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Benedetto Rocchi
Dipartimento di Scienze per l’Economia e l’Impresa
Università degli Studi di Firenze
Angus Deaton, il premio Nobel per l’economia del 2016, ha recentemente contribuito con un suo articolo ad un dossier dedicato da Le Scienze (novembre 2016) sulle minacce globali future, parlando di disuguaglianza.
Come spesso succede quando un grande studioso sintetizza per lettori non specialisti le sue riflessioni su temi a cui per lungo tempo ha dedicato la sua attività il risultato è illuminante. Veniamo introdotti nel problema dalla giusta prospettiva; quello che è il frutto di lunghi e impegnativi studi ci appare nella sua piena evidenza, cosicchè subito la riflessione può porsi nuovi e stimolanti interrogativi e la discussione sulle scelte da fare assume concretezza e rilevanza.
Il tema della disuguaglianza e dei rischi che porta con sé viene posto da Deaton in stretta relazione con quello della crescita economica. E’ bene sgombrare subito il campo da fraintendimenti: per Deaton la crescita economica è un obiettivo che ogni società ha il dovere di perseguire, non solo per conservare una già raggiunta “prosperità” ma soprattutto quando larghi strati della popolazione vivono in povertà. “Per quanto sia una misura imperfetta la crescita del prodotto interno lordo (PIL) pro capite resta il nostro principale indicatore del miglioramento della prosperità … Con una crescita minore la politica diventa più difficile: se la torta cresce, tutti possono averne di più, ma se ha una dimensione fissa se ne può avere di più solo a danno di qualcunaltro. Lo stesso vale per i beni pubblici come assistenza sanitaria, sistemi di sicurezza sociale, istruzione e infrastrutture. Con la crescita questi beni si possono migliorare ed espandere senza ridurre quello che riceve ciascuno; senza la crescita, qualcuno deve rinunciare a parte di quello che ha già”.
Il premio Nobel riassume efficacemente ciò che la migliore evidenza empirica prodotta dalla scienza economica ha ampiamente dimostrato: è irrealistico pensare di migliorare il benessere dei più svantaggiati in assenza di crescita economica. Per quanto la crescita non sia una condizione sufficiente essa appare sempre più come condizione necessaria per la lotta alla povertà. In uno studio del 2011 (Poverty in numbers: the changing state of global poverty from 2005 to 2015. The Brooking Institution, Washington DC USA, Policy Brief, 2011-1) Chandy e Gertz potevano affermare che tra il 2005 e il 2010 il numero totale delle persone con reddito al disotto della soglia di povertà estrema (1,25$ al giorno) era diminuita di circa 500 milioni, dimezzando la quota di persone povere nei paesi in via di sviluppo e che questo era per la gran parte frutto della crescita economica. Non stupisce che Martin Ravaillon, economista della Georgetown University, abbia recentemente scritto che “… oggi si è maggiormente ottimisti sulla prospettiva di eliminare la povertà assoluta attraverso l’espansione dell’economia” (The idea of anti-poverty policy, NBER WorkingPaper 19210, Cambridge USA, 2013, p.47 mia traduzione).
Parlando di quella prosperità per la quale vale la pena perseguire la crescita Deaton non allude al semplice incremento dei consumi, ma anche al benessere sanitario, alla diffusione della cultura e alla crescita della coesione sociale. Tre sono stati per Deaton i fattori che storicamente hanno consentito alle società di aumentare la loro “prosperità”: la crescita della conoscenza, che si è tradotta in progresso tecnico, un mercato capace di generare i giusti incentivi e libertà politiche e intellettuali sufficienti a favorire i cambiamenti tecnici e organizzativi socialmente benefici.
E proprio su questo punto Deaton collega il tema della crescita con quello della disuguaglianze, mettendo in luce l’esistenza di un potenziale circolo vizioso tra disuguaglianza, rendita e rallentamento dell’economia. Il progresso tecnico, le “innovazioni che fanno stare meglio tutti”, oltre a costituire la base della crescita della prosperità, mettono a rischio le fonti di reddito (e di influenza politico sociale) di coloro che controllando i “metodi operativi”, le “tecniche” già affermate, generalmente, appartengono alle fasce più ricche della popolazione. Un eccesso di disuguaglianza (oltre un livello, fisiologico in un sistema dinamico, capace di costituire un incentivo alle innovazioni) aumenta il potere di coloro che hanno interesse ad ostacolare quei cambiamenti nel sistema delle conoscenze e della produzione che pure potrebbero risolvere importanti problemi sociali. Favorisce piuttosto comportamenti di sfruttamento di rendite e quasi-rendite di posizione oppure derivanti dal controllo di determinate risorse. Il meccanismo tipico di creazione di posizioni di rendita si basa essenzialmente sulla costruzione di barriere e ostacoli al cambiamento dell’assetto socio-istituzionale: in altre parole si bassa su una limitazione della libertà in un ambito più o meno esteso dell’agire sociale. In un circolo vizioso la disuguaglianza induce comportamenti di rent-seeking; questi riducono gli incentivi a produrre nuova conoscenza e innovazioni utili; a sua volta ciò riduce la crescita economica; infine una crescita più lenta, oltre a ridurre le speranze dei più svantaggiati di uscire dalla povertà, tende a sua volta a consolidare le disuguaglianze; e così via. E’ questo meccanismo che fa riconoscere a Deaton come minaccia per le nostre società la presenza di divari nella distribuzione del reddito troppo profondi.
