La scuola che sta prendendo forma è un incubo lisergico finalizzato a consegnare le future generazioni al mercato del lavoro (un mercato dove la merce sono i ragazzi).
Un susseguirsi di annunci sulla scuola ha caratterizzato il passato periodo di vacanze, la ministra Fedeli ha imperversato su tutti i media con dichiarazioni che messe insieme mostrano un quadro che va dallo smantellamento della formazione culturale alla demagogia.
Il 22 agosto riassumevo la situazione convulsa e demagogica con un tweet che a giudicare dall’interesse suscitato coglieva lo stato d’animo di molti:
Ministra Fedeli: liceo breve per finire a 17 anni ma obbligo scolastico da portare a 18.
Qualcuno glielo spiega che il 18 viene dopo il 17? pic.twitter.com/eRIAkckj8A— Enzo Pennetta (@CriticaScient) 22 agosto 2017
Il tweet aveva lo scopo di far notare la contraddittorietà di una politica che propone l’estensione dell’obbligo scolastico nel momento stesso in cui dispone l’abbreviazione del percorso di studio, tanto da sconfinare anche nell’incompatibilità delle due proposte, tra i numerosissimi consensi ricevuti qualcuno faceva notare che a volte il quinto anno si termina a 19 anni compiuti e che quindi con un anno di meno si finirebbe nei fatidici 18 proposti dalla ministra.
A parte il fatto che in molti compiono il 18 anno nel corso del quinto anno di scuola superiore, l’obiezione viene definitivamente respinta considerando che esistono numerosi studenti che iniziano il percorso scolastico con un anno di anticipo e che quindi si verrebbero a trovare un obbligo scolastico surreale che dovrebbe essere adempiuto a studi completati (a meno di non voler considerare la possibilità di fare un primo anno di università obbligatorio).
Chiaramente si ratta di problemi che sarebbero facilmente risolvibili in fase di formulazione del provvedimento, ma altrettanto evidentemente il punto che si voleva evidenziare non era quello.
Il punto è che si va delineando un percorso coerente al progetto di una scuola in cui lo smantellamento culturale, contrariamente a quanto affermato, è l’anticamera di un posto di lavoro squalificato e precario.
L’idea di ridurre il numero di anni di corso a quattro, con la pretesa di non intaccare il profitto, è talmente illogica che perderci tempo a spiegarne i punti negativi appare offensivo per il lettore di media intelligenza, ciò premesso, gli accorgimenti proposti per compensare l’anno eliminato sono puramente teorici, come ad esempio il pensiero magico che vede una soluzione nell’uso di un supporto informatico, o addirittura, cosa al limite dell’insulto all’intelligenza, nella proposta della folle didattica CLIL, un metodo che si vorrebbe addirittura rendere obbligatorio e che prevede l’insegnamento di tre materie spiegate in lingua inglese: provate voi a spiegare ad uno studente, anche bravo, qualcosa direttamente in inglese. Buona fortuna.
Ma a quanto pare dalle parti del MIUR le idee nascono come i funghi, e così per non essere da meno della ministra senza diploma Fedeli, è intervenuta la Sottosegretaria con diploma tecnico commerciale Angela D’Onghia a rilanciare la posta sul tavolo con la proposta di accorciare di un anno le scuole medie anziché i licei, la motivazione sempre la stessa:
“Sono convinta che l’abbreviazione di un anno del percorso di studi consentirebbe alle nuove generazioni di accelerare l’ingresso nel mondo del lavoro come accade già in numerosi paesi europei uscendo dalla scuola a 18 anni.
Dopotutto ce lo chiede già l’Europa di realizzare un unico segmento di scuola secondaria di 7 anni. La sperimentazione proposta dal MIUR però non lo prevede perché si rivolge solo agli Istituti superiori. Mi auguro che nel rimodulare il ciclo di studi possa essere coinvolta anche la scuola media di riferimento.
