Riprendiamo un articolo di Marco Respinti pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 26-04-2017, una interessante riflessione sull’ultimo capitolo dei quella strana ‘febbre da marziani’ che come la malaria terzana o quartana, a partire dal lontano ‘800, periodicamente si manifesta tra i ricercatori e i media.
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L’acqua su Marte lascia i marziani a becco asciutto
26-04-2017
Come rabdomanti, missioni spaziali sempre più sofisticate e costose cercano acqua nelle immensità dell’universo. Perché l’acqua, nell’universo, vale più dell’oro. Se infatti nel cosmo vi fosse vita aliena, senz’acqua liquida a livello superficiale non sopravviverebbe. Illusorio è invece pensare l’inverso: perché trovare acqua liquida sulla superficie di un pianeta o di un satellite diversi dalla Terra non significa affatto avere scoperto vita aliena. Gli alieni, infatti, se esistono, hanno sì bisogno dell’acqua, ma l’acqua non ha affatto bisogno di loro. Motivo per cui, quand’anche le spedizioni cosmiche che scrutano l’universo trovassero acqua, non avrebbero trovato per nulla la vita. Avrebbero solo verificato la presenza di una (ce ne sono altre) delle condizioni necessarie all’esistenza, non scoperto la culla della vita. L’acqua, cioè, è decisiva per la vita solo se la vita c’è; altrimenti, ai fini della vita, è come tutto il resto: perfettamente inutile. Figuriamoci poi se nemmeno l’acqua c’è, come su Marte.
Il quarto pianeta per distanza dal Sole, Marte, attira da sempre le voglie dei cacciatori di alieni e le attenzioni dei ricercatori. Grazie alla fantascienza chiamiamo “marziani” gli extraterrestri da qualunque angolo della galassia provengano e grazie alla scienza abbiamo imparato a designare il “pianeta rosso” come gemello della Terra, il più simile a noi di tutto il sistema solare. Ma cos’ha poi di gemello alla Terra quella sfera arida che è Marte, totalmente ricoperto da irrespirabili polveri di ossido di ferro (da cui il colore e il nomignolo), senza un’atmosfera significativa, dunque flagellato dai raggi ultravioletti solari e dalle meteoriti, dotato di una pressione pari a un centesimo di quella terrestre misurata sul livello del mare, congelato in una temperatura media di -63 gradi centigradi (quella media terrestre è 14 gradi), senz’agenti erosivi che ne modellino le superfici scomode e inospitali, privo di quella tettonica delle placche che, oltre ai terribili eventi sismici e vulcanici, regala i giacimenti minerali, le riserve di petrolio e di gas naturale, e l’energia geotermica, controllando pure quel ciclo biogeochimico del carbonio che livella la presenza di anidride carbonica nell’atmosfera di modo che un pianeta come la Terra non sia né una desolazione infuocata né una palla di ghiaccio?
In comune con la Terra, il “pianeta rosso” ha insomma nulla. Però potrebbe essere profezia del “pianeta blu” alla fine del proprio ciclo vitale. Gemello della Terra lo sarebbe cioè stato un tempo. Il punto è sempre l’acqua. Le missioni marziane della NASA occorse negli anni Duemila proprio quella hanno cercato e cercano. Non l’hanno trovata. Hanno trovato solo elementi ipoteticamente compatibili con la presenza, un tempo, di acqua allo stato liquido in superficie. Non è la stessa cosa.
Mettiamo però il caso che non si tratti di mera compatibilità, ma di riscontro oggettivo. Che l’acqua liquida, insomma, un tempo sulla superficie di Marte ci sia stata. Visto che non c’è più, dov’è finita? Si è dispersa tutta nello spazio. Lo asserisce la sonda MAVEN (Mars Atmosphere and Volatile EvolutioN), in orbita attorno a Marte dal 21 settembre 2014. L’elaborazione dei suoi dati, che confermerebbero le supposizioni degli scienziati, le pubblica ora Science. Le radiazioni solari ultraviolette e soprattutto il vento solare (il flusso di particelle ad alta energia emesso dall’atmosfera del Sole), in grado di esercitare pressioni che disaggregano molecole relativamente semplici, avrebbero infatti spazzato da Marte quell’atmosfera, un tempo assai più consistente di quella odierna, che permetteva all’acqua allo stato liquido, grazie alla pressione esercitata, di restare sulla superficie del pianeta.
Mentre ci si chiede però perché il vento solare non abbia analogamente dissolto, dopo miliardi di anni, le atmosfere di Venere (incredibilmente densa) e della Terra, pianeti che, essendo più vicini al Sole di quanto lo sia Marte, sono molto più esposti al vento solare, per affermare che un tempo l’atmosfera marziana c’era ma si è dissolta si è studiata la distribuzione degl’isotopi dell’argon. In quel che resta dell’atmosfera di Marte, l’argon, un gas inerte che non reagisce quasi mai con altri elementi, è presente in abbondanza. Oggi quel gas è concentrato negli strati più altri dell’atmosfera del “pianeta rosso”, segno che il suo isotopo più leggero (l’argon 36) sa resistere poco a radiazioni e vento solare. Sarebbe così il 66% dell’argon originario quello che è andato perduto. Niente argon, niente atmosfera, niente pressione e l’acqua liquida di un tempo ha lasciato la superficie disperdendosi. Forse.
