A chi giova il controllo della popolazione?

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Un’analisi chiara e documentata sull’origine e l’attuazione delle politiche neomaltusiane.

Il ruolo non dichiarato delle sementi OGM.

 


A chi giova il controllo della popolazione? 

Di Giacomo Gabellini

Con la reintroduzione del proprio settore primario sotto il controllo del Global Agreement on Tariffs and Trade (Gatt) e poi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc), gli Stati Uniti hanno avuto modo di invadere i mercati mondiali con i propri prodotti agricoli. Ciò consentiva non solo di alimentare il business delle multinazionali Usa operanti in questo campo, ma anche di dotare Washington di uno strumento fondamentale per incrementare la propria capacità di controllo sulla demografia mondiale. Si tratta di un vecchio obiettivo strategico, le cui origini si collocano grosso modo nella seconda metà degli anni ’70, quando i Paesi maggiormente industrializzati furono progressivamente investiti da un fenomeno che era stato previsto con largo anticipo dall’economista e demografo francese Alfred Landry. Al termine di una serie di studi comparati, Landry vaticinò che, nel corso degli ultimi decenni del XX Secolo, le nazioni ad alto livello di sviluppo sarebbero state colpite da una fortissima “rivoluzione demografica” in grado di portare i tassi di natalità al di sotto della soglia minima d’emergenza (2 figli per donna, che garantisce il ricambio generazionale). Secondo Landry, la diffusione a macchia d’olio di politiche ispirate ai concetti elaborati dall’economista e demografo britannico Thomas Robert Malthus – che sosteneva la necessità di favorire la diminuzione della popolazione mondiale per via della scarsità delle risorse offerte dalla natura – avrebbe innescato un processo di riduzione demografica difficilmente reversibile, che è stato poi promosso senza badare a spese da svariate fondazioni “filantropiche” (Family Planning, ecc.) di cui quella facente capo alla famiglia Rockefeller rappresenta la punta di diamante. Nel 1952, John D. Rockefeller III fondò il Population Council, un organismo incaricato di incoraggiare una transizione dall’equilibrio della popolazione pre-industriale, dato dalle natalità e mortalità parimenti incontrollate, a quello della popolazione post-industriale, dove il controllo della mortalità avrebbe compensato quello della natalità. La necessità di favorire questa transizione era stata indicata dall’università di Princeton come l’unica soluzione in grado di ridurre la povertà di masse umane ridotte allo stato di sussistenza, ritenuta la causa primaria del sottosviluppo economico del “terzo” e “quarto mondo”.

 

L’inattuabilità dell’equilibrio post-industriale è tuttavia ampiamente dimostrata dagli esiti prodotti nei Paesi ad alto livello di sviluppo. Il miglioramento qualitativo dell’alimentazione, le misure igieniche, il programma di alfabetizzazione hanno fatto sì che, dal 1950 a oggi, il tasso totale di fertilità – ovvero il numero di figli per donna – si contraesse in misura assai rilevante in tutto l’Occidente. Le ripercussioni in ambito planetario prodotte da questo fenomeno hanno provocato una diminuzione della media mondiale da circa 5 ad appena 2,5 figli per donna, in previsione di toccare quota 2,2 entro il 2050. Dalla fine degli anni ’70 Stati Uniti, Australia, Europa, Russia (dove gli effetti prodotti dalla perestroijka di Mikhail Gorbačëv e delle “terapie d’urto” promosse dal Fmi hanno aggravato considerevolmente il fenomeno) e Giappone hanno cominciato ad imbattersi in difficoltà crescenti per quanto riguarda il ricambio generazionale. Questa inerzia ha obbligato l’Onu a rettificare le proprie previsioni, annunciando che l’Europa perderà il 21% della popolazione autoctona entro il 2050, mentre il Giappone registrerà un calo pari al 17%. Tra poco meno di quarant’anni, si prevede che, tra le nazioni ad alto livello di sviluppo, solo gli Stati Uniti figureranno nella classifica dei primi dieci Paesi più popolosi al mondo. L’immigrazione sta contribuendo a mitigare questi effetti, ma non in misura tale da invertire la tendenza di base.

