“Fare i conti con la complessità significa anche accettare, di fatto, un’incertezza radicale, simile a quella che ognuno di noi sperimenta nella pluralità delle scelte possibili della vita” – Ignazio Licata.
Ho cercato in questi ultimi giorni un modo sufficientemente esplicativo, efficace e credibile, per introdurre adeguatamente ciò di cui vorrei parlare in questo articolo e ho trovato allora un provvidenziale aiuto in due bellissime frasi pronunciate da due grandi uomini di scienza del secolo appena trascorso. La prima è del fisico Richard Feynman, uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi, colui, che tra le altre cose, ha riscritto in maniera estremamente elegante e convincente la meccanica quantistica (integrale sui cammini):
“I poeti affermano che la scienza distrae dalla bellezza delle stelle – semplici globi di gas. Anche io riesco a vedere le stelle in una notte nel deserto e sentire la loro magia. Ma vedo più o meno cose?”.
La seconda è invece del matematico statunitense, Norbert Wiener, il padre della cibernetica moderna:
“Il miglior modello materiale di un gatto è un altro gatto: o anzi, meglio ancora proprio quello stesso gatto”.
Due frasi che chiariscono fin da subito e in maniera particolarmente eloquente un paio di concetti fondamentali. La prima ci riconduce all’idea che, nonostante la diffusa resistenza da parte di una certa intellettualità di impostazione umanistica, filosofica e mitico-religiosa, la scienza si candida a tutti gli effetti e meritatamente come forma principale di conoscenza nel complicato tentativo di comprendere e descrivere il mondo.
La seconda invece, che risuona quasi come una inevitabile ammissione dei propri limiti, ribadisce che, a scanso di equivoci, tra la “realtà” e la nostra costruzione della realtà stessa mediante il processo scientifico, esiste sempre uno scarto conoscitivo. Massima efficacia esplicativa da una parte, quindi, che semmai aggiunge e non toglie, indipendentemente da ogni altro tipo di sensibilità personale che ognuno desideri poi coltivare o perseguire, come ci ricorda giustamente Feynman, e consapevolezza dei propri limiti dall’altra; quasi un ossimoro concettuale, ma che in realtà esprime invece tutta la forza stessa del pensiero scientifico e allo stesso tempo lo distingue nettamente da tutte le altre forme del sapere.
La scienza infatti non ha la pretesa di occuparsi della “Realtà ultima” o della “Verità assoluta”, concetti perlopiù gravati da un incolmabile peso ontologico, ma piuttosto agisce e produce conoscenza sempre all’interno di ambiti e contesti ben precisi e definiti, utilizzando come metodo dei particolari accordi procedurali ampiamente collaudati e condivisi. Facendo leva infatti sulla capacità di dimostrare e di convincere con la forza dei fatti e delle rappresentazioni matematiche, la scienza cerca e trova la sua piena legittimazione. Almeno da qualche centinaio di anni a questa parte e cioè da quando gente come Copernico, Keplero, Galileo e Newton introdussero con i loro straordinari lavori un nuovo modo di pensare, peraltro con una maestria ed eleganza espositiva tali, che indussero per esempio il Leopardi ad annoverare Galileo non solo tra i più importanti attori della rivoluzione scientifica, ma anche tra i più limpidi padri della lingua italiana. Ma dicevamo il metodo.
E’ infatti possibile datare convenzionalmente la nascita del pensiero scientifico moderno e quindi del metodo sperimentale, con il lavoro di Galileo Galilei. Tuttavia, non si può però non osservare, che dal tempo di Galileo ad oggi sono passati qualcosa come quattrocento anni e nel frattempo, oltre ad essere cambiato il mondo, è cambiata anche la scienza e il modo di fare scienza. Del resto, quello del cambiamento, al di là dell’ideale dialettica filosofica inaugurata da Eraclito e Parmenide, è un concetto oramai diffuso e ben strutturato nell’intero corpo della scienza. Il dubbio allora, intellettualmente del tutto lecito, è quello di riuscire a capire se, dopo secoli e almeno quattro grandi rivoluzioni scientifiche, darwinismo, relatività, meccanica quantistica e biologia molecolare, che hanno plasmato e ridefinito completamente la nostra visione del mondo, un’impostazione esclusivamente di tipo riduzionistico, come quella che il biologo statunitense Stuart Kauffmann definisce efficacemente “incantesimo galileiano”, sebbene necessaria, possa essere ritenuta ancora sufficiente.