Nessuno infatti sa quando l’atmosfera di Marte abbia cominciato a rarefarsi al punto da lasciarsi sfuggire l’acqua liquida di superficie, quindi nessuno sa se sulla superficie del quarto pianeta del nostro sistema solare un tempo l’acqua sia davvero esistita allo stato liquido. Ma l’osservazione conclusiva vergata dall’équipe guidata da Bruce M. Jakosky, dell’Università del Colorado di Boulder, a conclusione del citato studio pubblicato su Science che elabora i dati NASA raccolti da MAVEN, introduce una variante decisiva.
Nell’aria marziana primitiva c’era infatti altro oltre all’argon. C’era anche anidride carbonica (CO2), il gas responsabile di quell’effetto serra che contiene e mantiene le temperature di un pianeta. «Nell’atmosfera primigenia di Marte», scrive l’équipe di Jakosky, «la pressione parziale della CO2 può essere stata di un bar o più, così da produrre un riscaldamento serra sufficiente a permettere all’acqua liquida di rimanere stabile sulla superficie». Ma se così è, i calcoli fatti per l’argon indicano che la perdita di CO2 all’epoca è stata davvero grande e «[…] la probabilità che il tasso di perdita sia stato molto più grande all’inizio della storia di Marte» è dato dalla «[…] maggior intensità dell’estrema radiazione ultravioletta solare e delle direttrici del vento solare» di quell’epoca primigenia.
Ovvero, più si risale speculativamente indietro nel tempo e più gli agenti oggi ritenuti responsabili del processo avvenuto su Marte sono intensi e rapidi nel determinare la rarefazione dell’atmosfera e quindi la volatilizzazione dell’acqua liquida di superficie, il punto massimo d’intensità essendo quello prossimo alla formazione stessa del “pianeta rosso”.
Insomma, se le cose stanno come dicono questi studi, la superficie di Marte l’acqua liquida non l’ha forse mai sentita gorgogliare e sciabordare, lasciando i marziani a becco asciutto.
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50 commenti
Ottimo articolo.
Forse parlare di “flop”, come si fa nel titolo, è esagerato, perché le missioni della Nasa non sono mai dirette a incontrare i marziani, ma a verificare se c’è acqua su Marte; non sono dirette a incontrare gli alieni, ma a trovare pianeti “abitabili”; ecc., ecc. Voglio dire che c’è un linguaggio rigorosamente tecno-scientifico usato tra gli addetti e un altro linguaggio mitico-fantastico usato dagli addetti per il popolo, di cui infine si ricerca il consenso per finanziare le missioni.
Giustamente l’autore ha ribadito che, se l’acqua è una condizione necessaria per la vita, nessuno conosce le condizioni sufficienti. Io ricorderò sempre quel seminario che ci tenne il professore di astronomia sulla Luna (“Che fai tu, Luna, in cielo, dimmi che fai, silenzïosa Luna?”), dove ci dimostrò che senza la Luna non ci sarebbe vita sulla Terra! Quanti degli esopianeti recentemente scoperti con grande clamore hanno anche una Luna al posto giusto?!
Il sole notoriamente ci deve stare per mantenere la vita sulla Terra, ma forse anche dei pianeti del nostro sistema solare non si potrebbe fare a meno per qualche motivo e magari va a finire che l’Universo intero esiste per mantenere la vita sulla Terra.
Certamente la Luna e probabilmente anche Giove sono necessari alla vita terrestre. Per gli altri corpi del sistema solare Lei ha qualche suggerimento, muggeridge?
Non vorrei passare dall’astronomia all’astrologia, ma siamo certi che la forza di gravità degli altri corpi celesti non abbia alcuna rilevanza su almeno uno dei parametri necessari alla vita sulla Terra ?
Ricordo una frase scritta proprio su queste pagine da Giorgio, mi sembra, che diceva così: l’universo è il posto più piccolo nel quale un uomo può mettere la testa.
Mi sembra che più ne sappiamo e più viene rafforzato il principio antropico.
“Il cosmo è il buco più piccolo in cui l’uomo possa nascondere la testa.”
Ortodossia
Di Gilbert Keith Chesterton
Grazie 🙂
Sì, Enzo. Ho citato la frase di Chesterton in un mio articolo dedicato proprio al principio antropico. Chesterton aveva intuito nel 1908 ciò che la fisica avrebbe trovato 60 anni dopo, ovvero che una vita fondata sulla chimica del carbonio (com’è la nostra) o su qualsiasi altro supporto chimico, non potrebbe esistere in un universo più piccolo e più giovane del nostro.
