella condizione di perfetta santità che noi chiamiamo Moksa. Qualunque cosa l’abbia portata qui, Mr. Francesco, qualunque risposta cerchi, Lei avrebbe potuto trovarla, standosene a casa propria, nella meditazione di quel brano, nel silenzio, con la pratica della Carità, e implorando la Grazia di Cristo.”
(Non male per cominciare, pensai).
Bene, esaurita la premessa, temo indispensabile per introdurre un personaggio e una situazione così abissalmente lontani da ciò che a noi è consueto, entro nel merito. Registrai la quasi totalità dei nostri colloqui in quindici cassette da novanta minuti, che ascoltai innumerevoli volte in seguito, ripromettendomi sempre di trascriverle, oppure, anni dopo, di riprodurle in digitale. Rimandai pigramente per anni, fin quando non mi accorsi che quasi la metà delle casette avevano perso la magnetizzazione, con sommo rammarico, salvai il salvabile, in forma scritta, stavolta, e, sempre in forma scritta, riportati tutto quello che ricordavo. Affrontammo soprattutto tematiche spirituali, lasciandomi deliziare dall’abissale cultura del mio ospite, capace di lunghe citazioni di Tommaso, di Platone, di Cusano, di Eckhart, ecc…, tutte in originale, che confrontava spesso con passi delle Upanishad, dei Sutra, del Canone, di autori taoisti. Tra tutte le personalità da me incontrate, nessuna, quanto a conoscenze dottrinali, poteva competere con quest’uomo. Riguardo al lato spirituale, scoprii subito che quell’aspetto da bottegaio era una specie di maschera, dietro la quale si celava “qualcosa”, se così posso dire, di parecchio più elevato che nel monaco ortodosso. Alla questione sofferenza, malattia, cancro, arrivammo, com’era naturale fosse, in margine al problema, per me capitale, della teodicea, cui mai avevo trovato, fino ad allora, soddisfacente risposta presso alcuno dei grandi autori che l’avevano affrontata; né Agostino, né Tommaso, né Leibnitz, fino ai russi e Berdjaev, il filosofo e teologo che forse si è maggiormente avvicinato a una soluzione. I dialoghi sono resoconti fedelissimi di quelli reali; non li ho riportati in originale sia per la lunghezza, sia perché ho dovuto di necessità sfrondarli dai continui riferimenti che il mio ospite faceva al pensiero taoista e upanishadico; e, pertanto ho privilegiato, per quanto possibile, i nessi con autori occidentali, lasciando pressoché immutato il senso. Per tale ragione, i dialoghi sono necessariamente frutto di ricostruzione e “montaggio”, nella speranza che non risultino ellittici; diversamente, il resoconto avrebbe preso almeno dieci volte più spazio.
Nel discorso diretto, il mio ospite sarà P (Pandit), ed io ancora F.
F”Per me sarebbe di grande interesse, comunque, conoscere la Sua opinione circa una specifica malattia, il cancro”.
P”Uhm … è una malattia come le altre, un modo come un altro per morire; salvo che è quasi sempre accompagnata dal dolore, il che potrebbe essere un’opportunità, forse l’ultima per cercare di comprendere la propria finitezza, e benedire comunque la vita. Morire ringraziando, malgrado la sofferenza, riscatta innumerevoli peccati. E’ una buona morte”.
F”Grazie signore (mi rivolgevo a lui con “sir”, cosa che spesso lo faceva sorridere); avrei tre domande. Prima, mi pare ci sia differenza tra andarsene senza dolore, e tra atroci sofferenze. Seconda, credo di capire che, secondo Lei, per benedire sinceramente la vita occorre comprendere la propria finitezza. Terza, come mai, ringraziare, presumo Dio, malgrado ti stia infliggendo dolore, riscatterebbe dai peccati? E, comunque, Le sarei grato anche se mi dicesse se per Lei, specificamente, il cancro ha qualcosa di diverso dalle altre malattie”.
P”Cominciamo dalla fine. E’ evidente che il cancro presenta alla sensibilità umana media qualcosa di molto più diretto e implacabile, che molte altre malattie; ma lo stesso si potrebbe dire di tutte le patologie degenerative. In questo, come in molti casi, è di grande aiuto l’etimologia; “degenerare”, nelle vostre lingue, sta ad indicare un moto di allontanamento dal modello originario; aristotelicamente, potremmo parlare di forma, platonicamente di archetipo. Il termine rimanda all’idea di un distacco dalla natura propria, corrompimento; e quindi, “cor” (alterazione di “com”) “rumpere”, ossia frantumare, distruggere. Per cui, l’effetto frantumazione sarebbe causato dall’allontanamento dal modello originale, sottolineando che “originale” è usato in senso letterale, ossia, come ciò che sta in principio, all’origine”.
F”Si sta riferendo alla cellula, al rapporto tra di esse e gli organi…?”
P”Non esistono salvo – che in ambienti artificiali, e in enti biologi elementarissimi – cellule a sé stanti. Né insiemi di cellule strutturati in guisa tale da non formare organi; né organi strutturati i guisa tale da non formare organismi. Non risultano colonie di fegati, o di cuori. E non esistono organismi all’infuori di uno specifico ambiente; il quale a sua volta, non potrà sussistere senza una rete di correlazioni con ogni altro ambiente. E per “ogni” intendo non solo la totalità degli ecosistemi terrestri; ma l’universalità stessa dell’Essere. Il fatto che i nostri sistemi percettivi e cognitivi non riescono a cogliere e spesso neppure a concepire queste correlazioni, non vuol dire che esse non esistano. Di massima, con la percezione diretta, non si riescono a comprendere – e anche in modo molto parziale e rudimentale – che correlazioni con più di due o tre ambienti adiacenti; tutto il resto è come se non ci fosse, eppure c’è! Solo di recente, in Occidente, la scienza si è avvicinata a comprendere questo punto. Quando Edward Lorenz ne accennò a un pubblico dotto, in una conferenza rimasta famosa, l’uditorio rimase a bocca aperta. Erano i primi passi di quella che sarebbe stata chiamata “Teoria del caos”. Per la verità, una quindicina di anni prima ne aveva parlato un matematico puro, quello che risolse il codice Enigma, e liberò lo spettro dell’intelligenza artificiale. Alan Turing.
Bene (gli scappò un sorriso birichino), noi queste cose le conosciamo da migliaia di anni, e ad onor del vero anche i cinesi. Con una fondamentale differenza, tuttavia; per noi non si è mai trattato di modellizzazioni matematiche di quanto è misurabile; ma dell’intero spettro del reale, che è incommensurabilmente più di ciò che si presta a misura, e più di ciò che può essere percepito. Per noi, anche un singolo atto, un pensiero, un’emozione, innesca una catena di eventi che muterà per sempre l’intera storia dell’universo. È uno dei significati del termine Karma.
L’essere umano è solo una collezione funzionante di cellule, capace di crescere e riprodursi? Questa, al solo mettersi d’accordo, per convenzione, potrebbe essere la definizione di una macchina molto più complessa di una meccanica, e le cui parti, anziché essere dure, sono mollicce, una macchina biologica. Nella macchina meccanica, la finalità è estrinseca, le viene assegnata dal costruttore; ma, anche a voler accettare la definizione di macchina biologica, chi attribuisce finalità all’uomo? Non potrebbe essere che l’uomo stesso. Ma quale finalità può attribuirsi un ente che vede se stesso come una sofisticatissima macchina biologica, semplice risultato accidentale dell’assoluta cecità del caso, il cui imperativo primario è la sopravvivenza? Nessuna finalità, mi pare, salvo quella di continuare a vivere per il solo scopo di continuare a vivere. Vero è che, avendo alla spalle, come origine, l’assoluta mancanza di senso della casualità, e davanti, l’annientamento, dopo aver fatto di tutto per procrastinarne l’avvento, nel mentre, un tale uomo può sempre cercare di tirar fuori dal cilindro della mancanza di senso dei “valori”. Lo può e anzi, deve farlo, per simulare un fondamento che la sua origine gli nega, e anche perché, non potendo sottrarsi alle lusinghe della vanità, non gli costa più di tanto attribuirsi un potere demiurgico. Questo, più o meno il suo pensare:
“D’accordo, ho vinto alla lotteria cosmica, sono sorto dal nulla per due straordinari accidenti: il primo, a quanto pare, un grandissimo botto, miliardi di anni fa; poi, col passare del tempo, sfregandosi un sasso di qua con uno di là, colpita la materia inerte innumerevoli volte da fulmini, tra sfregamenti e piogge di saette, prima dal nulla di nulla, e poi dal nulla di nulla di informazione, per via di innumerevoli combinazioni e ricombinazioni di non vita, nasce la vita, miracolo operato dal Demiurgo mutamento. Nel mentre, il calendario scorre, e pagina dopo pagina, nato già miracolosamente come enzima, mi ritrovo qui a raccontare a un me stesso, reso intelligente dal semplice passare del tempo, quanto sono stato fortunato”.
Avrà capito che mi sto riferendo alla filosofia darwinista, che è lo sfondo su cui muove la visione del mondo occidentale, e probabilmente si starà chiedendo cosa c’entri. Vedrà che c’entra, come c’entra quanto accadde circa un secolo prima, sempre in Europa, quando per la prima volta nella Storia umana, con un filosofo, Thomas Hobbes, viene concepito, studiato e poi realizzato, un assetto politico in cui Società e Stato sono separati. Il che porta all’esatto capovolgimento dell’ideale platonico e non solo; ma di quello di tutte le civiltà precedenti a quella occidentale moderna. Per gli occidentali, e per tutti coloro che sono stati occidentalizzati, è tanto naturale che sia così, da trovare incomprensibile la questione, e invece essa è capitale, in generale, e quindi anche per il tema particolare che oggi trattiamo. I vostri storiografi, salvo lodevolissime eccezioni, quasi sempre silenziate, applicano il termine “Stato” a istituzioni che nulla hanno a che vedere con ciò che oggi, appunto a partire da Hobbes, si intende. Con questi, nasce l’idolatria statuale, tanto che il mostro Leviathan, lo Stato, viene appellato “dio in terra”. Mentre, in tutte le civiltà antiche, grossomodo fino a tutto il medioevo, la società e l’uomo furono concepiti come manifestazione e dispiegamento nel mondo di un Principio Trascendente, e totalmente dipendenti da tale Principio; tanto che Platone, ne “Le Leggi”, scrive che le città rette da semplici mortali, anziché da un Principio Divino che si incarna nel saggio,”… non possono scampare dai mali e dalle sofferenze …”. Questo Principio, in greco si chiama Nomos, e trova esatto corrispettivo nel sanscrito Dharma, e nel cinese Li. Nomos, con la sposa Pietà, concepisce Giustizia, e lo stesso è per Dharma, ove la Misericordia precede il rigore.