La brusca frenata demografica ha poi generato l’invecchiamento medio delle popolazioni, innescando quella particolare sinergia negativa rappresentata dal cosiddetto “effetto leva” prodotto dai vecchi sui giovani, che aggrava sensibilmente la situazione nei Paesi ad alto livello di sviluppo. In Occidente, gli individui che hanno superato la soglia dell’età riproduttiva (che si aggira attorno ai 50 anni) godono di tutti i benefici garantiti dalla modernità, a differenza di coloro che si trovano nel pieno dell’età fertile, relegati alla marginalità sociale dalla precarietà lavorativa (assurta a mantra grazie ai dogmi imposti dal “pensiero unico” tramite il Fmi e le decine di think-tank di ispirazione liberista) e della crescente contrazione dei salari. Queste condizioni impediscono o scoraggiano fortemente la formazione di nuovi nuclei familiari accelerando il processo di rovesciamento delle piramidi demografiche; così, una fascia numericamente soverchiante e sempre crescente di individui in età avanzata tende sempre più a gravare – in termini di pensioni, assistenza sociale e medica, ecc. – su di una cerchia sempre più ristretta di individui in età fertile, compromettendo il ricambio generazionale e rivelando la correttezza della profezia di Alfred Landry.

Questo profondo mutamento ha determinato il trasferimento dell’asse di crescita demografica dal mondo sviluppato ai Paesi in via di sviluppo. Attualmente, circa l’82% della popolazione mondiale vive in regioni classificate dall’ONU come “meno sviluppate”, rispetto al 68% del 1950. Si prevede che la tendenza sia destinata ad accentuarsi poiché, entro il 2050, gran parte dell’incremento demografico dovrebbe verificarsi nei Paesi in via di sviluppo, con particolare riferimento all’Africa. Le Nazioni Unite stimano che entro il 2050 la popolazione africana passerà dal miliardo odierno a 2,2 miliardi di persone. Oggi l’Africa ospita il 15% della popolazione mondiale, ma nei prossimi quarant’anni peserà per il 49% dell’incremento demografico complessivo. L’alto tasso di fertilità si colloca alla base di questa crescita impetuosa (4,5 figli per donna, rispetto a una media globale di 2,5) e costituisce la ragione fondamentale del fatto che il 40% circa della popolazione del continente nero abbia meno di 15 anni, a fronte di una media mondiale che si aggira attorno al 27%.

Tali statistiche hanno indotto il professore di economia presso l’università di Harvard David E. Bloom (membro dell’Aspen Institute, assai vicino alle posizione dei Rockefeller) a redigere un documento in cui si indica che «alla luce delle difficoltà economiche che caratterizzano la maggior parte del continente, i governi locali dovranno compiere sforzi considerevoli per offrire valide prospettive di lavoro a un così vasto numero di persone. Se non ci riusciranno, la popolazione è destinata con ogni probabilità a impoverirsi ulteriormente, con gravi conseguenze politiche e sociali. Ridurre la fertilità è dunque la sfida maggiore per l’Africa, dal momento che l’alto numero di figli per donna rappresenta la principale ragione del rapido incremento demografico. Affrontarla significa fornire strumenti di contraccezione alle donne che vogliono limitare il numero di figli o posporre le gravidanze, il che presuppone a sua volta che le leadership africane si impegnino in modo onesto e socialmente responsabile sul fronte del controllo delle nascite». La connotazione “filantropica” della ricetta dispensata da Bloom decade tuttavia in maniera fragorosa alla luce dei contenuti del National Security Study Memorandum 200 (Nssm-200), uno studio redatto da Henry Kissinger nel 1974 dietro esplicita richiesta del vicepresidente Nelson Rockefeller. All’interno del documento, Kissinger evidenziò il nesso esistente tra incremento demografico e sviluppo della potenza politica, economica e militare legata allo sfruttamento delle risorse naturali, individuando nello spopolamento di intere regioni mondiali l’unica soluzione in grado di salvaguardare la supremazia statunitense minacciata dal crescente ruolo politico e strategico che le nazioni più popolose del pianeta si sarebbero progressivamente ritagliate sullo scacchiere internazionale. «Il mondo – recita il Nssm-200 – sta diventando sempre più dipendente dalle risorse minerarie che si trovano nei Paesi in via di sviluppo; se la crescita della popolazione dovesse frustrare le ambizioni di sviluppo e di progresso sociale di questi ultimi, l’instabilità che ne deriverebbe finirebbe per minare le esportazioni e i flussi regolari di tali risorse. In questo caso, molti Paesi in via di sviluppo avranno seri problemi collegati alla crescita della popolazione e si imbatteranno in grosse difficoltà a pagare le forniture di materie prime e di energia di cui avranno bisogno in misura sempre maggiore; nei prossimi anni avranno difficoltà a procurarsi fertilizzanti, vitali per la loro produzione agricola. L’evolversi delle esportazioni di petrolio e di altre materie prime causerà gravi problemi che andranno a colpire gli Stati Uniti, sia per la necessità di fornire sostegno finanziario, sia per le richieste da parte dei Paesi in via di sviluppo di aumentare i prezzi dei beni che esportano. Un rapido aumento della popolazione creerà un grosso ostacolo per lo sviluppo economico, altrimenti in ascesa, con pesante incidenza sulla crescita del reddito pro capite. Oltre a questo effetto, l’incremento demografico avrà pesanti ricadute su molti altri aspetti della qualità della vita e sul progresso sociale dei Paesi in via di sviluppo».