È certamente legittimo filosofare ed è perfino bello poetare, come Leopardi, o Churchill/Rovelli (l’altro giorno sul Corriere) sull’irrilevanza cosmica dell’esistenza umana. Scorretto è ricavare la presunta irrilevanza umana come corollario della cosmologia scientifica, in particolare della vastità dell’universo, per poi fare il saltino… alla vita aliena!
A questo punto sta bene di citare Weinberg come esempio paradigmatico della scorrettezza di cui parla Masiero:
«[…] qualunque modello cosmologico possa rivelarsi esatto, la soluzione trovata non potrà darci alcun conforto. Negli esseri umani c’è un’esigenza quasi irresistibile di credere che noi abbiamo un qualche rapporto speciale con l’universo, che la vita umana non sia solo il risultato più o meno curioso di una catena di eventi accidentali risalente fino ai primi tre minuti, che la nostra esistenza fosse già in qualche modo preordinata fin dal principio […] È molto difficile rendersi conto che tutto ciò è solo una piccola parte di un universo estremamente ostile. Ancora più difficile è rendersi conto che l’universo attuale si è sviluppato a partire da condizioni indicibilmente estranee e che sul suo futuro incombe un’estinzione caratterizzata da un gelo infinito o da un calore intollerabile. Quanto più l’universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo.» (da I primi tre minuti)
Ora, a parte il fatto che se l’uomo sente il bisogno di credere di avere un rapporto speciale con l’universo sarà perché magari è quella parte di universo – l’unica, almeno fino a prova contraria – la quale è “divenuta cosciente di sé”, a parte questo dico sarebbe interessante capire qual è il passaggio logico che permette di concludere che l’universo non ha scopo a partire da “l’universo è così e così”.
Va beh… comunque una ultima nota: a partire dagli stessi dati cosmologici c’è chi giunge a interpretazioni che sono agli antipodi rispetto a quelle di Weinberg: i sostenitori del principio antropico nella sua versione forte, ad esempio. [Posizione che tuttavia a mio avviso è pari e contraria alla suddetta, essendo soggetta (nella misura in cui pretende che tale principio sia esplicativo dell’evoluzione dell’universo) a certe inconsistenze logiche.]
Insomma, non so a voi, ma a me pare che l’esigenza di una riflessione filosofica seria sulla natura si faccia vieppiù pressante se consideriamo che quelli esposti sopra sono, per buona parte, i risultati infelici a cui si è giunti in seguito all’averla abbandonata…
Un’esigenza che anche gli ignoranti come me sentono… Visto che probabilmente problemi come questi resterebbero insoluti altrimenti.
Eh già, viaNegativa: quanti antropomorfismi e quanta poca fisica in questa conclusione di Weinberg! E quanta ignoranza della filosofia, se si aspettava di trovare uno “scopo” nell’universo con i metri e gli orologi della fisica.
Se misurassimo l’ universo non tramite criteri quantitativi (spazio, tempo, masse, energia) che richiedono un procedimento matematico, ma adottassimo un criterio qualitativo, la prospettiva naturalmente potrebbe essere diversa.
Potremmo pensare, arbitrariamente ma leggittimamente, che la materia che è in grado di riflettere su se stessa sia la parte dell’ universo qualitativamente più importante dello stesso. In questo caso, alla luce delle nostre attuali conoscenze, aggiornabili in vista di ulteriori novità, la terra, che fa vivere quell’ essere lillipulziano e quantitativamente insignificante chè è l’ uomo, risulterebbe essere la parte più rilevante dell’ universo, il suo baricentro qualitativo.
Non trovo affatto “arbitrario” il Suo ragionamento, Cacioppo, anzi del tutto oggettivo e irrefutabile, “alla luce delle nostre attuali conoscenze”.
Ottima osservazione.
Per questo mi fanno ridere quelle persone che godono nel dire che Copernico e Galileo hanno tolto la centralità dell’uomo nell’universo e che Darwin ha annichilito l’importanza dell’uomo in natura.
Non hanno ancora capito che si tratta di “qualità”.
Mi ricollego al suo finale “e non solo…” e ripensando quanto da me scritto prima sulla: ” materia in grado di riflettere su se stessa” mi rendo conto di quanto quel termine “materia” mi appaia riduttivo e insufficiente …solo questo?
Inoltre, uno dei modelli dell’Universo più accreditati lo descrive come un’ipersfera, ora in un’ipersfera qualsiasi punto può essere considerato “centrale”, o no ?
La centralità può essere interpretata in modi diversi: quella geometrico-spazio – spaziale è, secondo me, quella più ingenua. È un non-concetto in fin dei conti: già da sempre i filosofi hanno saputo che lo spazio tempo non è qualcosa di assoluto ma di relativo e specifico al cambiamento di ogni ente, conoscenza che è stata offuscata dalle semplicazioni indotte dal modello newtoniano della natura pretendendo uno spazio-tempo che inscatola tutto l’universo.
Meno male che con la relatività eisteiniana ci si sia risolti ad abbandonare tali concezioni semplicistiche per tornare as una nozione di spazio tempo proprio ad ogni ente specifico e dipendente dal proprio moto e dalla propria massa.