Inoltre, nel tipo di società antica era assente e impensabile – al più immaginato come una mostruosità – il soggettivismo individualistico, per cui si danno per esistenti degli elementi umani atomici, la cui collezione o sommatoria fa la società. Come vede, questo è ancora il modello meccanico di società, ove nasce un soggetto titolare di “diritti inalienabili”, i quali, dato che cozzeranno ineluttabilmente coi “diritti inalienabili” di altri, saranno regolamentati dallo Stato, solo capace di evitare l’esito distruttivo delle conflittualità; che, comunque, per quanto sottoposte a regole, rimangono la regola, mi perdoni il bisticcio. In tale mondo, dunque, in forza delle premesse, le parti costituenti saranno sempre in confitto, anziché in mutua correlazione e cooperazione, come in ogni organismo sano.
Infine, la società moderna si distingue per la completa mancanza di finalismo, che, al contrario, costituiva la trama e l’ordito delle società prerinascimentali. In queste, la finalità ultima, cui tutto fu sottoposto era la realizzazione in Terra dell’archetipo Celeste. Questa fu la visione, soprattutto, platonica, ma anche di tutti i Padri della Chiesa. Lo fu in Oriente, fino a pochissimi anni fa … ma è tempo di raccogliere i frutti della digressione.
Come vede, Mr. Francesco, siamo in presenza di due visioni radicalmente diverse della vita, del mondo, dell’uomo e della sua collocazione nell’universo. In una c’è organicità, fondamento, e finalità. Nell’altra, come fondamento abbiamo la totale cecità del caso; come finalità individuale troviamo la medesima cecità del fondamento; come relazionabilità sociale abbiamo l’insuperabile conflitto tra diritti, sulla cui maggiore o minore legittimità si ergerà sempre l’autorità ultima e insindacabile dello Stato. (Qui ebbe luogo una lunga digressione sul marxismo, cui non penso neppure di accennare). Nel secondo caso, schematizzando, l’essere umano potrebbe essere descritto come un tubo digerente razionale connotato da capacità linguistica; con, nella parte superiore, un dispositivo di calcolo, sensori di rilevamento ambientali, e un orifizio d’approvvigionamento. Nella parte mediana, una serie di organi deputati alla metabolizzazione. Nella parte inferiore, un organo per la riproduzione e l’espulsione di residui liquidi, e uno per l’espulsione di residui solidi. Lungo tutto il tubo, infine, un sistema nervoso che, lavorando in concerto col dispositivo di calcolo su in cima e la capacità linguistica, fa del tubo un ente che tende a massimizzare la durata temporale della permanenza in vita, fare progetti, riprodursi, minimizzare il dolore e massimizzare il piacere. Le relazioni tra tubi, nella misura in cui non regolate dallo Stato, lo sono da qualcosa di più sfumato e meno coercitivo che si potrebbe definire etica; la quale, come che sia, non potrà trascendere i limiti ontologici che determinano l’esistenza dei tubi medesimi: all’inizio il nulla, alla fine il nulla, nel mezzo il tentativo di far durare il più a lungo possibile l’intervallo tra i due nulla, avendo cura di massimizzare gratificazioni e piaceri. Ora, la capacità di computo e quella linguistica, assieme all’imperativo di portarla alle lunghe quanto più possibile, ha fatto balenare ai tubi più intelligenti la possibilità di battere la morte, e trasformarsi in qualcosa di simile a quelle divinità cui credevano i superstiziosi tubi di un tempo. Vivere senza fine, procacciandosi da soli quegli ineffabili piaceri che i vanesi di una volta credevano fossero elargiti, per Grazia, dalla Divinità, nei suoi Paradisi. Mi ha seguito, Mr. Francesco”?
F“Sì, credo di aver capito”.
“Bene, vedrà presto come tutto questo ci riporta al cancro. Ciò che ho descritto prima, si chiama transumanesimo, ed è l’esito ineluttabile dell’umanesimo. Esito tragico, senza dubbio, ma che prova, almeno, che l’essere umano, per quanto ridotto alla condizione di bruto tecnologico, è fatto per l’Infinito, e al suo richiamo non potrà mai sfuggire. Se recidi il legame con l’Infinito vero, la sua nostalgia ti perseguiterà senza sosta, fino farti perseguire la più orrenda e diabolica delle illusioni, il tentativo titanico di trasformare il finito in Infinito!!
(Chi ha memoria del mio precedente articolo, avrà probabilmente notato la convergenza con tutti i temi trattati col monaco ortodosso, salvo la maggior ampiezza dell’orizzonte del Pandit; fatto che potrebbe essere accidentale, dato il minor tempo dedicatomi dal monaco. In ogni caso, tra i miei due interlocutori correva un’abissale differenza di modi, di stile, di relazionalità. Il primo, il monaco, era ieratico, formale, disincarnato, ultraterreno. Il Pandit, a parte il primo impatto, che me lo fece vedere come il salumiere della réclame Citterio, era impossibile da classificare. Salvo che su un punto. Il distacco da tutto ciò che si potrebbe definire umano, nel Pandit, era assoluto; mentre, nel monaco, nella mia modesta opinione, esso rimaneva condizionato dai limiti di una certa “forma”, che, per quanto spiritualmente eccelsa, permaneva e condizionava comunque. Il Pandit, al contrario, era talmente scarnificato, da non aver nessuna necessità di sembrarlo. La sua spontaneità era quella di un bambino, esaltata da una saggezza la cui sola ombra abbagliava. Scherzava di sovente, a volte sorrideva, faceva le cose in modo quasi giocoso. Eppure, in costui, la presenza del Sacro era più concreta di un sasso stretto nella mano).
F”Mi par di capire che, allora, mi scusi se semplifico, che i guai cominciano prima di Hobbes…”.
P”Sì, ha semplificato troppo, e forse io mi sono espresso in modo troppo sintetico. Molto più che delle idee di singoli autori, si tratta di un clima culturale generale, che può essere descritto come segue: tutte le società conosciute hanno avuto come centro e fondamento una verità auto evidente: il finito deriva – per negazione, logicamente, per abnegazione, metafisicamente – dall’Infinito. L’infinito, dunque, è stato per queste civiltà la ragion d’essere, il principio e la fine, alfa e omega. Analoga cosa per il relativo nei confronti dell’Assoluto. La fine del Medioevo, in Europa, ha segnato anche la fine di queste società. Ma tutto ciò non è avvenuto nello spazio di un mattino. In quel periodo di passaggio che fu l’umanesimo rinascimentale, furono ancora presenti, ed anzi si rivelarono con una luminosità talvolta abbagliante, i Principii e le Verità perenni; come gli ultimi bagliori di un crepuscolo. Penso, per semplificare, a figure grandiose come Cusano e Ficino, e l’altrettanto grandiosa intuizione della “Prisca Theologia”. I veri secoli bui cominciano proprio con l’occultarsi di quei Principii e di quelle Verità. Non è più il Divino il centro e il fondamento, ma l’umano. Nomos si nasconde dietro le quinte della Storia, e comincia l’epoca dei condottieri, dei capipopolo, dei bottegai, dei professori universitari, dei banchieri, degli Imperi comandati dal denaro. L’umano, non più limitato da nulla, si espande. Espandendosi, crea sempre più nuovi strumenti per seguitare a espandersi. Crescere per trovare sempre più nuovi modi per continuare a crescere. Abbattere, frantumare i limiti, spianare le alture, e scavare le pianure, invadere casa altrui, scardinandone le porte. Tutto ciò, per tramite di una Scienza – della cui natura, se vuole parliamo in altra occasione – che non troverebbe finanziamenti, se non fossero garantite quelle applicazioni tecnologiche capaci di far continuare e magari moltiplicare espansione e crescita, a beneficio dei finanziatori stessi. Tenga a mente questi due termini: crescita, espansione.
Conquistare i mari, poi lo spazio, domare la natura, sconfiggere questo, sottomettere quest’altro… E’ un linguaggio marziale, senza dubbio! Sembra che l’uomo fondatore di se stesso non concepisca altro rapporto che il potere-dominio; e non solo con la natura, ma, come conseguenza dell’atomizzazione sociale sopravvenuta con la perdita del Nomos, con ogni suo simile. Tutto ciò che nel vecchio mondo era unito dal potere attrattivo-formativo del Centro, trascendente ogni moto centripeto delle singolarità, adesso è ineluttabilmente scisso. Di conseguenza, le stesse individualità, oramai svincolate da ogni relazionalità organica col tutto, col passare delle generazioni, tendono a perdere la stessa idea di identità, di appartenenza, di Storia. E’ l’uomo moderno, che, proprio uno dei “maestri” che ha contribuito a crearlo Herbert, Marcuse, ha definito uomo a una dimensione. Dimensione, peraltro, che tenderà ineluttabilmente a perdere, dato che, reggendosi oramai soltanto su se stessa, residuo e moncherino di una vera forma, verrà schiacciata dalla mostruosità del peso che dovrebbe sopportare.
Crescita, espansione, ricordi.”
F”Ho già sentito un discorso simile. Lei sta sostenendo l’esistenza di un rapporto di continuità, a ogni livello, tra la parte e il tutto. Nel senso che tale rapporto è costante, reale, al punto che una sua alterazione cambia significativamente le caratteristiche dell’ambiente complessivo. E’ corretto?”
P“Sì, ha capito bene, di questo abbiamo parlato prima, e, per la verità, non mi pare qualcosa di così difficile da comprendere. Persino nei sistemi completamente meccanici, il disfunzionamento di una parte ha ripercussioni sul tutto”.
F”Sì, volevo essere certo di aver inteso. Avrei una domanda: Lei prima ha parlato di Nomos, a proposito del Principio ordinatore trascendente; ecco, non molto tempo fa, ho avuto una conversazione analoga, e il mio interlocutore ha definito tale Principio Entelechia. Mi piacerebbe …”.