A detta dell’analista William Engdahl, «il piano di Washington era chiaro. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto essere protagonisti nella promozione di programmi per la riduzione della popolazione mondiale: sia direttamente, attraverso i programmi governativi di aiuti chiedendo in cambio l’adozione di un piano per il controllo delle nascite; sia indirettamente, attraverso le istituzioni di Bretton Woods, cioè il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Molto crudamente, la nuova politica statunitense era guidata dal principio che “se queste razze inferiori minacciano il nostro ampio approvvigionamento di materie prime a basso costo, noi dobbiamo trovare il modo di far cambiare loro idea”». Per risolvere il problema, Kissinger suggerì di adottare «politiche mondiali che mirino a produrre un forte impatto sui problemi globali fondamentali e puntino ad ottenere il controllo sui tassi di natalità – ad esempio, con lo sviluppo di metodi contraccettivi più efficaci e semplici attraverso la ricerca biomedica, cosa che produrrà grossi benefici a tutti i Paesi che dovranno fronteggiare un rapido aumento della popolazione – e a migliorare i metodi di valutazione dei cambiamenti demografici, in modo da aiutare i Paesi in via di sviluppo a calcolare i loro reali tassi di aumento della popolazione a valutare correttamente il loro impatto sulle attività di pianificazione della popolazione e della famiglia». Ciò, secondo Kissinger, sarebbe necessario in quanto «uno degli aspetti fondamentali dell’impatto della crescita della popolazione sul benessere politico ed economico mondiale, è quello del cibo. Qui il problema della correlazione tra demografia, ricchezze nazionali, ambiente, produttività e stabilità politica ed economica si unisce alla penuria delle disponibilità di questa risorsa primaria». Per questa ragione, «le sfide maggiori da affrontare saranno l’aumento della produzione alimentare nei Paesi in via di sviluppo e la liberalizzazione del sistema attraverso cui il grano viene trasferito commercialmente dai Paesi produttori a quelli consumatori».

Il Nssm-200, desecretato soltanto nel 1989 dietro forti pressioni eserciate da associazioni pubbliche e scienziati di altissimo livello, indicava implicitamente la necessità, da parte di  Washington, di mettere in atto la “rivoluzione verde” escogitata dalla Rockefeller Foundation, la quale si proponeva di eliminare qualsiasi limitazione doganale allo scopo di facilitare l’inondazione dei mercati mondiali di grano prodotto negli Stati Uniti. Per capitalizzare questo obiettivo, Kissinger proponeva «l’espansione della produzione di beni accessori, necessari al sistema agricolo (fertilizzanti, forniture per accedere all’acqua, semi per terreni ad elevata produttività, ecc.) e l’aumento degli incentivi per incrementare la produttività dei terreni». Naturalmente, sarebbero state le imprese multinazionali statunitensi operanti nel settore dell’agri-business ad occuparsi di fornire tali “accessori”; affinché Monsanto, Archer Daniels Midland Company, Bunge, Continental Grain, Nestlé, Tyson Foods, Smithfields e Cargill potessero adempiere al meglio a questa importantissima funzione, Kissinger auspicava «nuovi accordi internazionali sul commercio sul commercio dei prodotti agricoli, abbastanza elastici da permettere la massima redditività ai produttori efficienti».

L’Omc, che prese vita a circa un ventennio (1995) dalla stesura del Nssm-200, ha condotto politiche palesemente rivolte a favorire con ogni mezzo possibile l’attività delle multinazionali dell’agri-business, agevolando la diffusione planetaria degli Organismi Geneticamente Modificati (Ogm) – nel cui novero rientrano le sementi “suicide” – anche attraverso l’ingiunzione alla renitente Unione Europea di spalancare le proprie porte alla produzione e al commercio di questo genere di prodotti malgrado gran parte dell’opinione pubblica e dei rappresentanti politici del “vecchio continente” fosse fortemente contraria a ciò. La diffusione su scala planetaria di questi prodotti, disciplinata ed imposta obtorto collo da Banca Mondiale e Fmi, ha alterato profondamente il mercato e la produzione interna dei Paesi in via di sviluppo, in modo tale che perdessero l’autosufficienza alimentare per divenire in tutto e per tutto dipendenti dal cibo importato.