Non si tratta solo di risparmiare ma piuttosto di un investimento serio e innovativo. Quello che conta è la qualità della formazione che deve essere continuativa. La riforma dell’abbreviazione del ciclo scolastico non è un’idea nuova nel nostro Paese. Alcuni tentativi di riordinare il sistema sono stati effettuati dai Governi precedenti. Ma oggi con le profonde trasformazioni di questi ultimi anni non si può più rinviare di progettare un percorso educativo innovativo che è allo stesso tempo una scommessa che abbiamo il dovere di cogliere. Solo così possiamo rimettere al centro del sistema scolastico l’innovazione al servizio degli studenti”.
Come è possibile constatare la scuola, vista da chi per percorso personale non l’ha particolarmente amata, è vista come un avviamento al lavoro, nelle parole della sottosegretaria non compare mai il termine “cultura”, in compenso emerge la convinzione che l’innovazione sia un bene in sé, rivelando una interiorizzata mentalità positivista secondo la quale il cambiamento deve essere per forza in meglio. Innovare dunque, ma la dirigenza del MIUR, poco scolarizzata, ama anche scommettere, giocare dunque d’azzardo sulla formazione delle future generazioni. L’idea della riduzione delle medie da tre anni a due è stata poi fatta propria dalla Ministra che a questo punto dovrebbe rendersi conto che se si tagliano sia le Medie che i Licei i ragazzi uscirebbero alla stessa età in cui adesso si esce dal terzo anno di superiori, e per fare cosa? L’Università? Chiunque abbia un figlio di quell’età non ha bisogno di altre spiegazioni.
Ma uno dei veri scopi del taglio degli anni di corso è il taglio delle spese, come dichiarato dalla Sottosegretaria: “Non si tratta solo di risparmiare…”. Ecco che ancora una volta compare il “ce lo chiede l’Europa”, un mantra che va letto come un chiedere allo Stato di farsi sempre più da parte e diventare debole, di essere sempre meno Stato e abbandonare il rapporto di alleanza con i cittadini attuando tagli alla spesa voluti dalla finanza internazionale divenuta nel frattempo il vero referente-padrone della politica. Il ridicolo viene infine rasentato e oltrepassato nel proseguimento della frase citata: “Non si tratta solo di risparmiare ma piuttosto di un investimento serio e innovativo.“, siamo alla contraddizione in termini dove risparmiare è fare un investimento. Ma la contraddizione in termini è un concetto che evidentemente Ministra e Sottosegretaria non hanno avuto modo di studiare, infatti appartiene alla Scolastica medievale, a quella filosofia che non hanno studiato e che nella scuola che chiede l’Europa viene ritenuta inutile in quanto non finalizzata al lavoro.
Ma andando su un aspetto tecnico, come si dovrebbe fare a comprimere in soli quattro anni quello che si faceva in cinque? Qui la presenza al MIUR di persone che di scuola non sanno nulla è fondamentale, solo chi non ha mai messo piede in un’aula scolastica da insegnante (o forse anche da studente viene da pensare) può pensare che si possa allungare senza inconvenienti l’orario scolastico giornaliero fino alla settima ora (immaginate l’attenzione ad una spiegazione di matematica o filosofia alla settima ora?) e poi pensare di ricorrere all’illusione di nuove e miracolose tecnologie delle quali da tempo è noto che non risolvono nulla: “Ocse, troppa tecnologia a scuola danneggia l’apprendimento“.
Nella scuola che ci chiede l’Europa c’è poi anche il pernicioso inserimento dell’alternanza scuola-lavoro che ottiene un duplice effetto di sottrarre tempo allo studio e abituare i gli studenti allo sfruttamento minorile, per di più aggravato da un lavoro non retribuito, una cosa che in tempi meno evoluti e innovativi sarebbe stata un reato da codice penale. Adesso si chiama “La buona scuola”.