Il legame tra esistenza di importanti aree di rendita e rallentamento della crescita è ben documentato dalla ricerca economica. Basterebbe citare l’impatto positivo sullo sviluppo che, in certi contesti, hanno avuto le riforme fondiarie con redistribuzione delle terre; o viceversa il caso della “maledizione delle risorse”, a causa della quale economie che puntano tutto sullo sfruttamento di risorse naturali di cui sono ricche (come il petrolio o altri minerali) tendono a crescere meno di quelle dei paesi meno dotati. Deaton propone altri due esempi di stretta attualità, dopo la grande crisi macroeconomica del 2008. Il primo riguarda i sistemi sanitari. Deaton parla degli Stati Uniti dove, nonostante quasi un quinto del PIL sia assorbito dalla spesa sanitaria, rimangono gravi problemi di salute pubblica e di mancato accesso a cure mediche adeguate di parti importanti della popolazione. Nel 2015 i National Institutes of Health, tra le più importanti istituzioni di ricerca del governo USA, in opposizione alla riforma promossa dal Presidente Obama, dichiararono che non avrebbero finanziato ricerche con l’obiettivo di valutare costi ed efficienza del sistema sanitario. Non molto diverso , nonostante la natura prevalentemente statale del sistema sanitario, è il caso dell’Italia, dove il dibattito sull’introduzione dei costi standard per favorire l’efficienza della spesa si trascina da decenni senza risultato. E dove la rinuncia alle cure mediche da parte delle famiglie più povere negli anni della crisi è stata drammaticamente documentata. L’altro esempio proposto da Deaton riguarda il sistema finanziario, un settore “troppo grande” dove “gli enormi guadagni privati superano i vantaggi sociali”. Le attività del settore sono enormemente cresciute nella negoziazione dei rischi più che nei servizi di finanziamento della produzione e del consumo, creando con la loro stessa dimensione quello stesso rischio che dovrebbero aiutare ad affrontare. E’ un circolo vizioso dove, come scrive Deaton, “… un settore finanziario sovradimensionato porta il rischio di crisi finanziarie, che hanno effetti catastrofici sulla crescita economica.”
Un altro esempio di circolo vizioso tra disuguaglianza, rendita e rallentamento della crescita che mi sembra coerente con il discorso del premio Nobel e l’ipertrofia della Pubblica Amministrazione, intesa come settore che produce servizi di natura collettiva. Un male che, come è noto, affligge l’economia italiana e non solo. La scarsa produttività e la resistenza al cambiamento caratterizzano questa particolare “attività produttiva”. Non solo: la contiguità tra la dimensione economica e i meccanismi di controllo politico che tipicamente la contraddistinguono è di per sé esposta a comportamenti di rent-seeking. Basti pensare alla storia delle dismissioni dei monopoli pubblici, dove la strategia di pura e semplice privatizzazione (in Italia troppo spesso guidata da esigenze di contenimento del debito pubblico) ha prevalso su quella di una effettiva liberalizzazione. Non è difficile intuire con quali effetti negativi su disuguaglianza, innovazione e, a lungo termine, crescita.
La ricetta di Deaton suggerisce che più che limitare la crescita è necessario contrastare il binomio rendita-disuguaglianza. Su quale dei due corni del problema fare presa dipende dal tipo di assetto politico-sociale che caratterizza l’economia. Mentre politiche di contrasto alla formazione di rendite sono probabilmente più efficaci in economie con livelli di reddito medio alto e istituzioni sociali e politiche ben strutturate, azioni dirette di redistribuzione della ricchezza sono più appropriate per spezzare la spirale disuguaglianza-povertà nelle società più povere e con istituzioni meno salde. Non esistono in ogni caso ricette semplici e valide per ogni situazione.
Angus Deaton è stato recentemente invitato in Vaticano per un convegno intitolato “Verso un’economia più umana e giusta”organizzato dal Cortile dei Gentili. Il suo discorso sulla disuguaglianza come rischio “globale” che grava sul nostro futuro è sicuramente in linea con le posizioni che oggi caratterizzano i pronunciamenti della Santa Sede nell’alveo della Dottrina Sociale Cattolica, a partire dalla Laudato Sì di Papa Francesco, che si sofferma più volte sulla “inequità” planetaria. Trovo tuttavia differenze piuttosto marcate sul tema della crescita economica. Così mentre nella Laudato Sì si arriva a suggerire di “…accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perchè si possa crescere in modo sano da altre parti (LS, 193), questa non sembra essere affatto la visione di Deaton, per il quale bisogna ridurre le diseguaglianze per crescere di più e far così partecipare i più poveri alla “prosperità”. Questa differenza di approccio sembra in ultima analisi radicarsi nell’adozione di una prospettiva statica (come nella tradizione malthusiana) oppure dinamica nel concepire ciò in cui consiste la “ricchezza delle nazioni”. Un tema fondamentale che, come un fiume carsico, periodicamente riaffiora nella scienza economica e nel dibattito sociale.