La centralità può essere rivisitata in modo molto più efficace scrutando la gerarchia dei principi che strutturano l’universo: e da questa centralità possiamo dedurre la finalità dell’universo che se ne esprime.
Ad esempio se in un sistema dato è la legge della gravità che è centrale allora tutti i moti del sistema avranno come finalità di soddisfarla e ne riceveranno la finalità.
La questione è sapere se l’apparire del fenomeno vitale e dell’autocoscienza è un errore statistico o se è l’espressione naturale di una legge fondamentale dell’universo: aldilà dei discorsi ideologici che tentano di mascherarne le conseguenze creando fumo con concetti di “caso” mal definiti e mal capiti, tutti questio “bravi” evoluzionisti e exobiologisti ci stanno dicendo che l’apparire della vita è causale e che in simili circostanze essa apparirà sempre.
Cioè, volens nolens, ci stanno tutti dicendo, malgrado loro stessi, che il fine delle leggi dell’universo è la produzione della vita e dell’autocoscienza.
Bellissima osservazione! Un’altra contraddizione…
Via Negativa e prof.Masiero. Avrei molte domande da farvi, anche un po’ provocatorie, a parte il fatto che io non trovo nessuna incoerenza logica nel passo riportato di Weimberg, anzi in realtà il riferimento alla nostra propensione naturale a credere a spiegazioni di tipo finalistico e teleologico o a vedere relazioni di causa-effetto anche dove non ci sono, ci viene anche suggerito da molti lavori attuali di neuroscienza e psicologia cognitiva. Ma poi, perché uno scienziato non avrebbe facoltà di filosofare come fa qualsiasi altro essere umano? Non vi sembra che sia un po’ presuntuoso e illusorio stabilire un confine netto tra scienza e filosofia? Mi sbaglio se mi sembra di percepire nel vostro pensiero un’attribuzione di grado, come “fonte di conoscenza”, superiore alla filosofia rispetto alla scienza? Infine un paio di considerazioni personali. A) La scienza a differenza di altre forme di conoscenza umana non sa tante cose e, sempre a differenza di queste ultime, non ne fa alcun mistero. Non per questo allora si deve tacere e rinunciare alla ricerca scientifica che deve invece essere anche alimentata di intuizioni, congetture e ipotesi plausibili. B) Personalmente e generalmente tendo a “fidarmi” molto di più del pensiero filosofico di una scienziato (mestiere per gente pragmatica) che conosce la scienza, piuttosto che del pensiero del filosofo puro, il quale molto spesso non sa esattamente che cosa sia e come funzioni la scienza, purtroppo.
“Ma poi, perché uno scienziato non avrebbe facoltà di filosofare come fa qualsiasi altro essere umano?”
Nessuno l’ha affermato, si afferma invece che non bisogna confondere il risultato di una misura scientifica con una speculazione filosofica. Per esempio non posso misurare l’Universo, scoprire che è grande e poi aggiungere che è “senza senso” nella stessa catena logica.
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“Non vi sembra che sia un po’ presuntuoso e illusorio stabilire un confine netto tra scienza e filosofia?”
Presuntuoso? Per quanto riguarda me, lo reputo NECESSARIO (con la speranza che non sia illusorio)! La linea di confine la considero in ogni caso tracciata dal metodo sperimentale, come descritto nel mio articolo “Limiti”
https://www.enzopennetta.it/2017/03/limiti/
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A) Chi a parlato di rinunciare a ipotesi e congetture? In questa sede ci si batte solo sul riconoscere le congetture in quanto tali.
B) Questione di gusti, per esempio c’è chi come me al contrario preferisce il pensiero del filosofo di professione quando si fanno discorsi strettamente filosofici, rispetto allo scienziato che FORSE si ricorda qualcosa della filosofia studiata quando aveva tra i 16-19 anni, e che è ormai abituato ad una mentalità “pragmatica”, fatta di cose limitate e ripetitive, rispetto ai discorsi qualitativi e astratti che gli appaiono meno rigorosi solo perché non riguardano cose che vede e che tocca.
Come ho detto, nelle parole di Weinberg non scorgo il passaggio che permetta di passare dalla premessa alla conclusione così che l’argomento risulti dimostrativo. Lei, Vomiero, ha capito quale esso sia?
Certo che poi uno scienziato ha diritto di filosofare quanto gli pare, ma con gli strumenti logico-filosofici adeguati però! E per esser chiari quella di Weinberg non è affatto speculazione filosofica, ma è niente altro che l’esternazione di una sua percezione estetica o sentimento personale (e infatti avrebbe fatto meglio a parlare in prima persona, evitando quel “ci appare”: ad altri scienziati di pari livello ciò non appare affatto).
Ora, presentare al pubblico quelle che sono poco più che opinioni personali non è vietato, ma non mi sembra che egli le abbia presentate come tali, cosa che avrebbe dovuto fare in quanto uno scienziato – e specialmente uno del suo calibro – ha una responsabilità particolare nel momento in cui fa divulgazione, data l’autorità di cui è ammantata la scienza oggigiorno.