Un incubo fatto di mattine interminabili di sette ore e di pomeriggi accorciati in cui studiare per le sette ore del giorno successivo, ma nei quali si dovrà anche andare a lavorare gratis per l’alternanza scuola lavoro. Mattine allucinogene con lo stress delle demenziali lezioni in modalità CLIL, il tutto per correre il più velocemente possibile verso il lavoro dei mini jobs e verso la frustrazione di una disoccupazione giovanile disperante tanto più quanto in contrasto con la narrazione della generazione “Erasmus” che come un depliant turistico lascia intravedere una meta esotica per tutti.
La scuola che sta prendendo forma è un incubo fatto di competenze spendibili (skills…) e non di cultura e docenti che ne trasmettano l’amore, un universo lisergico finalizzato a consegnare le future generazioni al mercato del lavoro (un mercato dove la merce sono i ragazzi), la scuola che si va formando è un avviamento al lavoro che si realizza attraverso un abbrutimento e che ogni ragazzo sano dovrebbe detestare con tutte le sue forze, e questo è il risultato che con ogni probabilità verrà conseguito. Rifiutare questo tipo di scuola sarà una scelta di vera libertà, i veri ignoranti per la prima volta saranno quelli che otterranno il plauso dei docenti mentre la cultura sarà una scelta da ribelli.
Personalmente sarei pronto a fondare una scuola che riprenda tutte le caratteristiche fondamentali dei licei degli anni ’70-’90: niente alternanza scuola lavoro; mattinate di 5 ore; niente lezioni CLIL e in generale niente ipertrofia della lingua inglese; durata del liceo 5 anni. Una scuola del “know why” e non del “know how“.
Gli studenti che uscirebbero da queste scuole sarebbero molto più formati da un punto di vista umano e culturale, persone, esserei umani, e non futuri dipendenti, certamente anche più in grado di competere nelle attività lavorative rispetto agli amici formati nelle scuole “fast-feed”, tanto per usare un neologismo anglofilo.
Ma anche persone in grado di esercitare un vero pensiero critico, un reale pericolo per i propugnatori del politicamente corretto.
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13 commenti
Secondo me sei troppo ottimista sul fatto che i giovani reagiranno… ma spero di sbagliarmi…
Temo anch’io che molti siano incapaci di una reazione, però non dispero.
Sono pienamente d’accordo con la sua analisi prof.Pennetta e anche con la sua proposta di una scuola stile liceo degli anni ’70-’90. A volte, ammettere gli errori e fare un passo indietro potrebbe essere saggio, e non soltanto per quanto riguarda la scuola. Mi piacerebbe conoscere il suo pensiero anche in merito al numero chiuso all’università.
Concordo sul fatto che sarebbe opportuno fare una riflessione anche sull’Università dove abbiamo avuto una proliferazione di insegnamenti inutili nati solo per giustificare nuove cattedre date agli amici.
Riguardo al numero chiuso vedo che ormai i test di ammissione sono diventati uno sgradevole modo per fare cassa.
Lo toglierei poi la selezione la farebbero i primi esami, almeno così io la vedo.
Grazie, questo in sintesi è anche il mio pensiero.
Non capisco questa avversione al capitale. La riduzione del etá in cui si finiscono gli studi aiuterebbe a risolvere il problema demografico dell´Italia. Per avere piú figli bisogna sposarsi prima e avere la laurea prima, l´impiego prima toglie una scusa.
Sul come ridurla sono d´accordo con lei professore. Quella non é la forma. Io piuttosto accorcerei le elemantari, mi sembra che oggi i bambini ne abbiano meno bisogno di tano tempo per imparare quei contenuti.
Anche sono d´accordo col finirla con questa storia della preparazione per il lavoro. Quale lavoro? Non dicono che tra dieci anni i lavori saranno tutti diversi degli attuali? Poi le aziende chiedono dieci anni di esperienza ai 25 anni nelle richieste. Poi siaccontentano di uno che é vestito decentemente compie gli orari, si esprime educatamente ed é capace di eseguire un´indicazione.