Da qualche decennio a questa parte, infatti, la perentoria irruzione nel palcoscenico della scienza del tema della “complessità”, ha aperto inevitabilmente prospettive teoriche e riflessioni filosofiche fino a poco tempo fa ancora scarsamente esplorate. Vi è pertanto la diffusa sensazione che un’altra discontinuità di tipo kuhniano stia prendendo decisamente forma e che, di conseguenza, molti aspetti dei consolidati scenari epistemologici dei secoli precedenti debbano essere in qualche modo rivisti. Un sistema complesso infatti non è soltanto un sistema complicato dal punto di vista analitico, ma è un sistema in cui l’elevata quantità di elementi e di interconnessioni tra gli elementi stessi e con l’ambiente circostante (accoppiamento strutturale), fa sì che il sistema, a differenza dei sistemi “ideali” studiati dalla fisica classica, sia dinamico e soggetto al fenomeno dell’emergenza di proprietà e di comportamenti nuovi ed imprevedibili, che seppur compatibili, non sono deducibili a priori dallo studio dei componenti singoli del sistema stesso.
Il sistema complesso è quindi attivo, sensibile al contesto, irregolare, flessibile, imprevedibile in dettaglio, lontano dall’equilibrio e aperto, attraversato cioè da un continuo flusso di materia energia e informazione, che può andare a modificare e a ristrutturare di conseguenza anche la sua organizzazione interna. E’ dunque evidente come, per un sistema di questo tipo, l’applicazione di un metodo meramente riduzionistico, che ha guidato peraltro efficacemente la fisica per oltre trecento anni conseguendo enormi successi, sia purtroppo destinata a fallire se non adeguatamente supportata da altri tipi di approccio di carattere più qualitativo e sistemico e da una descrizione a questo punto necessariamente plurimodellistica, in cui ogni modello sarà in grado di cogliere determinate informazioni del sistema, trascurandone inevitabilmente altre. Pensiamo per esempio ai sistemi biologici o a quelli cognitivi e sociali, ma più in generale alla maggior parte dei sistemi reali, come una via trafficata, un ecosistema, una perturbazione atmosferica, una malattia, un applauso, uno stormo di uccelli in volo.
Chiaramente, un’acquisita consapevolezza di questo tipo, che rompe in qualche modo con gli schemi teorici ideali trattati matematicamente e in maniera rigorosa dalla fisica per secoli, propone implicazioni teoriche attive a più livelli. Per esempio segna il definitivo crollo del riduzionismo radicale come metodo unico e universale, così come delle sue principali derive ideologiche, teoria del tutto in fisica, intelligenza artificiale, visione genocentrica in biologia, e infrange contemporaneamente anche il sogno del “demone laplaciano” di un determinismo teorico pressochè completo e assoluto. I termini di incertezza, approssimazione, caso, contingenza e probabilità, si mettono ora di traverso a quello che sembrava essere un asse semantico inviolabile della fisica classica, costituito dalla triade “certezza, causa e predicibilità”. “Quello che non è avvolto nell’incertezza non può essere vero” ci ricorda ancora Richard Feynman. Un’altra implicazione importante riguarda quindi anche la questione della predicibilità.
Il punto fondamentale è che lo studio dell’emergenza e dei sistemi complessi, così centrale per esempio nella biologia, chiama in gioco non soltanto le leggi universali, ma anche e soprattutto l’evento singolo, in cui si possono venire a creare delle condizioni al contorno particolari, che seppur collocate all’interno di una griglia di possibilità definita dalle leggi fisiche e chimiche, stabiliscono di volta in volta il “qui e ora” del fenomeno, unico, storico, irripetibile. Non bisogna dimenticare allora che la capacità predittiva di un modello è sempre relativa soltanto ad alcune osservabili e solo raramente riesce a esaudire ogni aspetto dell’evoluzione del sistema. Ne consegue, che la riduzione della scienza soltanto alle predizioni verificabili come vorrebbe un certo tipo di fisicalismo radicale, non rende affatto giustizia alla pratica della scienza stessa, che nella sua attività quotidiana è invece molto più vicina all’operato di un artigiano, avendo come scopo principale quello di costruire strumenti specifici su problemi specifici, utilizzando di volta in volta uno stile, una metodologia, un ragionamento, una logica, operazioni in cui emerge sempre la firma di chi, in quel momento, osserva rigorosamente il mondo. Ogni descrizione fisica infatti, così come l’opera di un artista o il manufatto di un artigiano, è sempre centrata su un osservatore e di conseguenza un mondo pensato “lì” come struttura univoca, indipendentemente da una scelta osservazionale, non è oggetto di conoscenza scientifica. “Fare i conti con la complessità significa quindi anche accettare, di fatto, un’incertezza radicale, simile a quella che ognuno di noi sperimenta nella pluralità delle scelte possibili della vita”, sintetizza molto bene il fisico teorico Ignazio Licata. Un apparente limite che però, allo stesso tempo, si rivela anche essere la frontiera mobile della conoscenza scientifica.