Sul resto delle sue osservazioni ci tornerò più tardi.
Anch’io mi fido, Vomiero, più del pensiero filosofico che di quello scientifico. Ma come per ogni scienza naturale serve studio, lo stesso e anche più serve per la filosofia, in particolare per logica, metafisica, etica, estetica, ecc. Invece trovo in giro un sacco di scienziati, che non hanno mai fatto un esame della facoltà di filosofia – che sta accanto alla loro di scienze naturali -, che per tutta la vita lavorativa hanno (meritoriamente) lavorato rinchiusi nei loro laboratori e che poi, in età da pensione, si mettono a filosofare dell’universo mondo, persino di eudemonologia (Veronesi), con la scorrettezza di far passare per scientifiche le loro opinioni al fine di sfruttare il buon nome della tecno-scienza presso il popolino per aggiungervi credito.
Io se ho bisogno di un medico, vado da un laureato in medicina. Non ho capito perché Lei si fidi in filosofia più di un laureato in fisica, che di un filosofo e, prima ancora di se stesso.
PS. Detto questo in generale, perché non entriamo nei particolari? È vero o non è vero, per esempio, che in base alle nostre conoscenze scientifiche il mondo ha l’età e la grandezza minima per ospitare la vita? E, se è così, non è una grande stupidità scientifica, oltre che filosofica, quella di Weinberg?
Sì, però è anche vero che, ribaltando la questione, mi sembra che nel corso di studi di laurea in filosofia non ci sia nemmeno un esame di fisica o chimica o biologia. Il problema quindi sussiste in entrambe le direzioni. Riguardo agli scienziati che, come tutte le persone normali, hanno un pensiero filosofico proprio e esternano opinioni (perché solo lo scienziato non dovrebbe esternare opinioni, in un mondo fatto di chiacchiere?) il problema a mio avviso non è solo dello scienziato, ma appunto, come lo chiama lei, anche del “popolino” che spesso non ha (per colpa delle istituzioni ma anche per colpa sua) gli strumenti di base per riuscire a distinguere un’affermazione scientifica condivisa da un’opinione. E qui potremmo spendere fiumi di parole sulla natura ascientifica, quando non palesemente antiscientifica della società, in particolare quella italiana. Infine non mi risulta affatto che lo scienziato corrisponda alla figura disegnata da lei o da Htagliato, di solito gli scienziati sono invece persone concrete e pragmatiche sì, ma pienamente dinamiche e piene di creatività e di interessi, dalla musica, all’arte, alla buona letteratura e allo sport, riguardo quest’ultimo anche in base a tutta una serie di vantaggi che esso, se praticato in maniera corretta, comporta in ambito di prevenzione cardiovascolare e oncologica, e non solo.
C’è in logica, Vomiero, una distinzione tra livello L1 e metalivello L2 e meta-metalivello L3, ecc. nel linguaggio. Per es., la frase “2+2=4” appartiene al linguaggio L1 della matematica; la frase “la frase “2+2=4″ appartiene al linguaggio L1 della matematica” appartiene al linguaggio L2 della filosofia.
Non conosco nessun filosofo (mi smentisca, La prego) che scriva “di” fisica, chimica o biologia, usando il linguaggio L1 di una scienza naturale. Per questo non sono previsti esami di fisica, chimica o biologia nel corso di laurea in filosofia. Ma quando un filosofo scrive “sulla” scienza, sui suoi metodi, sui limiti epistemici, ecc. giudica al metalivello L2 le scienze naturali com’è suo compito, fa epistemologia, che è il suo mestiere, filosofia della scienza. E di epistemologia ci sono vari esami nei corsi di filosofia.
Quanto agli scienziati, non ho mai negato che siano “concreti, pragmatici, dinamici, creativi, amanti della musica, dello sport, ecc., ecc.”. Sono uomini come tutti gli altri, ci mancherebbe! Ho detto soltanto che molti di essi – soprattutto gli atei – dicono spropositi quando escono dal loro campetto, confondendo L1 con L2 con L3. Esempi: Hawking, Hack, Weinberg, Rovelli, Cavalli-Sforza, Krauss, Veronesi, Boncinelli, ecc.
Se vuole, entriamo nel concreto, con esempi specifici a Suo piacere.