Quindi siamo così pieni di offerte di lavoro che finire un anno prima consente di entrare un anno prima nel modo del lavoro?
Al contrario decine di migliaia di ragazzi verranno messi tra i disoccupati quando invece sarebbero stati ancora studenti.
Concordo sulla seconda parte, la preparazione al lavoro è sempre stata fatta nell’azienda di arrivo.
Tenerli a scuola inutilmente non gli trasforma in “non disoccupati”. Tanto il governo giá li conta tra i disoccupati. Il problema del lavoro giovanile non dipende dell’istruzione, forse dipendi di piú da quella mentalitá che colpa di tutto “il capitale” ed “il profitto”. Infatti gli italiani piú preparati “scappano” a farsi sfruttare nei paesi piú capitalisti.
Credo valga la pena evitare generalizzazioni su ciò che richiedono le aziende e di che cosa poi si accontentano per non incrementare la sfiducia nei giovani. Ho tre esempi in famiglia e molti altri che raccontano una realtà parecchio diversa. La mia prima figlia, oggi trentunenne, laureatasi nel 2009 in Ingegneria gestionale prima dei 24 anni, è stata assunta un mese dopo la laurea senza nessuna esperienza in una azienda di Milano di 200 addetti come responsabile della qualità con un contratto a tempo di un anno. Ha poi dimostrato via via le sue attitudini nei diversi ruoli aziendali ricoperti e
dal 2014 ricopre il ruolo di direttore di produzione. Oggi, con l’esperienza maturata, aspira alla direzione generale. La seconda figlia, 26 anni, in procinto di laurearsi in Ingegneria dei materiali a Modena è stata assunta dall’azienda in cui ha svolto e concluso il tirocinio obbligatorio di sei mesi connesso alla tesi di laurea, che sta ultimando. Si tratta di un’azienda specializzata nell’Ingegneria di processo e di prodotto nel campo automotive. Il suo compagno, 31 anni, ingegnere meccanico, assunto anch’egli appena dopo la laurea senza nessuna esperienza è oggi team leader in una nota azienda automobilistica.
La preparazione al lavoro sui generis non esiste e lo affermo da ingegnere elettronico di vecchia data. Ciò che oggi le aziende ricercano oltre naturalmente alla conoscenza
dell’inglese e al possesso delle conoscenze di base che offre un qualsiasi corso
di Ingegneria è la capacità del soggetto di relazionarsi in azienda, dove ormai si opera in equipe e dimostrare la capacità di assumersi le responsabilità e di risolvere i problemi che giornalmente si presentano sul campo. Appare incredibile a questo proposito l’articolo apparso ieri su “La Stampa”: «Ingegneri, oltre 24mila richieste dalle aziende. Ma non si trovano».
Ma “ministrA” e “sottosegretariA” lo hai scritto in senso ironico, vero? 😀
Chi io? Pensi che potrei prendere in giro l’autorità? (Se fosse stato un maschio avrei scritto autoritò…)
Nulla da aggiungere o togliere, tristemente centrato. Devo dire che secondo me, quello che andrebbe ridotto è l’orario settimanale per lasciare più tempo all studio personale, è lì che si impara, non durante la lezione, tanto meno durante le lezioni con pesante supporto informatico, altamente distrattive e spacciatrici dell’idea fasulla che si è capito tutto. Le lezioni possono orientare, correggere, ribadire, rafforzare, aiutare lo studente nel suo sforzo di capire, non certo sostituirlo. Abbiamo stravolto tutto, ciò che importa oggi è “lo ritener senza l’aver inteso”.
Pienamente d’accordo, con la settimana corta le ore di lezione sono aumentate e i pomeriggi sono stati contratti, con il liceo breve saremo al delirio.