Ecco che allora, una volta chiariti e metabolizzati questi importanti concetti, peraltro abbastanza normali per il biologo, per esempio, forse un po’ meno per il fisico, il ragionamento ci conduce automaticamente anche ad un sostanziale riarrangiamento della definizione classica di scienza, che per dirla ancora con Ignazio Licata “non è sinonimo di fisica, ma indica invece una pluralità di linguaggi possibili, un’ecologia di strategie cognitive in cui è centrale la ricerca, tramite la scelta delle osservabili e la costruzione di modelli”. E questo, in fondo, al di là delle interpretazioni, era forse anche parte del raffinato pensiero dell’”artigiano” Galileo, quando per esempio nella formulazione del suo principio di inerzia individua nel gran numero di variabili possibili quelle fisicamente più rilevanti, applicando di fatto una procedura sistemica, almeno nella misura in cui nella costruzione di un modello, oggi come ieri, è sempre di fondamentale importanza stabilire cosa osservare e attraverso quali procedure operative.
.
.
.
23 commenti
In questo articolo di filosofia della scienza, il dott. Vomiero, che ringrazio, fa una sintesi della sua concezione della “scienza”, escludendone dall’ambito, mi pare con quel suo riferimento alle “rappresentazioni matematiche”, tutte quelle che si chiamano correntemente “scienze umane”, come la storia o la filologia o l’etica, ecc. Vomiero restringe insomma il suo discorso a quella che io chiamo scienza moderna, o empirica, o sperimentale, o tecno-scienza.
Dico subito che mi ritrovo nel 90% delle affermazioni di Vomiero. Eppure, l’autore non si sorprenderà, credo, se aggiungo subito di dissentire dal cuore della sua idea di scienza. Perché mi appare, allo stesso tempo, troppo larga, troppo stretta e troppo rosea.
Troppo larga, quando Vomiero la chiama “forma principale di conoscenza”. Ci sono, nella mia filosofia, interi settori – i più importanti per la vita umana, a mio giudizio – che escono dagli ambiti della scienza (empirica) e sono tutti quelli che rientrano nelle “scienze umane”. Per esempio l’etica, sulla quale Feynman ebbe a riconoscere:
“Le scienze naturali non insegnano direttamente che cosa è bene e che cosa è male. I valori etici giacciono fuori del dominio scientifico” (The Meaning of It All).
Troppo stretta, perché mi pare manchi il riferimento forte, finale, decisivo alla replicazione dell’ipotesi e al controllo dell’ESPERIMENTO. La corroborazione delle sue ipotesi è l’onore della scienza moderna rispetto ad ogni altra disciplina di conoscenza. “Ciò che non so ricreare, non lo capisco”, è sempre Feynman. Incertezza? complessità? Ci sono la teoria della probabilità, la statistica e altre teorie matematiche, ma un ricercatore pagato dai contribuenti non può a mio parere vivere su ipotesi che non siano replicabili dalla comunità scientifica, per essere controllate sul vivo dell’esperimento e prospetticamente suscettibili di applicazioni.
Troppo rosea, infine, perché mi pare passato sotto silenzio il legame che si è creato ai nostri giorni tra impresa scientifica da una parte e denaro e potere dall’altra…, con una macchia che offusca crescentemente, ogni giorno di più, l’Eden che ci viene rappresentato… a danno anche della stessa scienza.