Riguardo la logica filosofica e/o matematica non sono in grado di risponderle, non ne ho le competenze e a dir la verità non mi interessa nemmeno più di tanto, per me logica è anche sapere pensare efficacemente e sapere analizzare in modo corretto e utile un qualsiasi problema concreto, proprio come fa un qualsiasi scienziato nel suo lavoro di modellazione del mondo fisico e come ogni persona dovrebbe più o meno fare nel suo vivere quotidiano, per evitare guai, sia personali che sociali. Riguardo il fatto che io non mi “fida” molto del pensiero dei filosofi, quando esso risulti svincolato da ogni interfaccia con il pensiero scientifico, il motivo è che tra il carattere evolutivo e l’approssimazione della scienza e il carattere invece cristallino e assoluto di certa filosofia, scelgo senza dubbio la prima, per il semplice fatto che il mondo stesso mi risulta essere di natura eraclitea e non parmenidea, fino a prova contraria. Riguardo al cosmo condivido, oltre che il pensiero di Weimberg nel passaggio riportato anche quello simile per esempio del fisico e cosmologo Macelo Gleiser:” non c’è la minima prova del fatto che il nostro Universo sia adatto per la vita; anzi tutte le evidenze disponibili giustificano la tesi opposta, stando alla quale la vita esiste nonostante la durezza e l’indifferenza del cosmo”. Un pensiero peraltro che, guardacaso, mi sembra essere condiviso anche dalla maggior parte degli scienziati che conosco, indipendentemente dall’ateismo o meno che contraddistingua eventualmente la persona dallo scienziato.
Non è “logica filosofica e/o matematica”, Vomiero. È logica e basta, cioè condizione per ragionare. Se dico che 2+2 fa 4 faccio matematica; se dico che la matematica mi piace parlo “sulla” matematica, ma non faccio matematica. Mi dispiace che non riusciamo a capirci.
Quanto alla frase di Gleiser, io la considero uno sproposito logico: come si può dire che non esiste la minima prova che l’universo sia adatto per la vita, se la vita esiste in questa Terra? Forse la Terra sta fuori dell’universo?!
Mentre a me la frase di Gleiser e anche il passaggio di Weimberg appaiono perfettamente logici, come a moltissimi altri scienziati, in fondo a parte la fortunata “Terra”, il cosmo ci appare in realtà abbastanza desolato, mi sembra. Allora le cose sono due, o questi scienziati e il sottoscritto non sono logici, il che francamente mi sembra poco probabile, o è il concetto stesso filosofico di logica che magari deve essere rivisto e prendere atto che le persone in quanto esseri unici e dai background differenti possano anche avere logiche differenti. E’ anche per questo che nella scienza esiste una comunità scientifica ed esistono degli accordi procedurali condivisi. Cosa che mi pare non avvenga in filosofia. Comunque non vorrei che il mio passasse come un attacco alla filosofia, non è così, è che non condivido il fatto che possa essere ritenuta una forma di conoscenza superiore alla scienza, per i motivi che ho già espresso (e altri) e per chi ha avuto orecchi per intendere, credo abbia bene inteso.
La questione tra filosofia e scienza, può avere qualche parallelo sul piano aziendale: ci sono specialisti in organizzazione aziendale che fanno funzionare bene aziende molto complesse senza sapere nulla di tecnico, tanto che si spostano spesso, pagati profumatamente, da un settore a un altro. Di solito i grandi manager strapagati sono così, anche se magari possono avere a volte un background tecnico. Il tecnico ad esempio non sa fare marketing e non sempre saprebbe far funzionare l’intera azienda in cui opera, in compenso il grande manager sa poco di questioni tecniche, ma questo non gli impedisce di dirigere il tutto alla grande. In questo senso molti scienziati parlano a sproposito quando fanno della filosofia (ma del resto molti tecnici in azienda criticano il ruolo dei manager senza capire molto di strategie e di organizzazione aziendale). In questo senso gli scienziati possono essere considerati subordinati ai filosofi, anche quando magari sono poliedrici per interessi e attività varie.
“Desolato” non è “non adatto”, anche questa è logica.
E se gli scienziati sono liberi di credere che l’universo sia “desolato” di vita o al contrario che la vita vi vegeti frequentissima (per Kauffman, per es., o per tutti gli astrofisici della Nasa, l’universo letteralmente pullula di vita, al contrario di ciò che pensa Gleiser), nessuno, mi dispiace Vomiero, può affermare che “non esiste la minima prova che l’universo è adatto per la vita”, perché la prova siamo io, Lei, e anche Gleiser che siamo qua!
Scusa Vomiero, ma come fai a dire che l’universo non è adatto per la vita? Come nella terra ci sono aree ospitali e aree desolate, così possiamo dire che sarà anche nell’universo. Non hanno detto di aver trovato altri sette pianeti abitabili? I pessimisti potranno dire che la maggior parte dei corpi celesti è inospitale, gli ottimisti che ci sono miliardi di civiltà aliene (e a leggere i comunicati della Nasa gli ottimisti mi sembrano la maggioranza). Ma non si può dire, come dici tu, che l’universo in blocco non è adatto per la vita, se no non ci sarebbe neanche qua. O no?
Gentile Nadia, quello che io sostengo, ma essendo io nessuno, sostiene la maggior parte degli scienziati in linea con i citati Weinberg e Gleiser, non è che non ci sia possibilità di qualche forma di vita altrove nell’Universo, anzi. Ma che nell’Universo per come lo osserviamo noi, sembra che non ci sia niente che ci possa far pensare che l’Universo stesso sia “fatto apposta” per la vita, e quindi la vita di conseguenza sarebbe un fatto raro e contingente. Attenzione, perchè sono concetti sottilmente diversi. A parte la recente scoperta dei pianeti “abitabili”, per modo di dire (non si sa praticamente niente), già efficacemente trattata peraltro dal prof.Pennetta, in realtà l’universo osservato ci appare decisamente inospitale, e questo è un dato di fatto. Se l’Universo fosse “adatto” per ospitare la vita perchè allora essa è così difficile da trovare? Non è anche questa logica?