Ad aggravare la situazione ha poi contribuito in maniera determinante il Commodity Modernization Act (escogitato da Larry Summers e Timothy Geithner), che ha esteso il mercato dei derivati al campo alimentare; un invito a nozze per la speculazione. Per oltre due miliardi di persone nel mondo che spendono più della metà del loro reddito per sfamare le proprie famiglie, gli effetti scaturiti dalla sinergia negativa tra attività delle multinazionali dell’agri-business, deregolamentazione del mercato e speculazione sono stati terribili. Fino al 1989, l’International Agreement on Coffee aveva mantenuto il corso del caffè entro la forbice compresa tra gli 1 e i 2 dollari a libbra, assicurando un reddito stabile a 25 milioni di piccoli produttori di caffè che lavoravano da 1 a 5 ettari. Abolito l’accordo in conformità ai canoni del “pensiero unico”, il caffè scese a 0,5 dollari a libbra, gettando nella miseria e costringendo a chiudere bottega centinaia di migliaia di piccoli coltivatori in Brasile, in Etiopia, in Ruanda e in Vietnam. Le multinazionali operanti nel settore (Nestlé, Kraft, Procter & Gamble, ecc.) ebbero invece modo di accrescere i loro profitti dal 17 al 26%. Nell’agosto 2012, un’istituzione al di sopra di ogni sospetto come la Banca Mondiale ha rivelato che il prezzo del mais era raddoppiato nell’arco di un biennio, fino a toccare i 300 dollari a tonnellata, mentre quello della soia era raddoppiato in un quinquennio, arrivando a sfondare il tetto dei 600 dollari. Ciò ha comportato un rincaro del 10% della spesa alimentare di base delle famiglie in Medio Oriente e in Africa. In seguito all’esplosione del prezzo del grano dovuta alla speculazione, che è alla base dello scoppio della rivolta tunisina del dicembre 2010 da cui ha preso avvio la cosiddetta “primavera araba”, nel 2008 quasi un miliardo di persone sono state etichettate come esseri umani dall’«alimentazione insicura», secondo la definizione dell’Onu. «Chi controlla il cibo controlla i popoli», ammoniva Kissinger, che fu tra i primi ad intravedere il filo rosso che lega alimentazione e demografia. Ciò ha  portato Engdahl ad osservare che «i programmi per la riduzione della popolazione e per la diffusione delle colture geneticamente modificate facevano parte della stessa strategia ad ampio raggio: una drastica riduzione della popolazione – o genocidio, che dir si voglia – attraverso la sistematica eliminazione di intere etnie, come risultato di un preciso disegno politico criminale, presentato sotto la presentabile etichetta di “soluzione del problema della fame nel mondo”».

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Giacomo Gabellini, scrittore e ricercatore di questioni storiche, economiche e geopolitiche. Ha pubblicato: “Eurocrack. Il disastro politico, economico e strategico dell’Europa“, “Caos – Economia, strategia e geopolitica nel Mondo globalizzato” – 2014, “Ucraina. Una guerra per procura” – 2016, “Israele. Geopolitica di una piccola, grande potenza” – 2017.

7 commenti

  1. Stanno ripetendo lo stesso meccanismo applicato al caffè anche al cacao. Tutto ri risolve in dominio e soldi. Non si può essere contro il mercato perchè è connaturato con l’uomo ma il mercato non può diventare l’unico punto di riferimento, il feticcio a cui si sacrifica gran parte dell’umanità a vantaggio di pochi. Leggendo queste cose e avendole anche vissute marginalmente capisco cosa intendesse Giulio Andreotti quando invocava il “primato della politica”. All’epoca, da giovane hobbesiano provavo rabbia e orrore di fronte a questa affermazione, con il senno di poi e dopo essermi liberato da Hobbes non posso che concordare con il compianto Andreotti.

    • Enzo Pennetta on

      Leggendo il tuo intervento mi veniva da considerare come in molti della nostra generazione abbiano finito per rivedere le convinzioni che avevano in gioventù.
      Credo che sia un merito essere capaci di cambiare idea.
      Anch’io da molto rimpiango la casse politica degli anni 50-80, anche se sono stati comunque commessi molti errori con l’attenuante però di non essere mai stati un paese veramente libero.