Grazie prof. Masiero per i suoi, per me sempre preziosi, commenti. Inizio dalla sua terza affermazione, “troppo rosea”. Ha ragione, nell’articolo ho evitato volutamente di discutere di questa problematica, che indubbiamente esiste e non ne faccio alcun mistero, un po’ perché per aprire questa parentesi ci vorrebbe perlomeno un altro articolo, e un po’ perché penso che per avvicinarsi in modo appropriato ed equilibrato a questo tema, molto spesso travisato, prima bisognerebbe cercare di capire bene che cosa sia oggi la scienza, con tutti i suoi meriti, ed è quello che ho cercato di fare, chiaramente in modo parziale, in questo articolo. “Troppo Larga”, non lo so. Per me la scienza è la forma principale di conoscenza, ma l’ho detto chiaramente, entro limiti e ambiti ben definiti e circoscritti, cosa che mi pare invece le filosofie e le teologie generalmente non facciano. Feynman sull’etica ha ancora una volta ragione. Certamente il mio pensiero va principalmente alla scienza naturale, anche se credo che molti dei concetti trattati, incertezza, cambiamento, artigianalità, pluralità, si possano tranquillamente adattare anche a molti altri tipi di scienza che si servono comunque del metodo scientifico, sia scienze storiche, economiche che umanistiche. Sul “troppo stretta”, condivido pienamente la sua riflessione e la ringrazio di avere ripreso questi importanti e fondamentali elementi. Nel merito, non vedo alcuna contraddizione con quanto detto nell’articolo.
mi pare un po’ forte caricare di tendenza ideologica la teoria del tutto in fisica e l’intelligenza artificiale. La prima era semplicemente un tentativo di unificare le ultime due forze fisiche non ancora unificate: gravitazione cone le altre tre (debole,elettromagnetica,forte); era (ed è ancora?) plausibile attendersi che se è stato possibile farlo con tre di esse, dovrebbe esserlo anche per la quarta…. l’intelligenza artificiale, con l’avvento dei Big Data, sta solo ora tirando fuori il meglio di se ed è rimasta per molti anni nell’ambito di poche e rare applicazioni, mentre oggi inquieta non pochi per gli incogniti sviluppi che potrebbe avere sulla vita di tutti noi: altro che ideologico, qui siamo molto sul pratico.
Detta così può effettivamente sembrare forte Serafino, soprattutto in un mondo mediatico e speculativo che fa di queste cose il suo pane quotidiano. In realtà, se diamo per verosimile la prospettiva che ho espresso in questo articolo, e quindi accettiamo di fatto la complessità di scala, il fenomeno dell’emergenza, l’impossibilità pratica e teorica che esista un livello fondamentale dal quale poter dedurre tutto il resto girando soltanto la manopola della matematica, l’ideologia di una teoria unica che descriva tutto l’universo e il codice cosmico, appare come una conseguenza logica. E’ il riduzionismo radicale stesso ad essere ideologico. Riguardo l’intelligenza artificiale, bisognerebbe capirsi su cosa si intenda. Se uno intende (come molti temono) un essere artificiale che produce conoscenza attiva e ragiona come un essere umano, ribadisco che, a mio parere, si tratta soltanto di pura ideologia.
La realtà è che non sappiamo ancora cosa possa “produrre” effettivamente una macchina la cui “intelligenza” superi una certa soglia. E’ già stato dimostrato che in alcuni ambiti la AI può dimostrare teoremi importanti, anche se non ne capiamo completamente il senso dei passaggi. Se gente come Hawking, Pensore e molti altri hanno messo un guardia l’umanità sull’uso intelligente delle macchine in modo pervasivo nella nostra vita, non è per ideologia, ma per questioni molto molto concrete. La “teoria del tutto” forse ha un nome un po’ infelice: non è affatto una teoria “dal quale poter dedurre tutto il resto girando soltanto la manopola della matematica” ma semplicemente una ricerca (ad oggi in corso) sull’unificazione della forza gravitazionale con le altre quattro: non esaurisce certo il “tutto”. Certi nomi affibbiati anche mediaticamente vanno prima interpretati per quello che veramente sono, non per ciò che ci sembrano essere: altrimenti la critica a un certo modo di fare filosofia scientifica rischia di diventare sterile e grossolana.
Sul discorso della complessità concordo pienamente.