Forse ho capito il problema della tua divisione con Masiero. Sta nel significato di adatto. Per Masiero (e anche per me) adatto vuol dire che ci sono le condizioni sufficienti; per te vuol dire “fatto apposta”. Ma il latte di mucca è adatto a nutrire un bambino, anche senza che la mucca lo abbia fatto apposta!
Sul fatto apposta, a me, il fine tuning sembra sia proprio una prova che l’universo è stato fin dal Big bang “fatto apposta” per ospitare anche la vita. Poi è ovvio che la vita è poco diffusa, richiede condizioni speciali di acqua, temperatura, una stella vicina ma non troppo, ecc. ed è nata da poco, appena se ne sono create le condizioni, che hanno richiesto 10 miliardi di anni solo per la nucleosintesi. Ma chi può escludere che tra qualche miliardo di anni non si sia diffusa ovunque nei pianeti cosiddetti abitabili?
La cosa più intelligente è di aspettare secondo me, senza tifare per questi o per quelli.
Adatto per la vita… Si tratterebbe di capire poi di quale specie. La nostra, unica a porsi domande? O altre a venire che se ne porranno? Tanto mi chiedo perché la vita sarà anche arrivata ma al prezzo di continue stragi ed estinzioni.
Certo Nadia, se la vita esiste, vuol dire che da qualche parte nell’Universo ci sono state le condizioni sufficienti perchè tale fenomeno potesse verificarsi… Ma non credo sia questo il punto principale sollevato dal prof. Masiero in merito ai miei commenti.
Almeno in parte, era proprio questo, Vomiero!
Adatto significa avente le condizioni sufficienti. E l’universo ha certamente le condizioni sufficienti (almeno in un posto) per ospitare la vita. Su questo conveniamo Lei, Nadia ed io…, e tutto il mondo, oso credere!
Se invece per adatto si volesse intendere fatto apposta (un errore che un filosofo non commetterebbe mai), non sono d’accordo con Nadia, che crede di vedere nel fine tuning una “prova” che il mondo è fatto apposta per la vita. Ma non sarei d’accordo nemmeno con chi affermasse che la scienza ha le prove contrarie, ossia che non è fatto apposta. Come ho dimostrato in un vecchio articolo (La scienza non può provare il caso né escludere l’intelligenza, del 26 giugno 2014), è fuori delle possibilità scientifiche provare se qualcosa sia stato fatto intenzionalmente o no.
Io alla parola “adatto” do il significato di “che risponde a un determinato scopo” come da vocabolario Treccani, e credo lo intenda così anche Gleiser, sulle condizioni sufficienti invece penso siamo tutti d’accordo. Non è facile dare un appropriato significato scientifico a parole di uso comune, Darwin ha litigato una vita intera con il linguaggio per cercare di trasmettere i concetti che realmente aveva in testa. Per il resto sono sostanzialmente concorde con quanto dice.
Se siamo d’accordo che alla fisica sfuggono gli scopi, Gleiser ha detto una banalità, la stessa che se io dicessi che “non c’è la minima prova che l’universo sia adatto per produrre stelle, atomi o qualsiasi altra cosa”.
Senza malizia, Masiero, sono convinto che quel “soprattutto atei” riferito agli scienziati che dicono spropositi quando escono dal loro campetto sia frutto scorretto di apologetica di certo tipo a cui non sa sottrarsi. E sono convinto che uno come lei saprebbe trovare esempi contrari di scienziati credenti che sparano spropositi, almeno per par condicio. Ci fa questo regalo?
Mi viene in mente Zichichi, per il resto valentissimo fisico. Altri non ne trovo a dire stupidaggini filosofiche, se mi dà una mano Lei…
Buongiorno professor Masiero.
Secondo me per arrivare a una forma di vita intelligente (homo sapiens) occorre un intero universo.
Sul principio antropico cito il professor Fasol:
Il principio antropico forte afferma che, dal momento che sembra esistere un così gran numero di “coincidenze” notevoli e apparentemente sconnesse, cospiranti per permettere che la vita sia possibile, nell’universo, questo deve dar luogo a osservatori, a un certo stadio della sua storia.
Le coincidenze notevoli sono davvero molte…
La nostra storia inizia da 10 miliardi di anni fa..
È possibile che una storia come la nostra si sia ripetuta perfettamente uguale.?
Non so proprio
Non sono d’accordo con Fasol, tomas. Il fine tuning (l’insieme di coincidenze) è un’evidenza sperimentale, il principio antropico forte non è un “principio scientifico”, perché non è produttivo di predizioni falsificabili.