      • Mah, sai, credo che sia un processo naturale, parte di ciò che significa divenire adulti, non lo chiamerei quindi un merito, piuttosto non so come chiamare i fisicamente adulti ma che alla maturazione fisica non associano una corrispondente maturazione psichica, rimanendo prigionieri per sempre in una psiche allo stato adolescente. In quanto alla fame, sì credo anche io che sia l’obiettivo, e non solo in Africa o in sud America e Asia ma ultimamente anche in Europa come possiamo constatare ultimamente. La fame, assieme alla guerra, serve a spostare masse, deportandole dalla loro terra in terre dove non sono ben accolti per portare non tanto un vulnus genetico, come qualcuno paventa, ma un vulnus culturare atto a distruggere sia la cultura ospitata che quella ospitante diluendole in una non cultura mediana in cui mediamente nessuno può riconoscersi ma tutti per quieto vivere adottano. Certo che statisticamente la fame è diminuita, ci mancherebbe altro, come potrebbero giustificare tutti i miliardi spesi e dirottati nelle tasche dei filantropici predatori se non ci fosse qualche numero da poter spendere?
        Ma il dato bruto non dice molto secondo me, bisognerebbe disaggregarlo e andare a verificare puntualmente, non è forse che si troverebbe che nelle zone di fame endemica la fame sia diminuita perchè non c’è più fisicamente chi possa morire di fame? O che la popolazione sia stata comunque talmente ridotta da non essere più significativa nella statistica?
        Ancora, nelle zone intermedie, non è che si muore meno di fame perchè con le politiche abortistiche applicate anche all’insaputa delle popolazioni si nasce di meno?
        Insomma, le statistiche andrebbero studiate per bene, un dato generico può dare una falsa visione che a questo punto diventa mera propaganda per continuare politiche criminali.
        “Che bella fame hai!” – “Per rapinarti meglio, popolo mio, per rapinarti meglio”.

        • I dati disaggregati che vorrebbe vedere esistono, sono linkati nel post a valle, può consultarli se sa leggere l’inglese e vedrà che contraddicono le sue paure.

          La “fame endemica” purtroppo non è affatto scomparsa, ma i suoi numeri assoluti si mantengono pressochè costanti, a fronte del costante aumento di popolazione in tutte le aree, anche quelle più depresse. Un grandissimo numero di giovani (specie in Asia) è riuscito a sopravvivere all’infanzia in misura molto maggiore dei loro genitori, e a ricevere un’istruzione. Ovviamente ciò non elimina la tragedia del miliardo di persone che rimane tuttora in condizioni di miseria: ma sono un miliardo su quasi otto, invece che un miliardo su tre come nel 1960. E anche per loro, in realtà, qualcosa lentamente si muove.

          La sua visione del terzo mondo, come quella di moltissimi, credo sia rimasta a quello che le hanno insegnato a scuola: e negli ultimi decenni i progressi in Africa e Asia sono stati notevoli, specie sul fronte della salute. Perfino l’AIDS, per quanto terribile, uccide meno di quanto il banale colera e le malattie dell’infanzia facessero cinquant’anni fa.

          Quando avrà un’ora di tempo, le consiglio di guardare questo documentario (con sottotitoli in italiano) dove troverà risposta a molte delle sue domande:

          https://www.youtube.com/watch?v=FACK2knC08E

          • No la mia visione del terzo mondo si basa da ciò che ho visto personalmente in Africa e medio oriente, e da quello che ho appreso e continuo ad apprendere da persone che lì vivono per nascita, per scelta, per lavoro o per missione.
            Purtroppo quello che ho visto e la lezione che ho imparato è che quelle popolazioni devono essere tenute sempre sul filo del rasoio, lo stesso filo verso cui stanno spingendo anche noi d’altra parte, e che sì i miglioramenti di qualche parametro ci sono assieme al peggioramento di altri. Quando si mantiene qualsiasi cosa in equilibrio precario è evidente che basta un niente per passare dalla quiete alla tempesta e dalla vita alla morte.
            E’ evidente che le politiche di soccorso sono necessarie ma non sufficienti, anche per la dignità di quelle persone è indispensabile che il nostro mondo cessi di considerarli degli spiacevoli e ingombranti inconvenienti fra noi e le risorse e che conceda loro di svilupparsi secondo i loro propri parametri e le loro aspirazioni. Purtroppo tanto quanto loro sono afflitti da superstizioni incrostate da secoli che sono ostacoli alle volte insormontabili, noi siamo afflitti dalla convinzione che il nostro modello di sviluppo sia l’unico giusto.
            Guarderò con interesse i dati da lei linkati, grazie.

  2. Enzo Pennetta on

    Il merito principale di questo articolo di Gabellini è aver mostrato che la fame nel mondo non è un problema: è la soluzione.

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