“Non è affatto una teoria “dal quale poter dedurre tutto il resto girando soltanto la manopola della matematica”. Infatti non ho detto questo, ho detto semmai che anche l’ideologia della “teoria del tutto” sarebbe una conseguenza logica di questo modo riduzionistico di pensare. Avrebbe senso per esempio ricavare tutta la biologia dallo studio dell’interazione tra cariche elettriche? Detto questo, per il resto sono sostanzialmente d’accordo con quanto lei dice.
Vedo, sig. Serafino, che lei in riferimento alle macchine mette sempre “intelligenza”, tra virgolette. Fa bene. L’intelligenza umana non ha nulla a che vedere con la “intelligenza” delle macchine (che si riduce sempre a ipercalcolo incosciente), così come l’attesa “teoria fisica del tutto” non ha niente a che vedere col tutto…, o “la particella di Dio” con Dio.
Questi usi impropri dei nomi non sono però casuali, secondo me, ma hanno a che fare con un uso ideologico ed economico della scienza, cui purtroppo molti scienziati si prestano.
E se alcuni poi mettono in guardia contro la possibilità di certe tecnologie (future) non è con riguardo alla loro crescita d’intelligenza, ma piuttosto alla nostra perdita di controllo sulla loro pervasività. Io in questo momento sono molto preoccupato, per esempio, di una tecnologia “intelligente”, del tutto stupida, che sta nascendo dall’accoppiamento dell’IoT con la Blockchain.
La chiamata intelligenza artificiale ha anche il problema della volontá. L´uomo non solo “capisce”, vuole capire. La machina fa la ricerca per cui l´uomo la costruisce. É intelligente la macchina o l´uomo che la costruita per capire?
Uno degli aspetti interessanti sul piano filosofico è proprio il rapporto tra intelligenza e libero arbitrio, o se preferisce, coscienza (il primo è un termine troppo teologico, ma ci siamo capiti). Su questo abbondano le posizioni opposte. Un esperimento ideale che chiarisce la questione è il così detto problema della “stanza cinese”.
Se un essere “intelligente” sia anche “cosciente” è un punto aperto. Se poi questo voglia dire o no avere un “libero arbitrio” è ancora un punto aperto perchè potrebbe darsi che vi possa essere coscienza senza un vero “libero arbitrio”. La verità è che non sappiamo la vera differenza fra una intelligenza evoluta di tipo artificiale e una umana: lo potremo scoprire solo realizzandola, da qui i vari rischi connessi.
Non sono d’accordo con lei. Non vedo come si possa essere intelligenti senza essere senzienti e coscienti, due caratteristiche su cui il solo calcolo numerico per quanto potenziato non può nulla.
La percezioni e la coscienza saranno difficili da definire dai riduzionisti, ma tutti – già un bimbo che piange di dolore e chiama mamma finché non arriva – sappiamo cosa sono.
Mi pare che non condividiamo il vocabolario: intelligenza vuol essere in grado di risolvere in modo creativo problemi nuovi, di sapere mettere in campo dei tentativi di soluzioni e di sapere apprendere dagli errori, imparando e raffinando le proprie capacità. Questo si distingue dalla semplice e mera “programmazione”, per quanto complessa possa essere, che invece è inevitabilmente destinata a risolvere solo la classe di problemi per i quali è stata, appunto, programmata. E’ una distinzione qualitativa, che non dipende solo dalla “potenza” di calcolo (per quanto questa possa essere necessaria), ma è un vero e proprio cambio di paradigma. Ad oggi possiamo dire che, sulla base dei primi risultati, si inizia a intravedere la potenza di una Intelligenza Artificiale che, pur con approcci diversi dall’intelligenza umana, è un grado di eguagliarne e in qualche caso superare, le capacità umane, non più secondo il secondo approccio “programmazione” ma appunto il secondo il primo (AI).
Riguardo la coscienza è tutta una questione aperta, perché a differenza dell’Intelligenza (che almeno sappiamo definire), sulla coscienza sappiamo talmente poco che abbiamo difficoltà perfino a definire cosa sia. La coscienza, come minimo, dovrebbe comportare “il senso del se” e forse anche altri paradigmi mentali.
Certamente è difficile concepire una coscienza senza una intelligenza ma abbiamo già oggi dei segni evidenti che potrebbe esistere una intelligenza (o forse “delle intelligenze”) senza necessariamente una coscienza.