È vero invece che, sulla base della cosmologia scientifica moderna, la vita come la conosciamo e la possiamo immaginare non potrebbe esistere in un universo più piccolo e più giovane. Quindi perché meravigliarsi se l’universo è così grande e vecchio?!
Ma secondo lei professore possono esserci altri homo sapiens nell’universo, oppure siamo unici
Non si sa. E su ciò che non si sa, si deve tacere.
Ha ragione professore, meglio che mi stia zitto..☺
In realtà bisognerebbe fondamentalmente chiedersi sopratutto perchè alcuni siti e pubblicazioni di orientamento cattolico (e qualche volta anche quelli scientifici con orientamento cattolico), siano così attenti a bacchettare ogni tipo di ricerca della vita nello spazio, evidenziandone i fallimenti o comunque i mancati successi.
E’ come se la presenza della vita in qualsiasi forma (magari anche ultramicroscopica o primordiale), in un altro qualsiasi corpo celeste, fosse ritenuta da questi giornalisti/commentatori un impedimento alla fede cattolica. Ma dove sta scritto ?
Ed in ogni caso, per quanto si cerchi, allo stato attuale delle conoscenze, nessuno potrà mai assolutamente escludere che nello sterminato cosmo non ci siano altri pianeti simili alla terra, o altre forme di vita. Escluderlo, vista la vastità dell’universo e l’irraggiungibilità di ogni parte dello stesso, è impossibile dal punto di vista logico prima che scientifico.
Quindi questa attenzione cattolica eccessiva verso le ricerche di ambienti extraterresti favorevoli alla vita, e questa evidente “soddisfazione” di fronte ai mancati successi espliciti, è senza senso e senza scopo, ed anche contro producente dal punto di vista comunicativo.
Come per la questione darwiniana bisognerebbe vedere chi ha cominciato per primo ad attaccarsi alla scienza per voler “dimostrare” che la religione non porta al vero. Ovviamente hanno iniziato a usare la scienza in questo modo i non credenti per confortarsi nella propria “fede”. La reazione della religione è normale e del tutto coerente, si nega Dio perché non lo si può vedere e si affermano gli Ufo che sono altrettanto misteriosi. Si usa la statistica e la logica per credere nella vita extraterrestre, ma ci si oppone quando si usano le stesse armi per credere in Dio. E’ evidente che si è di fronte a un’ideologia e a una questione di vedute, di simpatie e di opinione, che però viene spacciata per scientifica.
A me non risulta, MenteLibera, che siti o ambienti cattolici di qualche minima importanza abbiano mai bacchettato la “ricerca” di vita nello spazio, né lo ha mai fatto CS nel suo piccolo. Piuttosto, come si fa anche in questo articolo, i cattolici bachettano i falsi annunci, gelosi come sono e devono essere della verità.
https://apod.nasa.gov/apod/image/0504/WaterOnMars2_gcc_big.jpg
Potrei dire che l’unica cosa di simile che ha Marte rispetto alla terra è il moto di rotazione…
Comunque, secondo me, per un determinato periodo Marte e Terra sono state simili nell’aspetto…
Ottimo articolo: food for thought come sempre.
Articolo che, forse, può anche essere uno spunto per aiutare chi è poco avvezzo alla riflessione epistemologica a riflettere sulla nozione di “caso”.
Se l’apparire della vita fosse dovuta al “caso” nulla impedirebbe che appaia su Marte o su Ganimede: il solo problema è che se parliamo di “caso” allora un semplice calcolo di probabilità come quello già portato avanti da Giorgio Masiero dimostra che in un universo come il nostro in termini di età e di espansione tale possibilità di produrre vita sarebbe praticamente uguale a zero.
Personalmente sono convintissimo che l’emergenza del fenomeno vitale non è dovuta al caso ma al contrario, alla presenza di una legge intrinseca alla tessitura stessa dell’universo (il secondo principio di termodinamica) che conduce per forza al suo apparie qualora le condizioni lo permettono.
E di questo tutti gli scienziati che fanno exobiologia ne sono convinti almeno implicitamente: infatti, perché cercare in ambienti simili a quello terrestre l’apparire della vita e non, per l’appunto, in luoghi che nulla hanno a che vedere con quelli terrestri, come lo farebbe qualcuno che volesse davvero dimostrare che la vita è apparsa “per caso”?
In realtà la scienza stessa, il discorso scientifico stesso ed il suo successo tecnologico, sono basati sull’assunzione del principio stesso di causalità e le applicazioni che ne conseguono. Solo gli enti che applicano questo principio sono vincenti nel processo evolutivo perché hanno un certo vantaggio “epsilon” predittivo sulle circostanze particolari, implicitamente o esplicitamente, rispetto a quegli enti che lo applicano con meno intensità.
Io spero personalmente che, idealmente, su ogni pianeta scoperto con proprietà non troppo dissimili da quelle terrestre si scopri la presenza della vita: allora vedremo che l’universo “ha bisogno” di produrre vita e che è la finalità stessa che gli è assegnata dalla sua propria “tessitura”.