P”Il suo interlocutore ha parlato a proposito, “Entelechia” è adeguato e pertinente. Rispetto a Nomos, fa riferimento alla dimensione, se così posso dire, immanente del medesimo Principio; accentuando l’aspetto di finalità. Veda, le parole, certo sono importanti, e infatti ho cercato di sviluppare i nostri discorsi all’interno del suo universo linguistico; avrei potuto far uso della terminologia sanscrita, sulla sfondo della cultura indiana, con risultati, probabilmente, ancora migliori; (questa affermazione non deriva affatto da sciovinismo culturale, nel nostro caso. Effettivamente, la “mappa” che descrive l’essere umano nella sua integralità è incomparabilmente più estesa e complessa nell’Induismo che in qualsiasi corrispettivo occidentale. Non esiste termine occidentale, infatti, limitatamente al nostro tema, che non trovi un esatto analogo in sanscrito; mentre il contrario, spessissimo, non si dà. Un esempio per tutti: “entelechia”, in sanscrito è reso da “sukshma-sharira”, mentre non esiste nessuna voce, in nessuna lingua occidentale, per le decine di termini che nella Tradizione Indù descrivono l’individualità sottile umana integrale. Salvo, in parte, che nell’ermetismo alchemico, che, non a caso, mutua dall’induismo, attraverso le Culture della fascia mediorientale. Non si dimentichi, per limitarmi a pochi esempi, che Alberto Magno scrisse numerosi libri sull’Alchimia, e che il suo discepolo Tommaso, proprio l’Aquinate, ne scrisse uno, “Trattato sulla Pietra filosofale e l’Arte dell’Alchimia”, nel quale ne dà un giudizio molto meno affrettato e superficiale che molti successivi apologeti e zelatori cattolici. Lo stesso Newton, non a caso, fu definito (da Keynes) “l’ultimo alchimista”, dato che di alchimia si occupò quasi quanto di fisica.)
ma non si attacchi troppo alle parole, le usi, non le serva. Quando vede un cartello stradale, cosa fa, lo abbraccia o lo segue? Stesso per le parole, sono un mezzo di comunicazione, non un fine; non ne faccia un feticcio. In effetti, salvo eccezioni, la filosofia occidentale moderna sembra essere diventata una disciplina in cui il parlare è diventato fine a se stesso; anziché un mezzo per raggiungere un obiettivo. D’altro canto, questo è inevitabile, date le premesse di tale filosofia: se non esiste alcuna sophia, se non c’è Verità e fondamento, mancando l’oggetto del φιλεῖν, resta solo l’inerzia, l’abitudine di parlare dottamente e in modo formalmente corretto”.
F”Signore, mi ha colpito particolarmente una Sua frase, con la quale mi pare abbia caratterizzato il nocciolo duro della mentalità occidentale moderna: “il tentativo titanico di trasformare il finito in Infinito”. Mi son venuti in mente i miti greci, Sisifo, Prometeo, Tantalo, le Colonne D’Ercole. I ciascuno di questi miti, l’uomo è messo in guardia dalle conseguenze del superamento del limite umano, sia biologico che cognitivo”.
P”Esatto, ha colto perfettamente il punto. Nei miti da lei citati, ciò avviene per furto, Prometeo e Tantalo, col raggiro, Sisifo, o con la sconsideratezza, le Colonne D’Ercole. In tutti questi casi, siamo in presenza di quel pervertimento dell’intelligenza che si chiama astuzia, accompagnato da quella tracotanza di se stessa che fa trionfare Hybris. La corruzione nasce sempre nell’intelligenza, e solo dopo, come conseguenza, diventa vizio morale. Tutti i mali nascono da lì; noi chiamiamo questo Avidya, Ignoranza; in un continuo e cronico processo di autoinganno, autonegazione, avente come esisto l’accettazione di questa mutilazione come “normale”. Sisifo, Tantalo, Prometeo, sono considerati degli eroi, nella sua cultura, non dei farabutti! Sisifo che crede di poter ingannare la Morte; Prometeo che ruba il fuoco degli dei, e Tantalo che ne ruba il cibo… Sono i trasgressori della Norma, del Nomos, e vengono additati come esempi…”.
F”Ecco, chiarito tutto questo, potrebbe per favore tirare le fila e tornare al cancro!!”
Mi guardò, come se la natura della mia richiesta lo incuriosisse, sorrise scuotendo appena il capo.
P”Mi perdoni, non vorrei sembrarle scortese: cosa c’è da chiarire?”.
F” Sono io a scusarmi, approfitto del Suo tempo, della Sua ospitalità, del Suo sapere, mi sento in imbarazzo. D’altra parte, non avrei fatto 8.000 Km., e non potrei sopportare questo clima … e il resto, se i temi che abbiamo trattato non fossero per me di vitale importanza; non tanto questo del cancro, ma tutti gli altri. Il cancro, però, mi interessa per una ragione che Le dirò appresso, una volta che vedrò tutto definitivamente chiaro…”.
Fu quella la prima volta che vidi nel Pandit una trasformazione radicale. Scosse il capo, chiuse gli occhi a lungo, sprofondò in un “luogo” ancora più remoto di quello in cui avevo visto scomparire il monaco di Valaam. Eravamo al ruscello, quella mattina; per il tempo che durò, tutt’intorno il pullulare tropicale di rumori, stridii, l’orchestra della sterminata fauna, lo stesso sommesso scorrere delle acque del ruscello, tutto, tacque. In quel silenzio terrificante e pacificante, assolutamente impossibile da descrivere, che si conosce solo in presenza del vero Sacro. Era di colpo caduto pure il vento.
Poi:
P“Né il tempo, né l’ospitalità, né il sapere, sono miei. Lei, poi, non si deve scusare di nulla, anzi. Così come un buon cristiano vede nel pellegrino lo stesso Cristo, non una Sua allegoria, ma Cristo-Cristo, io vedo in lei il Signore Shiva alla mia porta; forse per ricordarmi che ci potrebbe essere della superbia nel mio isolamento. Forse. Per quello che posso, cercherò di soddisfare ogni sua richiesta. Vediamo … se un tale frantuma, intenzionalmente o per disattenzione, un vaso, che rilevanza filosofica ha il chiedersi quali sono le leggi fisiche cha hanno portato alla frantumazione? Chi ha frantumato il vaso, poi, anziché chiedersi cosa ha portato alla sua rottura, mette in campo mirabilie di ingegno per cercare di ricomporre i cocci. Ha senso? Se, come abbiamo visto, ogni cosa è legata a ogni altra cosa, in una rete di rapporti nella quale il particolare è gerarchicamente subordinato al generale, e il generale all’universale – il Nomos o Sanathana Darmha – come può la violazione radicale del Principio che rende viva quella rete non avere ripercussioni su ciascuno degli elementi di ciascuno dei piani sottostanti a quello in cui ha avuto luogo la violazione? Per cui, la vera domanda è: esiste, o è una frottola, questo ordinamento gerarchico del Cosmo da voi definito Nomos? Se esiste, la risposta alla questione cancro, e molte analoghe, è stata data; se non esiste, ci si trova in quel mondo privo di principii, di fondamento, di senso, di finalità, di Verità, che abbiamo tratteggiato prima. In tale mondo, il solo scampo al nulla è il tentativo di trasformare il contingente nel permanente, il relativo nell’Assoluto, il finito nell’Infinito. Ma per fare questo, ossia per abolire i limiti intrinseci del finito, devi necessariamente forzare le forme, che per definizione sono finite, oltre le loro possibilità, fino al punto di rottura. Una volta rotte, si prosegue forzando ulteriormente la natura oltre i suoi limiti, allo scopo di riparare le forme frantumante in precedenza. In una spirale dalle volute sempre più strette, fino all’autodistruzione. I miti insegnano, ma i ciechi non vedono”.
F”Grazie, Signore … l’errore, dunque, esattamente dove nasce?”
P”Guardi, ce lo avete sotto gli occhi da millenni, nel vostro Testo Sacro fondante, il Mito della Caduta, per cominciare. Ogni rivelazione ha Miti analoghi; non ricorda, ne abbiamo parlato due giorni fa?”
(Ho completamente omesso questa parte, per ragioni di spazio, ma visto che in questioni del genere tutto si tiene, questa è l’occasione per accennarne).
F”Sì, certo, ricordo, è tutto registrato, tuttavia … magari…”.
Sorrise.
P“Vediamola da quest’altro punto di vista. Lei mi chiede da dove nasce quell’errore, domandiamoci allora qual è il contrario di quell’errore. Nessuna Civiltà della Storia, prima della barriera temporale e geografica di cui abbiamo parlato – grosso modo il XV° secolo europeo – ha lontanamente pensato di trasformare il contingente nel permanente, il relativo nell’Assoluto, il finito nell’Infinito; anzi, l’essenza di tali Civiltà, consisteva esattamente nel contrario: primariamente, l’accettazione della contingenza; come conseguenza, epistemologicamente, l’impossibilità di dar senso al relativo in assenza di un collegamento vivente con l’Assoluto; spiritualmente, lasciarsi possedere dall’Infinito, anziché cercare di possederlo. Questo, tornando al tema della sofferenza e delle malattie degenerative, è il solo ambiente salubre per l’essere umano, il solo che non urti la norma creata, per le creature, che potremo chiamare Entelechia o Anima Mundi, e quella increata che fu chiamata Nomos”.
F”Sta dicendo che una volta ci si ammalava meno di cancro?”
P”Senza il minimo dubbio! C’era risonanza, non dissonanza, tra uomo, società e cosmo”.
(Come si vede, e come avevo anticipato nel primo articolo, la posizione del Pandit è esattamente sovrapponibile a quella del monaco Ortodosso. Per ragioni di spazio, non posso riportare le Sue risposte a proposito della “problematicità” della presenza di malattie degenerative, nei grandi santi, nei bambini e negli animali. Con dettagli e approfondimenti maggiori che col monaco, le posizioni del Pandit risultarono identiche a quelle del primo. Ma non posso chiudere, senza accennare al fondamento teorico della Sua posizione, che fra l’altro, è analogo quello della teodicea. Ne accenno soltanto).