Guardi, nel caso della “particella di Dio” fu l’editore – quindi motivi puramente commerciali – a cambiare titolo al libro che l’autore Leon M. Lederman voleva invece chiamare “particella del diavolo” per motivi completamente differenti: giusto per sottolineare quanto fosse difficile rilevarla. “particella di Dio” ha finito per non avere più questa funzione e l’ha caricarla di significati che non ha, e non ha mai avuto nelle menti di nessuno, tantomeno dell’autore.
Per quanto rigaurda invece “teoria del tutto” leggo dalla pagina wikipedia che l’origine dell’espressione è mutuata dal mondo della fantascienza e trasposta in ambito divulgativo, mentre in ambito scientifico si parla di “teoria del campo unificato”, che mi pare decisamente più appropriata. In questo ha ragione lei: ha una probabile origine ideologica, ma ancora una volta, non scientifica.
L’editore non ha cambiato il titolo senza l’autorizzazione dell’autore. Quindi il condizionamento economico sulla scoperta scientifica c’è stata, anzi è stata accolta poi con grande entusiasmo dagli stessi scopritori, che continuano ad usare quell’appellativo in conferenze rivolte al pubblico.
1) No, in genere, per contratto, sono gli editori a scegliere il titolo e ciò che va scritto nelle pagine di copertina del libro: d’altra parte ci mettono i soldi e riservano sempre a se quei diritti perché sono quelli che gli fanno vendere di più. Può non piacere ma è così. La storia dell’editoria è piena casi azzeccati o falliti di libri il cui titolo è stato appunto scelto dall’editore.
2) Vorrei vedere che una scoperta del genere non fosse accolta con entusiasmo!!!
3) E’ vero è diventato un cliché mediatico, purtroppo.
lo metto tra virgolette perchè, essendo informatico, so di cosa parlo 🙂
Decisamente la pensiamo in modo diverso.
ma io veramente non volevo improntare un confronto di opinioni: stavo semplicemente cercando di spiegare lo stato dell’arte delle conoscenze ad oggi su questi temi.
Credo di conoscere abbastanza anch’io “lo stato dell’arte” dell’information science, ma ne do un giudizio opposto al suo, Serafino, in termini di intelligenza delle macchine. La macchina di Babbage e il Tianhe da 30 Pflops l’hanno per me uguale, zero.
Mi scusi se insisto (se proprio le piace le do del lei) ma continua ad esprimere opinioni senza argomentarle, come invece ho tentato di sintetizzare io. La potenza di calcolo non è di per se determinante da un punto di vista ontologico, nonostante potrebbe essere necessaria per un “salto di qualità” della AI. La vera differenza sta nelle tecniche di autoapprendimento del software: ad oggi il modo “classico” di programmare non è, qualitativamente diverso dalla macchina di Turing, dall’assembler, per intenderci. Non sappiamo se degli strati costruiti su di esse con paradigmi completamente nuovi possano far “emergere” qualcosa che mostri davvero di essere “intelligente”, che è proprio la sfida della AI. La teoria della complessità ha fatto passi da gigante da Alan Turing ad oggi, quindi le strade sono aperte. Anche le conoscenze sulla mente e sulla coscienza sono molto cambiate.
Le preclusioni come la sua mi sembrano molto preconcette.
2) Giusto accogliere la scoperta con entusiasmo. Io piuttosto mi riferivo all’accoglienza entusiasmante degli scienziati al nomignolo, quando parlano al pubblico non tecnico.
Non penso nemmeno io, Nadia, che l’AI possa neanche lontanamente avvicinare le caratteristiche dell’intelligenza umana, che sono imprescindibili dall’autocoscienza (come spiega Simon) e anche dagli stessi sentimenti!
L’intelligenza sta alle macchine come Dio al bosone di Higgs: un nick di marketing, o al più una metafora.
Io non ho nessun pregiudizio contro l’AI: i nostri gruppi di lavoro ne tengono continuamente monitorati gli sviluppi tecnologici. Rinvio agli articoli di approfondimento sul tema che ho scritto qui in CS, corredati dal parere degli scienziati che la pensano come lei e me.
Concordo con Giorgio per dire che in questo articolo abbiamo lo sviluppo personale del dott;Vomiero circa la sua personale concezione di “scienza”.
Quanto a me, mi attengo, per questa definizione, a due nozioni che sono universamente accettate ed esplicabli razionalmente: (a) un discorso scientifico è definito dalla sua falsificabilità (cioè non si può mai dimostrare come vero, ma solo le sue proposizioni “non vere” possono essere provate); (b) la sola prova scientifica è quella sperimentale, in quanto il discorso scientifico concerne esclusivamente il mondo fisico.
Vorrei però aggiungere ulteriori elementi di riflessione sul suo discorso circa la nozione di complessità anche per ridimensionare certi aspetti “vaporosi” del suo discorso e di quello dell’utente “Serafino”.
Un sistema complesso non aumenta lo spazio di fase raggiungibile dai suoi elementi, ma lo riduce drasticamente in tutti i casi: cioè un sistema complesso diminuisce la somma delle informazioni che ogni elemento porta con sé prima di far parte di un sistema complesso.
Questo ha come consequenza che qualunque sia un sistema complesso esso non ha più potenzialità che i suoi componenti, ma ne realizza una attualità particolare (ridicendone le potenzialità): quel che cambia è che l’interazione del sistema complesso in quanto tale con il suo ambiente, cioè se i bulloni e le piastre di alluminio prese indipendentemente possono partecipare a tante cose, diventando un’ala di aereo, non potranno più essere un elemento decorativo architettonico, ma potranno volare, cosa che non potrebbero mai fare se restassero isolate.
La nozione di “emergenza” in una struttura complessa mal utlizzata da chi capisce poco non è quindi l’apparire di una realtà che potrebbe estendere la potenza degli elementi che lo compongono, ma sempre e solo una realtà che sempre e solo riduce le loro potenzialià anche se interagisce con il suo ambiente in modo specifico.
Ancora meno, una struttura “emergente” potrà dare agli elementi che lo compongno proprietà che non possiedono in quanto tali: ad esempio le proprietà dei cristalli di ghiaccio, che sono strutture con comportamenti molto specifici, e sono “emrgenti” rispetto al vapore acqueo o all’acqua nella sua fase liquida, non rendono le molecole d’acqua in uqanto tali “cirstalline” e ancor meno gli atomi di idrogeno e ossiggeno che le compongono , o gli elettroni, protoni e altri neutroni.
Quel che è tipico della coscienza umana in quanto tale è il “pensare di pensare”: l’auto-riflessione, cioè la capacità di avere l’atto del pensare di contenere se stesso, “penso che mi penso”, è un atto eminentemente non fisico perché non esiste sistema fisico dove l’effetto è la causa.
Un sistema complesso, in realtà, allontana dalla realizzazione di una realtà cove l’effetto sia la causa, in quanto lap moltiplicazione degli elementi, allunga la catena di cause ed effetti e quindi realizza sempre meno bene l’avvenre di una tale realtà: un effetto che è la propria causa è idealmente un sistema semplicissimo e non un sistema complesso.
Ci sono stati alcuni tentativi di dsegnare concettualmente sistemi di tale tipo e questo sono i sognatori di moti perpetui di primo e secondo tipo: orbene, sappiamo che sono “impossibili”.
Credere che sistemi sempre piu complessi vedranno l’apparire di fenomeni emergenti che siano contrari alla natura stessa del mondo fisico, come l’atto concreto di “pensare che penso”, rileva solo di un’ignoranza crassa sia del pensiero scientifico genuino che del semplice buon senso realista.
Certo Simon, ha ragione, quella che ho delineato io, è una prospettiva personale, esattamente come quella di chiunque scriva un qualsiasi editoriale, però le garantisco che è una prospettiva condivisa anche da molti scienziati “moderni”, e praticamente onnipresente tra i biologi che io conosca, e la prego di non elencarmi come contradditorio i soliti fisici riduzionisti di oltre qualche decennio fa. Condivido la prima parte del suo intervento, le due nozioni da lei elencate, in merito alle quali, così come per quanto riguarda la riflessione del prof.Masiero, non vedo alcuna contraddizione con quanto ho scritto io nell’articolo. Riguardo la sua altrettanto personale disamina sui sistemi complessi, non credo di avere capito molto, sinceramente, ma mi riprometto ci cercare di studiarla bene ed eventualmente risponderle più in là.