F”Non mi è però ancora chiaro perché tutto ciò accade. In sostanza, credo di aver capito il Suo punto di vista sul cosa ha portato a questa involuzione: l’offuscamento del Nomos, che ha come conseguenza la perdita di coesione in ogni ambito, dalla sfera politica, fino alla cellula. Bene, posto che così sia, mi chiedo perché, che vantaggio si ricava ad abbandonare il meglio per il peggio?”
P”Davvero non si accorge che siamo nuovamente tornati al cosiddetto “problema del male”? Chiedersi che vantaggio si ricava ad abbandonare il meglio per il peggio, è lo stesso che chiedersi perché tra il bene e il male si compie il male; o, se preferisce, tra Nomos e Caos si abbraccia il Caos. Il che è lo stesso che chiedersi perché l’essere umano è fallibile. E’ fallibile di necessità, a causa della sua intrinseca imperfezione, la quale deriva dalle sue limitazioni, prima di tutto intellettive, e secondariamente etiche. E’ limitato dalla sua stessa natura di ente tra altri enti, i quali enti si limitano e definiscono a vicenda e simultaneamente. Un ente illimitato non sarebbe un ente, non sarebbe né predicabile linguisticamente, né comprensibile razionalmente; un tale non-ente, tuttavia, può essere colto in modo non mediato tramite quella facoltà definita da voi Nous e da noi Buddhi, detto per inciso. Pertanto, non solo l’essere del male nel mondo, ma persino l’ineluttabilità sua presenza nella condotta umana, sono necessari. Qui non c’è ragione di tornare alla questione della responsabilità etica e del cosiddetto libero arbitrio, ne abbiamo discusso a sufficienza giorni fa, ma trova attinenza definire il significato metafisico del male e del peccato. “Peccare”, credo lo sappia, vuol dire semplicemente “mancare il bersaglio”. La stessa nozione di bersaglio, rimanda ovviamente alla finalità. Quale? Tornando a bomba al tema, la finalità è la sottomissione volontaria al Nomos, atto in cui, teologicamente, la volontà di Dio e quella dell’uomo coincidono. Coincidendo, le due volontà si fanno una, e l’uomo realizza se stesso, letteralmente, ossia diventa reale, nel senso metafisico del termine, quello giovanneo, per intenderci, o quello vedantico, che è identico a quello giovanneo. Ma allora, perché fallisce l’uomo, perché pecca, perché compie l’atto più contrario ai proprio interessi che sia concepibile? Siamo di nuovo alla responsabilità etica e al dilemma cosiddetto libero-servo arbitrio, di cui abbiamo discusso. Ma qui preme maggiormente comprendere cos’è che rende possibile quel dilemma, e, dunque, definitivamente, da dove salta fuori il male come è possibile il male. Abbiamo già visto che l’essere umano non può non essere fallibile, vista la sua intrinseca imperfezione e limitazione; questo spiega perché pecca, fallisce, ma non perché, fallendo, compie il male. Agostino offre una soluzione che è vera e falsa allo stesso tempo; vera per quello che afferma, falsa per quello che nega. Mosso da sacro zelo dialettico, non si accorge che la dottrina manichea – contro la quale giustamente combatte – è assurda per una ragione diversa da quella da lui pensata. L’insostenibilità logica del manicheismo sta nel postulare due principi assoluti; nell’abbagliante contraddizione che qualsiasi dualità non può che essere relativa e i suoi termini reciprocamente auto-definenti. Che il male sia assenza di bene, come Agostino sostiene, poi, è tanto vero quanto banale, e non vale certo a dimostrare la sua inconsistenza ontologica; salvo assumere per vero – però in assenza di una qualsiasi dimostrazione, per puro atto di fede, e cacciandosi in una contradizione insuperabile – che solo il bene è. Infatti, nulla, logicamente, vieta l’assunzione della tesi opposta: che il bene sia assenza di male, e che esso, il bene, non abbia consistenza ontologica, e solo il male è. Anche questo sarebbe comunque un atto di fede, e anche in questo caso ci saremmo contraddetti. Semplificando, i manichei assolutizzano il relativo, postulando la possibilità di due principi supremi; Agostino, immaginando che la Divinità necessiti della sua apologia, non si accorge che finisce per negare l’essenza stessa della Creazione, che è il dominio degli Enti, i quali non possono non essere relativi, e con essa nega la reciprocità ontologica di tutte le diadi, comprese le ipostatiche, in questo caso il bene e il male. Affermare che se non c’è luce c’è buio, oltre a essere vero nella stessa misura in cui è banale, priva il buio di realtà ontologica? E perché, allora, non il contrario? Agostino, compiendo un errore di cui la filosofia occidentale non si libererà mai – salvo che nei grandi mistici, non a caso quasi sempre in odore di eresia – crea un problema insolubile, tuttavia, reso tale perché insistente. In parole povere, se il buio non fosse, la luce non potrebbe risplendere, giacché la luce non può illuminare se stessa, ma esercitare la sua azione solo su ciò che non è luminoso o è meno luminoso. Perché luce sia, insomma, occorre una opposizione, un contrasto con la non-luce. E lo stesso vale per il contrario, il buio; in un ambiente assolutamente e perennemente buio, non potrebbero esistere né la nozione di buio, né quella di luce. Per un cieco dalla nascita, infatti, non hanno senso entrambi i termini. Prendiamo una scacchiera, può esserne pensata una con 64 caselle bianche? Impossibile, non solo non ci sarebbe alcuna casella, ma, se il piano non fosse limitato da qualcosa (creando quindi un contrasto) non ci sarebbe neppure alcun piano e alcun colore, ma un “quid” indeterminato, impossibile da cogliere con dianoia, che opera solo nel mondo duale, nel mondo delle polarità, dei contrasti. Ergo, ci vogliono 32 caselle bianche e 32 nere. Chi, a che titolo, per quale ragione, e con quali ragioni, può decidere e poter dimostrare che uno dei due colori non ha consistenza ontologica? In realtà, proprio gli scacchi sono un’illustrazione e un’epitome, in forma di gioco, dello stesso Cosmo; un gioco in cui né il nero né il bianco possono vincere definitivamente, giacché se uno dei due colori annientasse l’altro, il gioco finirebbe, il Cosmo stesso sarebbe annientato. … (Seguì una disgressione. Il Pandit – che si ricorderà conosceva il cinese arcaico e il mandarino, ed altrettanto la filosofia cinese – mi spiegò, sostenendo di averne raccolto le prove, che, contrariamente all’opinione comune, gli scacchi non erano di origine indiana ma cinese; che la suddivisione in 64 caselle non era casuale, ma rimandava ai 64 esagrammi dell’I-Ching – che furono “reinterpretati” matematicamente da Leibnitz e successivamente da Boole – e che ciascun pezzo aveva un significato sapienziale. Pochi anni dopo, scoprii che le medesime cose erano riportate in un saggio di Titus Burckhardt, “Simboli”)…
Pertanto, le domande “Si Deus est, unde malum, si Deus non est, unde bonum?”, sono prive di senso. Il bene e il male, la sofferenza e la gioia, ecc… sono consustanziali all’esistenza del mondo. Per cui – senza uscire dalla prospettiva teologica e monoteista, che comunque non è la sola possibile – una domanda apparentemente sensata, semmai, potrebbe essere:“ Perché Dio ha creato il mondo?” Ma questa sarebbe una questione diversa dalla teodicea del male e della sofferenza, e ne tratteremo, se gradisce, in altra occasione. In ogni caso, scettici e atei, alla luce di quanto abbiamo discusso, dovrebbero abbandonare il vecchio strumento di Epicuro, comunque elaborato, e riformulare la domanda, più o meno come segue: “Se Dio, non potendo ignorare che è impossibile creare un mondo privo di male e sofferenza, lo ha creato lo stesso, non è Egli, quanto meno, non buono? Rimarrebbe comunque onnipotente, giacché, logicamente, l’incapacità di compire l’impossibile non limita l’onnipotenza; ma almeno risparmierebbe la sofferenza e il male a chi non ha chiesto di essere creato”. Ma, ripeto, questa è una questione differente; non riguarda, infatti la responsabilità di Dio nell’esistenza del male e della sofferenza; ma quella nell’aver creato il mondo, che è cosa ben diversa”.
F”Uhm … l’ho seguita con estrema attenzione, e in effetti, pur ripromettendomi di rifletterci a lungo, sembra che le cose stiano precisamente come Lei sostiene. Ma proprio per questo, credo che Lei si sia messo in trappola da solo; nei termini in cui ha formulato la questione, non vedo come possa sottrarre Dio alla Sua responsabilità, e quindi minare alla radice il concetto di infinità bontà”.
Nel mentre, per via dell’arrivo della pioggia, eravamo rientrati. Stavamo seduti per terra, l’uno di fronte all’altro. Quella fu la prima e sola volta che vidi ridere (quasi) a crepapelle. Non era una risata di scherno, cioè una finta risata, era davvero divertito, e ci mise un po’ per calmarsi.
“Si sbaglia completamente, ne riparleremo. Adesso vorrei davvero tirare le fila del tema di queste ultime ore. Bene, lasciamo perdere chi sia l’autore del quadro che abbiamo davanti e quali siano le ragioni che lo abbiamo spinto a crearlo. Supponiamo di trovarci davanti a un capolavoro, mi viene in mente “La Vergine delle rocce”, di Leonardo; ma la stessa cosa vale anche per una réclame della Coca Cola, una volta afferrato il senso di quanto dirò. (Francamente, non avevo in mente quel quadro, ma gli feci cenno lo stesso di seguitare.) Ebbene, mettendo da parte il valore simbolico dell’opera e il genio pittorico di Leonardo, cos’è che ci permette di identificare il significato di quella scena? In fondo, è un’alternanza di luci, chiaroscuri, e ombre, a volte scurissime, come certe rocce o il mantello della Vergine. È la luce e la non-luce, in quella precisa disposizione e distribuzione, che fanno emergere il significato e ci narrano quella “storia”. Senza il gioco di luce e non-luce, avremmo nessun significato e nessuna storia. Ma per cogliere significato e storia devono essere presenti due condizioni;
prima, devi trovarti alla giusta distanza dal quadro;
seconda, deve essere presente in te quella facoltà che ti consente, attraverso la dialettica degli opposti, di creare una sintesi che trascende entrambi; tale facoltà è l’Intelletto. In essa trovi il senso, e, se c’è e nella misura in cui c’è, la Verità. L’importanza della seconda condizione è facile da comprendere; un po’ meno la prima, ma ci arriviamo subito con un esempio. Sia se stai troppo vicino a quel quarto, sia che troppo lontano, ne perdi la gestalt. Il tutto non è solo più della somma delle parti, ma aggiunge al modello rappresentato una dimensione, non solo quantitativa, che trascende qualitativamente, e non solo per addizione, quella delle singole parti. Questo è alla fine facile da capire quando ti trovi davanti a un quadro, o una montagna, o magari a un sistema non molto complesso; ma comprendere diventa impossibile, per la sensibilità e l’intelligenza umana, davanti allo scenario illimitato che chiamiamo vita. Ed è allora che gridiamo, perché il dolore? Signore perché tormenti le Tue creature? Perché mortifichi il giusto ed esalti l’iniquo? – Sorrise – Ed io chiedo, limitandomi solo alla prima delle condizioni precedenti: sei sicuro di essere alla giusta distanza? Se guardi quel quadro troppo da vicino, anziché il manto della Vergine Maria, vedrai solo una chiazza nera, magari angosciante e certamente priva di significato; ma se ti metti alla distanza giusta, dirai a te stesso “che sciocco, mi sono lasciato ingannare, quella macchia nera non è quello che sembra, guarda che meraviglia l’intero quadro!”.
F”Scusi, per un quadro, appunto, è facile ma come possiamo sapere qual è la “giusta distanza dalla vita”, visto che per determinarla dovremmo poter uscire dalla vita? Il che mi pare impossibile”.
P”Più che impossibile, è assurdo, e oltretutto non è necessario. La giusta distanza, la giusta prospettiva, la giusta visione, sono sempre presenti, ma resi non disponibili dalla semicecità della nostra mente in preda, cronicamente, ad automatismi, schiava del pensiero compulsivo e routinario, ottenebrata da passioni, dalla paura, dalla rabbia, dalla violenza, dai pregiudizi. Placa la mente e avrai la giusta visione. E allora capirai che il tuo dolore è come quella macchia scura nel quadro, un elemento di contrasto tanto più drammatico, quanto più eccelsa sarà la sintesi finale. Capirai che sei in preda a un inganno, un’illusione, una falsa interpretazione. Capirai che opporti all’ineluttabile, sempre se davvero tale, è opporti a ciò che sei veramente, al destino che fa di te esattamente ciò che sei, malattia e sofferenza comprese. Solo allora, se accetterai e abbraccerai ciò che voi chiamereste “Volontà Divina”, il dolore, esattamente come l’incomprensibile macchia nera del quadro, ti introdurrà al significato del Tutto”.
(Parlammo a lungo di questo punto, che potrei definire “metafisica della sofferenza”, ma devo tralasciarlo del tutto per ragioni di spazio).
F”Signore, Lei mi sconcerta, capovolge il senso comune, e lo fa sembrare insensato; mentre le Sue tesi appaiono ovvie e inconfutabili. C’è tuttavia uno iato fra quanto qui vado apprendendo e la mia esperienza di povero mortale; e questo mi porta all’ultima questione che Le avevo anticipato avremmo affrontato a proposito della sofferenza. Si tratta di un fatto personale, dolorosissimo, e tuttora irrisolto. Una mia conoscente, molto pia, senza ombra di bigottismo, colta, sensibile, devota e praticante cattolica, si ammala di cancro alle ossa. Col progredire della malattia, in questa donna avviene una trasformazione impensabile, ma, a quanto pare, di segno contrario a quella di cui Lei ha parlato. Da creatura angelica – a tratti, per fortuna, non sempre – si trasforma in qualcosa di demoniaco. La blasfemia, come regola, accompagnata da una produzione verbale tanto disgustosa, quanto terrificante. In breve, nei momenti in cui torna se stessa, mi implora di porre fine alle sue insopportabili sofferenze, neppure dosi enormi di morfina la placano più. Insomma, avrei potuto … ecco, avrei potuto soddisfare la sua richiesta, ma non l’ho fatto. Non pensavo che un essere umano potesse patire simili torture … solo in prossimità della fine, oramai sfinita, le fu concessa tregua. Ebbene, so cosa prescrivono la mia e la Sua religione a proposito dell’eutanasia, lo so. Ma da allora qualcosa in me ha vacillato, si è incrinato. Mi chiedo, signore, se ho compiuto un atto di giustizia, conforme alla volontà di nostro Signore, oppure se sono stato, semplicemente, un codardo, tanto pio, quanto fariseo e conformista. Non cerco consolazione, ma vorrei davvero conoscere il Suo punto di vista”.
Finimmo di parlare al tramonto, questa fu l’unica conversazione che non potei registrare. Mi portò fuori, a camminare sotto la pioggia monsonica, mentre gli scorpioni uscivano dalle tane, e chissà cosa saettava tra la fanghiglia. Non sentivo né il vento né la pioggia, né facevo caso agli scorpioni e al resto. Quello che mi disse troverebbe contrarie entrambe le fazioni, i pro e i contro l’eutanasia. I primi, dietro una pietas pelosa, nascondono il ghigno d’odio verso la vita e il disprezzo del Sacro; i secondi, purtroppo più spesso che il contrario, finiscono per far diventare disumano ciò che difendono in nome del Sacro, per come da loro inteso. In entrambi, per fortuna non sempre, la dimensione ultima e profonda dell’amore, secondo me, è assente.
Questo è, purtroppo molto ellitticamente, il resoconto dei miei colloqui col Pandit circa la sofferenza e il cancro. Quasi tutti i temi considerati sono stati accennati, e solo molto parzialmente argomentati; per cui, non mi sorprenderei se qualcuno trovasse discutibili alcune tesi del Pandit, qui penso soprattutto alla critica ad Agostino, un mostro sacro dell’ortodossia cattolica, in odore di ipse dixit. Personalmente, anche (ma non solo) perché a conoscenza della critica nella sua integralità, sono completamente persuaso che essa è fondata e inconfutabile.
Arrivò il giorno della partenza. Il pomeriggio precedente, dal telefono di un piccolissimo emporio nelle vicinanze, avevamo prenotato un taxi.
Mi svegliai di buon mattino, trovando il Pandit, come sempre, seduto per terra immobile davanti all’immagine di Shiva. Feci le mie cose, mi preparai. Non pioveva, quella mattina. L’uomo tirò giù dalle pareti l’immagine di Shiva, il testo di Paolo di Tarso, quello del Tao Tè Ching, quello della Bhagavad Gita, l’omonimo libro, e li ripose nella piccola cassapanca di legno. Era raggiante. Uscimmo, lui portò la cassetta, ponendola sopra un sasso, capii subito dopo perché: per proteggerla dall’umidità del terreno. Accartocciò la carta che era servita per i miei bisogni, ponendola dentro e attorno la cassetta, mi guardò, e mi avvicinò la scatoletta dei fiammiferi. Fu come se un maglio si fosse abbattuto nel cuore della mia sensibilità. In quella scatola di legno c’era tutto quello che aveva. Sorridendo mi disse:
P”Sarei davvero contento se fosse lei a farlo”.
Il fatto è che non riuscivo a muovermi, né a parlare, per via del nodo alla gola. Matteo, 19-34: “E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”.
Mi smossi, e feci la più stupida delle domande:
“Che vuol dire, che succede?”
“Da oggi divento sannyasin (asceta itinerante, senza dimora, senza tetto, senza niente, n.d.a.), lei sarà l’ultima persona a sentire la mia voce”.
F”E ai suoi non pensa? Non li rivedrà più?”
P”Loro sapevano che sarebbe presto accaduto, ne sono felici”.
“Allora, perché io mi sento così?”
Volse lo sguardo verso la sacra montagna, scuotendo appena il capo, sorridendo.
“L’acqua del fiume scorre, il fiume rimane. E’ un detto zen, che mette d’accordo, in meno di dieci parole, Eraclito e Parmenide. Ma soprattutto, risponde alla sua domanda”.
Come un automa, accesi un fiammifero e diedi fuoco. Comprendevo quella risposta, conoscevo quel detto, avrei dovuto essere felice per quest’uomo, capace di darsi con gioia alla povertà assoluta. Avrei dovuto, sapevo che stava per uscire dal tempo che divora i suoi figli, per essere abbracciato dall’eternità.
In pochi minuti non rimase che cenere.
F”E adesso cosa che succede, cosa farà?”
P”Adesso … adesso … seguirò questa strada”. (indicando lo sterrato fangoso)
F”E poi?”
“Ci penserà Il Signore, vivrò, e poi di sicuro morirò”.
Giunse la mani, in un profondo inchino*, feci lo stesso.
Lo vidi allontanarsi, camminava spedito e leggero, come un bambino, che finita la scuola ritorna a casa felice. Lo seguii con gli occhi finché non scomparve. Tornai a guardare le ceneri fumanti della cassetta. Il compimento supremo della vita, la distruzione dell’ego, consumato da un amore infinito, la cruna dell’ago. Quando la figura del Pandit svanì, seppi con certezza che non sarei più tornato, che sul corto orizzonte di quel sentiero fangoso, mentre il cielo caricava nubi di piombo, l’India e i suoi millenni mi avevano detto addio. Con un miracolo.
Di lì a poco, arrivò il taxi, e io tornai nella barbarie.
P.s.*
La ragione per cui gli indiani si salutano giungendo le mani e inchinandosi è che riconoscono nell’altro l’Atto Divino dell’esistenza consapevole, per cui, basta essere umani per essere segnati dalla Divinità. Non dovrebbe dare scandalo alcuno, né considerato troppo esotico; anche per noi dovrebbe essere la medesima cosa, dato che “essere figli di Dio” significa esattamente questo. Purtroppo, per noi “essere figli di Dio” è quasi sempre solo una formula da recitare; per loro, invece, è una realtà evidente e luminosa, come la luce del sole.
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Esperienza straordinaria e raccontata in maniera impeccabile, grazie Francesco m. Naturalmente il nucleo fondamentale di questa esperienza va decisamente oltre a quella che è la mia dimensione o a quelli che sono i miei limiti e/o le mie prospettive. Io non ho nessuna ambizione di ricerca di Verità assolute, la mia ricerca si limita semplicemente nell’inseguire la più accurata, utile e affidabile conoscenza possibile del mondo che mi circonda e in cui devo in qualche modo vivere, sopravvivere e condividere. In quanto alle variegate culture umane, io nutro grandissime perplessità sia per quanto riguarda quelle occidentali, sia, per quel poco che ne so, riguardo a quelle orientali, ma che scopro in parte grazie anche ai suoi interessantissimi racconti. Ma le chiedo in tutta onestà Francesco e mi scuso eventualmente per la franchezza, da queste esperienze, lei non ha mai avuto il dubbio di trovarsi di fronte a persone con evidenti disturbi psicotici? Guardi che la mia domanda è perfettamente seria e non provocatoria, nè ironica.
Io ho trovato i pensieri di questo indiano di grande saggezza e serietà. Per curiosità, Vomiero, che cosa può far pensare che sia una persona “con evidenti disturbi psichici”?
La devo correggere Nadia, io non ho detto disturbi psichici, ma psicotici, e il termini psicosi ha un significato ben preciso che potrebbe benissimo adattarsi a moltissime persone nel mondo. Psicosi:Insieme di condizioni psicopatologiche gravi contraddistinte dalla perdita del contatto con la realtà e delle capacità di critica e giudizio, dalla presenza di disturbi pervasivi del pensiero, delle percezioni e dell’affettività e da una compromissione delle abilità e delle relazioni sociali. Pertanto mi chiedevo se Francesco m abbia mai potuto rilevare in questa persona qualche elemento comportamentale che gli potesse fare venire il dubbio, a parte la profondità e la saggezza del contenuto dei discorsi, che non metto in dubbio, anche se comunque, ovviamente, in molti punti quantomeno opinabili Per esempio io avrei perlomeno chiesto: e quanto tempo passa seduto per terra, immobile, davanti all’immagine di Shiva?
I disturbi psicotici, cioè da psicosi, che è una malattia della psiche secondo la psicologia mainstream, sono una parte dei disturbi psichici.
Comunque grazie Vomiero, secondo lei sarebbe un possibile disturbo psicotico passare molto tempo immobili, seduti per terra, in meditazione, magari davanti ad un’immagine evocativa. A me, al contrario, questo appare la manifestazione di una grande padronanza della propria psiche, una prova assoluta di salute che io invidio all’indiano.
Preg.mo Dr. Vomiero,
i Suoi interventi e le Sue domande sono sempre benvenuti e pertinenti, Le risponderò punto per punto, appena ho un momento.
Qui anticipo solo questo: nella mia vita ho incontrato solo non più di cinque o sei persone del tutto sane di mente, una di queste è il Pandit.
Lo stesso, purtroppo, non posso dire di me, non essendo riuscito, finora, a liberarmi da quelle afflizioni o deformazioni mentali che sono, soprattutto, le passioni (da non intendere in senso parrocchiale e moralistico), e dalla scaturigine di tutti i mali e di tutte le illusioni: l’ego. Che altri stiano messi peggio di me, e che il mondo è un manicomio, non mi dà alcuna consolazione.
P.s.
Non ho chiesto al Pandit perchè passava il tempo immobile davanti all’immagine di Shiva, perchè conoscevo la risposta. La preghiera contemplativa, o meditazione, che è la medesima cosa, consiste nel rimanere con la mente totalmente centrata nel R-E-A-L-E, ossia nella Divinità. La fine del tempo, la fine del dolore, la fine della lacerazione, la fine delle domande. Casa.
Gentilissimo Dr. Vomiero,
Le ho scritto nel pomeriggio, come “francesco m”, ma il commento è scomparso, se lo ripesco lo riposto.
La ringrazio, Francesco, per questo articolo di Sapienza. Ahi, quanto è superiore la Sapienza, che insegna la verità e la vita, all’idolo che chiamiamo scienza, che ci dà solo maggior potere sulla natura, distraendoci dalla vita buona.
Sono mesi, anni, che ho la bozza di un articolo sul male (e di teodicea), ma non ho mai osato pubblicarlo perché mi restavano dei dubbi. Certo, la “spiegazione” di Agostino ha solo un senso retorico, penso che la definizione di male come assenza di bene non abbia mai convinto lo stesso suo autore. Ciò che mi ha fermato finora era che lo stesso scrivere del male mi pareva volerlo giustificare. Ora ciò che il Pandit Le ha insegnato, Lei lo ha insegnato a me.
Il male è indivisibile dal bene, è connaturato alla finitezza della creazione e all’interconnessione (che è fuori dello spazio e del tempo, entanglement) di tutti gli enti finiti. Per questo i comandamenti sono infine solo 2 anche per noi cristiani, come ci ha insegnato Gesù: volere il bene degli altri come vogliamo il nostro bene (questo è il secondo comandamento) e, prima ancora, amare Dio più di noi stessi, che vuol dire accettare la sua volontà – come precisamente Le ha detto il Pandit – a partire dal male di cui l’entanglement dell’universo ci può rendere vittime (e questo è il primo comandamento).
Grazie ancora, Francesco, di condividere con noi queste Sue esperienze di vita, che diventano lezioni di sapienza. Spero vivamente che continui a scrivere per noi ancora tanti articoli.
Grazie, Professore,
ho i soliti problemi con Disqus. Avrei piacere di risponderle, spero sempre di venire a capo della questione. Anche perché avrei da chiederle circa un punto affrontato col Pandit, riguardo l’Universo olografico di Bohm.
La non località è un’ipotesi scientifica corroborata. Ne ho parlato qui: https://www.enzopennetta.it/2017/05/il-giorno-del-feroce-attacco-di-einstein-alla-scuola-di-copenaghen/
L’universo olografico è consistente con la non località, ma non è sperimentalmente controllabile. Quindi è una credenza filosofica. Resto cmq a Sua disposizione, Francesco.
Sulla non località ritornerò in un prossimo articolo, anche perché ha una connessione con le argomentazioni classiche, aristoteliche e tomistiche, sull’esistenza di Dio e con l’obiezione di Kant nella Critica della ragion pura.
Grazie, Professore, del Suo tempo e della Sua disponibilità. Ho fatto caso che ha usato il termine “argomentazioni” al posto di “prove”, il che mi porterebbe a supporre che Lei, come me, pensa che una prova dell’esistenza di Dio, del tutto priva di fallacie, sia impossibile, salvo prima definire ciò che si intende per prova. Per esprimermi con un paradosso, se mai una tale prova filosofica arrivasse, temo che infliggerebbe un colpo mortale alla mia fede. Argomenti fondati e verosimili sarebbero solo un piacere intellettuale; per quanto presente nel mondo (diversamente questo non esisterebbe), l’essenza del Divino incenerisce le parole, o le fa diventare paglia, come disse Tommaso, dopo che gli fu concesso di “guardare di là”.
Credo di intuire il nesso tra la non località e gli argomenti dei tre filosofi da Lei citati, ma potrei sbagliare.
Grazie e buone cose.
Molto interessante come riflessione, e anche come è presentata la figura dell’Eremita.
Ho solo qualche dubbio, anche piuttosto esterni tema, che però vorrei esporre.
Il maestro induista sembra riconoscere piena validità alla tradizione occidentale, cristiana. Tuttavia questo atteggiamento non è reciproco (in linea di principio). Quando Francesco M dice:
“Oriente e Occidente, insomma; e non ci sarebbe nulla di male, se non
fosse che il secondo pretende di insegnare tutto al primo, di
primeggiare sempre e comunque”,
giustamente questa frase suona come una critica alla nostra società scientista e tecnologica. Ma a ben vedere questo atteggiamento comincia già con il cristianesimo. Cosa pensare del principio “nulla salus extra ecclesia”. Che cosa ne pensa l’eremita della storia?
Tantopiù che questo non sembra essere un retaggio della Chiesa medievale, entro certi limiti vale già per la Chiesa primitiva. Se tutte le tradizioni hanno la possibilità di portare alla salvezza (o al suo equivalente in lingua sanscrita), cosa ci è andato a fare San Tommaso in India? E cosa avrebbe pensato un San Paolo del nostro eremita che, sì, tiene un pezzo della sua lettera appesa in camera, ma fa una cosa ai suoi occhi inaccettabile, anzi perversa, si inginocchia di fronte ad un idolo. Qualcuno sa come uscire da questa contraddizione? Di certo l’incontro tra le due tradizioni sarebbe più facile se si riuscisse a fare chiarezza su questo “esclusivismo” occidentale.
Gentile Zimisc, era inevitabile che la questione da Lei posta sarebbe venuta fuori. Affrontarla con una qualche possibilità di risolverla, porterebbe via troppo spazio, magari in altra occasione. Qui, limitandomi ai fatti, posso dire questo: lo sciovinismo religioso caratterizza solamente i tre monoteismi abramitici, ed è praticamente assente presso le altre Tradizioni spirituali. Ciascuno di questi monoteismi ha elaborato nei secoli tutto un armamentario dottrinale e dialettico, per dimostrare che la propria è la sola, vera ed unica religione, mentre le altre sono soltanto degli abbozzi, se non peggio. Provi a parlare con un musulmano, o un ebreo! Crede che un musulmano o un ebreo siano meno convinti di un cristiano che la loro sia la sola vera religione? E allora, come si risolve la cosa, a braccio di ferro?
Per converso, ho conosciuto rappresentanti qualificatissimi dell’induismo del taoismo, del buddismo, e n-e-s-s-u-no si è mai sognato di squalificare il cristianesimo, l’islam, o l’ebraismo. Anzi, non solo il rispetto, ma soprattutto il riconoscimento integrale della loro verità e completezza di Vie spirituali è stato sempre esemplare.
Sono i monoteismi ad avere problemi con le altre Vie, e sopratutto tra di loro; ci si dovrebbe chiedere, una domanda tra molte, come mai Gerusalemme è stata sempre una polveriera, e oggi più che mai. Per fortuna, non tutti i cristiani patiscono di un orizzonte così limitato, penso, nella modernità, a figure eccelse come come Padre Thomas Merton o Raimon Panikkar, per il passato, nel mio articolo viene citata la Prisca Theologia.
Ci si dovrebbe chiedere, fra l’altro, quanto di spirituale ci sia nel negare ad altri un privilegio di cui ci si auto proclama titolari esclusivi.
Naturalmente, conosco la posizione ufficiale della Chiesa Cattolica, e, semplicemente, non la condivido, perché la ritengo impossibile da sostenere con piena cognizione di causa. Conosco anche TUTTE le obiezioni, nessuna esclusa, che potrebbero essere mosse a quanto ho sostenuto; dovesse presentarsi l’occasione, con interlocutori sereni preparati e non belligeranti, potrei replicare senza difficoltà.
P.s.
Nel nostro caso, il relativismo (arma spuntatissima, nel contesto) non c’entra nulla di nulla; mentre c’entra la relatività e molteplicità (ineluttabili) delle forme, e l’unicità e l’assolutezza della Sostanza.
Anche se non ho una cultura molto approfondita su questi argomenti, sono molto d’accordo con quanto dice. Spero di poter leggere la sua risposta alla mia domanda di ieri, come spero, con il tempo, di poter sapere qualcosa di più su di lei e sulla sua vasta cultura.
Farò il possibile nel pomeriggio, adesso sono pressato da minutaglie.
I Suoi interventi e le Sue domande sono sempre benvenuti e pertinenti, mi è al momento impossibile risponderle come meriterebbe, ma confido che ci si possa confrontare su tutto quanto col tempo.
Qui anticipo solo questo: nella mia vita ho incontrato non più di sei o sette persone del tutto sane di mente, una di queste è il Pandit.
Lo stesso, purtroppo, non posso dire di me, non essendo riuscito, finora, a liberarmi da quelle afflizioni o deformazioni mentali che sono, soprattutto, le passioni (da non intendere in senso pretesco e moralistico), e dalla scaturigine di tutti i mali e di tutte le illusioni: l’ego. Che altri stiano messi peggio di me, e che il mondo è un manicomio, non mi dà alcuna consolazione.
Lei mi scrive che considera le tesi del Pandit profonde e sagge, ma allora, come mai si pone il problema della sua sanità mentale? Non si chiede, piuttosto, come facesse quest’uomo a non dormire, mangiare come un uccellino, ad avere l’erudizione di almeno dieci uomini colti, una memoria sterminata, un’umiltà ancora maggiore di erudizione e memoria, e soprattutto una bontà che non è di questo mondo?
P.s.
Non ho chiesto al Pandit perché passava il tempo immobile davanti all’immagine di Shiva, perché conoscevo la risposta. La preghiera contemplativa, o meditazione, che è la medesima cosa, consiste nel rimanere con la mente totalmente centrata nel R-E-A-L-E, ossia nella Divinità (che tale rimane anche se diversamente denominata). La fine del tempo, la fine del dolore, la fine della lacerazione primordiale, la fine delle domande, la fine di alfa e omega, il compimento.
Casa.
P.s.
Quanto alla mia “cultura”, Dr. Vomiero, è solo una partita di transito. Tranne due o tre cosette che potrei dire mie, si tratta solo di prestiti, lezioni che debbo alla generosità di altri, molti dei quali lontani nel tempo e nello spazio; che spero di ringraziare, un giorno.
Grazie Francesco. Le avevo fatto quella domanda, non banale, perchè il fatto che una persona possa essere intelligente, profonda e/o saggia, non include automaticamente anche l’integrità e l’equilibrio mentale. Ci sono persone intelligenti e colte che credono agli oroscopi, ai rapimenti alieni, alle scie chimiche per avvelenare l’umanità, all’omeopatia, che parlano con i cari defunti, che vedono madonne, santi e soli che ballano. Ci sono persone intelligentissime e colte che si sono suicidate, e ci sono persone autistiche che hanno capacità mnemoniche visive fuori dal comune, per esempio, quindi, come vede, le possibilità sono sempre tante. Per questo io ho imparato a guardare chiunque, e il pensiero di chiunque, con prudente sospetto e a non dare mai niente per scontato e, come avrà capito, anche a rifuggire istintivamente da ogni forma di estremismo e di fanatismo, così come da ogni forma di mito e autoritarismo. Quindi non conoscendo il suo interlocutore mi sono posto la domanda, non conoscendo le sue abitudini e i suoi comportamenti, perchè, converrà con me, che un conto sarebbe stare seduti per terra immobili a venerare per un ora, un conto sarebbe farlo per otto ore. E comunque ho anche detto che ci sono argomenti trattati dal Pandit quantomeno opinabili, anche se, certamente, ci vorrebbe troppo tempo discuterli qui, ora. Lei inoltre dice, “il REALE”, io direi piuttosto “il suo personale reale”. Secondo me.
Anche il Suo, Dr. Vomiero, il Reale di tutti e di tutto. Lei me ne chiede una prova e io Le dico come ottenerla. Ovviamente, nulla si dà per nulla, occorre fatica, impegno, motivazione. Partiamo da qui: Lei come giudica chi parla da solo, sempre, senza interruzione, ogni momento, per tutta la vita? Io lo giudico pazzo, presumo anche Lei. Inoltre, come può chi parla continuamente ascoltare qualcosa di diverso dal suo perpetuo cicaleccio autoreferenziale? Impossibile, vero?
Ora Le faccio poche, semplici domande: cos’è il pensare, se non un parlare silenziosamente tra sé e sé? Cosa fa la quasi totalità delle persone, dalla nascita alla morte, se non parlare silenziosamente, nella “testa”, mentre guida, mentre, passeggia, mentre mangia, mentre ascolta? Si continua a parlare da soli anche mentre si dorme, nei sogni. Si smette solo nel sonno profondo. Oppure, si smette volontariamente e consapevolmente di parlare/pensare, nell’atto definito orazione silenziosa o contemplazione. Si tace, e si ascolta, ci si dona, totalmente, senza residuo. A cosa? Lo chiami come vuole questo “quid”, posso dire che è Tutto ciò che rimane una volta che è stato tolto il superfluo, quando la mente tace, priva di quei simboli di quelle astrazioni che sono le parole (silenziose o espresse). Questo quid, in effetti, non è una cosa tra altre cose, non è afferrabile nè definibile, essendo ciò che afferra e definisce. A me piace l’espressione di Paul Tillich; “Fondamento Ultimo dell’Essere”.
Ecco cosa troverà, Dr. Vomiero, se sarà capace di liberarsi dai vampiri, dai parassiti, dalle afflizioni, che la isolano da questo innominabile quid cui ho accennato. SE, se, ovviamente, giacché questa è l’impresa più difficile di tutte, è un viaggio solitario nelle profondità, che richiede una determinazione assoluta. Se lo compirà, e saremo ancora qui, ci faremo occhiolino come due bricconi, e mi offrirà un caffè.
Se lei Francesco ritiene la posizione della Chiesa Cattolica in termini di dottrina “impossibile da sostenere”, io al contrario la ritengo l’unica sostenibile in termini di completezza e verità. Penso che il dovere di ognuno sia di dire sinceramente ciò che la coscienza gli detta di credere. Così fa lei quando mette i suoi puntini sulle i, così facciamo noi quando ci dichiariamo in accordo con lei su un punto ed in dubbio su un altro.
La tolleranza consiste nel comportamento che ognuno riconosca all’altro il diritto e la libertà che, seguendo la sua coscienza, percorra la sua strada.
Grazie della risposta, il suo punto di vista è chiaro. Evidentemente non è un problema facile, anche nella mia coscienza è una questione irrisolta, per questo quando si presenta l’occasione cerco di confrontarmi con altri.
Da un lato sarei propenso da a pensarla come lei (alcune parole evangeliche in questo senso sarebbero possiiliste: “ho altre pecore che non sono in questo recinto”).
Dall’altro si può sostenere che il cristianesimo senza in suo esclusivismo perde ogni efficacia. Se viene meno questa pretesa originaria di dire qualcosa di radicalmente nuovo e definitivo sulla Sostanza (per usare lo stesso termine), perde la sua ragione di essere, o perlomeno si uccide la sua dimensione missionaria. Inoltre, adottare la visione aperturista implica ammettere che molte generazioni di cristiani, compresa quella degli Apostoli, abbia male interpretato le indicazioni dello Spirito. E anche questo andrebbe a minare radici importanti della fede della Chiesa.
Allora si potrebbe fare un ragionamento doppio per cui lo Spirito avrebbe voluto all’inizio un comportamento esclusivista per convertire i pagani occidentali (ma poi, a che scopo, se già quella cultura poteva produrre un Socrate?), mentre oggi richiederebbe al Cristianesimo di accettare un posto al fianco delle altre grandi tradizioni. Ma anche questo minerebbe un principio fondante del cristianesimo come lo conosciamo, cioè il carattere immutabile degli insegnamenti di Fede.
Grazie gentile Nadia, per non aver fatto balenare lo sprettro della scomunica (ciò che è la regola in questi casi). La Dottrina cui mi riferivo riguarda questo specifico punto e pochi altri, per il resto, ritengo il nucleo della religione in cui sono nato completo, sufficiente e adeguato al bisogno di salvezza e santità. Infatti sono rimasto cattolico.
Detto questo, ritengo impossibile che una conoscenza davvero profonda delle altre Vie spirituali non ne faccia cogliere la medesima caratteristica.
Un caso per tutti: nel Vedanta l’evidenza di Verità è abbagliante.
Sarà…, ma io trovo difficile sul piano epistemico mettermi in una posizione equidistante tra il monoteismo delle tre religioni del Libro, il politeismo indù e l’ateismo (“impersonale”) cinese. Con tutto il rispetto verso chiunque, quando si parla di Verità (con la V maiuscola, come piace a lei Francesco, che l’ha posta a regola della vita), occorre prendere ad un certo punto posizione contro l’Errore, schierandosi da una, dall’altra o da quell’altra parte.
In tutta sincerità, non trovo piacevole essere costretto a contraddirla; ma definire politeista l’induismo e ateista il taoismo è radicalmente falso. Sono certiissimo della Sua buona fede, ovviamente, Simili tesi sono parte dell’armamentario dialettico dei monoteismi, i soli che obbediscono alla necessità di mortificare la dignità delle prospettive spirituali diverse dalle proprie. Non per nulla, nei secoli, con modalità diverse, hanno messo a ferro e fuoco il mondo. Fatto inconfutabile, Storia.
Giudicare la diversità non è obbligatorio, se non la si conosce a fondo è meglio, molto meglio, ignorarla. In ogni caso, ma se proprio ci si vuole azzardare, bisogna prima sottoporsi ad un regime serratissimo di studi comparativi, cosa che non si fa in settimane, e neppure mesi, ma richiede decenni.
La prima volta che lessi Nagarjuana (buddismo) avevo 21 anni; mi parve un pazzo. Lo rilessi a 25 anni, e mi parve un pazzo con molto metodo. Anni dopo, mi parve il più prodigioso nichilista di tutti i tempi. Ancora anni dopo, mi resi conto, di colpo e traumaticamente, di quanto fosse profonda la mia ignoranza, e radicati distorcenti e quasi invincibili i miei pregiudizi. Oggi, affermo senza esitazione che la sua Dottrina è una delle ‘esposizioni più profonde, in termini umani, della Verità Assoluta. Tanto abbagliante da accecare.
Per quanto poco che ne so, io trovo abbagliante da accecare il fatto che il daoismo non ha un Dio personale. Per questo parlavo di “ateismo impersonale”. Idem per il buddhismo, in tutte le sue dottrine, quasi-dottrine e non-dottrine.
Beato lei che vi trova da qualche parte la Verità Assoluta e, per di più, continua a definirsi cattolico, ovvero anche credente nel Catechismo di santa madre Chiesa, suppongo.
Mi sta tutto bene, purché assieme all’imputazione di eresia, non mi si impongano anche delle tasse.
Per il resto, unicuique suum tribuere, alterum non laedere.
Peccato, Francesco, che la butti in farsa. Qui non si impongono tasse né tanto meno scomuniche. Si tentava solo di ragionare tra persone che si stimano e si rispettano. Chiudiamola pure qui.
Gentile Nadia, avevo lasciato correre, ma ora devo farle sommessamente rilevare quanto mi ha scritto.
“Beato lei che vi trova da qualche parte la Verità Assoluta e, per di più, continua a definirsi cattolico, ovvero anche credente nel Catechismo di santa madre Chiesa, suppongo”.
Per prima cosa, Lei ha passato la linea che separa il confronto dialettico – che può anche essere serrato e aspro – dagli apprezzamenti personali.
1°, scrivere, come ho fatto, che in un certo testo o autore, si trovi una esposizione profonda della Verità Assoluta, come La autorizza a interrogarsi sulla mia – bassa, alta, media, nulla – qualità di cattolico? Io non mi sono permesso di fare nulla del genere con Lei, ed anzi Le assicuro che rimarrò con la certezza (a quanto pare non ricambiata) che Lei è una buona cattolica, per quanto – come per chiunque, me compreso – Le consentono i suoi mezzi e la Grazia del Signore. Si stava discutendo su un tema importante, ma la possibilità di dialogo si è arrestata sulla punta di un dito puntato, e sulla Sua domanda, evidentissimamente retorica, di come facesse il Suo interlocutore a definirsi cattolico. Il che mi riporta all’insuperabile auto-filia di una certa concezione della religione.
2°, col Suo ultimo commento, mi accusa di introdurre nel dibattito addirittura la farsa (secondo, gravissimo attacco personale); quando, al contrario, con tutta evidenza, usando una leggera ironia avevo cavallerescamente evitato di farle rilevare quanto al punto 1.
Sono costernato e rammaricato.
Io non ho la sua conoscenza in materia ma conosco ad esempio Panikkar e Merton, le posso assicurare che ho letto più volte maestri induisti o buddhisti affermare che ad esempio il Cristianesimo non salva.
Per dire ho sotto mano un libro del Dalai Lama, dove dice chiaramente che salvarsi nel Cattolicesimo è molto ma molto difficile…
Inoltre spesso quando si mostrano possibilisti lo fanno lasciando intendere che poi la persona (occidentale) si reincarnerà* prima o poi in un induista o buddhista e quindi si salverà, togliendo di fatto la salvezza alle altre religioni.
Questo lo scrivo senza alcun astio o belligeranza solo per portare la mia esperienza.
Per quanto mi riguarda, in brevissimo, se la “sorgente eterna” che chiamiamo Dio si è fatta uomo in Gesù e si è scomodato per me non vedo dove altro andare a cercare visto che mi ha cercato Lui, fermo restando che non ho problemi ad accettare che continui a manifestarsi sempre a tutti gli uomini e donne di qualsiasi religione.
La ringrazio infinitamente per queste due stupende testimonianze.
*Avete parlato anche di questo?
Gentile Canae Madrac, grazie di quanto scrive, avrò senz’altro piacere di risponderle presto.
Volevo già ringraziare Francesco dopo il primo racconto e non l’ho fatto, questa volta non posso proprio esimermi. Quindi grazie di cuore, sia per la generosità dimostrata nel rendere pubblica un’esperienza intima che per il livello degli argomenti e la qualità di scrittura.
Racconti che nutrono e sostengono: la prima cosa che ho pensato è che fino a quando esistono uomini di questa levatura spirituale, a qualunque tradizione essi appartengano, c’è ancora speranza nel mondo.
Simone Weil scriveva che ogni religione è l’unica vera, credo intendesse dire che la conoscenza di altre tradizioni è preziosa per portare luce sulla propria e viverla più in profondità e con maggior attenzione.
Da questo punto di vista credo che tutta l’opera di Raimon Panikkar sia preziosa, non meno dell’esperienza del suo amico Henri Le Saux, lacerato tra i suoi “due amori”: il Cristianesimo e l’India del Vedanta e di Ramana Maharshi.
Da parte nostra dovremmo forse interrogarci sul perché dalle nostre parti da moltissimo tempo non ci sia più traccia di persone come queste, non parliamo poi di giganti del calibro di San Francesco o Meister Eckhart….
Gentile Fabrizio,
al volo: non comprendo la lacerazione di Le Saux, anche perchè l’essenza dell’amore Agape o Caritas o Karuna è inclusiva, non esclusiva, tanto anagogica che lassù non arriva clangore di disputa. E sottolineo e rimarco che qui mi riferisco all’essenza. Io sono cristiano, comprendo il Vedanta e il Madyamika , non sento la necessità di diventare indù o buddista, e non mi sento lacerato.
Da come scrive, mi pare che Lei non dovrebbe avrere difficoltà a comrprendere che – fatta salva la differenza di linguaggi e le contingenze culturali – leggere Eckhart e leggere Shankara è la stessa cosa. E quasi lo stesso è leggere Attar e San Francesco.
Persone così, è purtroppo vero, non ce ne sono; e mi trattaengo di parlare di Dante, che scampò al rogo solo perchè era di celvello davvero fino, e nascose la sua dottrina “sotto al velame de li versi strani”…
A me pare, Fabrizio B., che il cristianesimo non abbia mai avuto tanti martiri (= santi e testimoni) come adesso.
Grazie a Francesco per questa testimonianza.
Entro bruscamente nella discussione con un paio di osservazioni.
Primo non può non esserci una Verità comune che saldi insieme le vie di salvezza, al contempo non posso non far notare che Cristo si proclama Via, Verità e Vita, la sua rivelazione allora è: o totalmente vera, facendo della Cristianità la perfetta via di salvezza, o lui è un mentitore e il Cristianesimo è falso completamente.
Secondo, la cosa che ha distinto per quel che mi riguarda questi due bellissimi stralci di vita è l’epilogo.
Nel primo quel Monaco resta nel mondo e salva via terzi una famiglia.
Nel secondo c’è l’abbandono del mondo, con la visita fissa su Dio.
Terzo appunto, che poi è il merito dei due pezzi, il cancro.
Sarebbe veramente interessante avere statistiche sulla incidenza nel passato, ma mi chiedo se questa è la conseguenza fisica,a livello sottile, mentale, che ripercussioni subiamo?
C’è stato modo di approfondire questo aspetto Francesco?
Mi congedo con un saluto a tutti i partecipanti alla discussione.
Grazie, Arco Magistrale, sto uscendo e Le rispondo alla buona.
Circa l’ultima questione, ho scritto nel primo articolo che feci delle ricerche al mio ritorno da Valaam. Alla fine, tralascio le peripezie,arrivai a uno storico della medicina francese, di cui devo di sicuro avere nome e cognone in qualche angolo del mare magnum del mio disordine. Questo signore mi assicurò la fondatezza delle tesi del monaco. Mi scrise una lettera, se la trovo la mando al Professor Pennetta, che, se crede, la pubblicherà. in ogni caso, sono certo che oggi è molto più facile trovare ricontri, magari se tra chi legge ci sono medici, potrebbero dare una mano.
Quanto alla prima questione, in parte ho già risposto, se posso lo farò ancora in seguito. Tuttavia, la questione come Lei l’ha posta non ha soluzione, e ciò accade perché ci limitiamo alla forma, che è e deve per forza essere esclusiva. Alla stessa stregua, ci si potrebbe e dovrebbe chiedere: se Cristo non mente, mentono tutti gli altri. Risultato: una bella guerra mondiale!!! Il destino di Gerusalemme docet.
Davvero crede, Francesco, che la mancanza di pace in Medio Oriente, a Gerusalemme in particolare, sia effetto di una guerra tra religioni?
Come rimpiango la Bagdad delle Mille e una notte, con cristiani, mussulmani ed ebrei conviventi in pace per secoli…, prima del colonialismo e della scoperta del petrolio!
“Sarebbe veramente interessante avere statistiche…”.
Negli 37 anni dal 1975 al 2012 la speranza di vita in Italia si è allungata di 25,2 anni per le donne e di 21,5 anni per gli uomini (http://www.registri-tumori.it/PDF/AIOM2014/I_numeri_del_cancro_2014.pdf).
D’altro canto, nelle prime decadi della vita la frequenza dei tumori è dell’ordine, al massimo, di qualche decina di casi ogni 100.000 persone; dopo i 35 anni si supera il centinaio di casi, mentre dopo i 60 anni si cambia ancora ordine di grandezza superando il migliaio di casi ogni 100.000 persone, ovvero raggiungendo una frequenza di 1,5-3 casi ogni 100 persone ogni anno (ibidem). E ciò per le caratteristiche stesse della malattia che è di tipo degenerativo e quindi collegata all’età e alle minori difese dell’organismo con la vecchiaia.
Quindi, Arco Magistrale, se ne conclude, anche in assenza di statistiche riguardo ai (bei?) tempi antichi, che la crescente percentuale di casi osservati di cancro è effetto dei progressi conseguiti dalla medicina (occidentale) nell’aumentare la speranza di vita.
Bellissima testimonianza, come anche quella della prima parte, tantissime riflessioni che ci sfuggono sempre di più nel caos della vita quotidiana. Complimenti e grazie per averle condivise.