La povertà dei diseredati, siano essi strati più poveri di una società o i paesi meno sviluppati all’interno della società globale oggi è un problema globale per eccellenza. I poveri e la loro esasperazione sono “qui ed ora” e Deaton mostra chiaramente come le cause che ostacolano il miglioramento della loro condizione sono essenzialmente sociali. La lezione di Deaton è che una società più capace di cambiare, contrastando disuguaglianze che producono rendite, favorendo la crescita economica e offrendo oggi maggiori opportunità di accesso alla prosperità collettiva ai diseredati, sapranno meglio affrontare anche le crisi future. E’ un cambiamento di prospettiva, dove la convivenza sociale è molto più di una inevitabile condizione dell’agire umano: è un vero e proprio bene comune, da costruire e ricostruire continuamente. Deaton rimane ottimista: ” Le organizzazioni sociali possono cambiare e dovranno farlo. Credo che i livelli attuali di rent-seeking e i livelli estremi di disuguaglianza nazionale e internazionale che creano, se non verranno affrontati, probabilmente ci rovineranno. Ma sono ottimista, perchè la ricerca della felicità era un desiderio potente nel XVIII secolo e lo è altrettanto oggi”.
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14 commenti
Ringrazio il prof. Rocchi per avermi fatto conoscere il pensiero economico di Deaton.
Confermo, per mia esperienza, che la privatizzazione di industrie e servizi si è realizzata in Italia più per il bisogno dello Stato di far cassa che per promuovere la concorrenzialità. Tant’è vero che si sono privatizzate anche infrastrutture monopolistiche – come le autostrade e le reti di telecomunicazione -, con effetti finali di rent-seeking da parte d’imprenditori che si erano caratterizzati nelle loro industrie d’origine per una spinta innovazione e che, dopo, nella gestione dei nuovi servizi acquisiti dallo Stato hanno soffocato l’innovazione.
Un’altra osservazione: forse la differenza rilevata tra il pensiero della Laudato si e il pensiero di Deaton è che l’enciclica papale ha una visione non solo economicistica ma anche ecologistica di lungo termine. Ne conviene il prof. Rocchi?
Caro Masiero sicuramente lo sguardo negativo verso la crescita economica che si può trovare nella LS è frutto di un certo ecologismo che, qua e là, affiora nell’enciclica. Più ancora nell’enciclica c’è una decisa sottovalutazione della scienza economica, troppo spesso trattata alla stregua di una ideologia al servizio della finanza. Questo purtoppo rende meno “robuste” le giuste indicazioni sulla lotta alla povertà e alle diseguaglianze, dal momento che queste sono un problema che deve essere affrontate ora ed è a mio giudizio illusorio farlo sposando le tesi della decrescita.
Sono d’accordo con Lei. Questo papa ha certi carismi molto forti, ma difetta in altri sui quali farebbe bene, a mio umilissimo avviso, a farsi aiutare da gruppi interdisciplinari di esperti, che sono pur presenti nelle università vaticane.
Da quello che dice e che scrive, questo papa fa riferimento più alla cosidetta “teologia della liberazione” di impronta marxista che alla dottrina sociale della Chiesa. Gli “esperti” di cui si circonda e che sta piazzando progressivamente nei posti che contano in Vaticano fanno tutti riferimento a questo filone di pensiero.
Più che marxista segue l’ideologia radicale.Infatti mai e poi mai mette in dubbio(per esempio in africa)che in un continente potenzialmente ricchissimo gli sfruttatori dei poveri(sempre più poveri)neri siano sia le Potenze Economiche occidentali (le cosiddette Multinazionali)sia i paesi capitalisti(mascherati da un comunismo di comodo)emergenti,sia le dittature militari sostenute dall’occidente o perlomeno tollerate(es.Eritrea).
E inoltre astutamente invitando milioni di neri e non solo(indottrinati perfettamente nelle missioni)si giunge a colmare il calo spaventoso delle vocazioni(in specialmodo Italia e Francia ma anche altri paesi europei)e della bassissima frequenza domenicale alle funzioni religiose(es.Val di Chiana territorio cattolicissimo della Toscana:frequenza domenicale alla S.Messa 15%–Dati 2015).ps.Il calo delle vocazioni sono anni che viene tamponato da figli d’Africa.
Dati 2015 quotidiano “La Nazione” cronaca di Arezzo e provincia.
E leggevo su internet e anche a me è venuto il dubbio,allora formulo a chi é interessato una domanda:Il capitalismo liberista si serve dell’immigrazione per creare un esercito di riserva di lavoratori disoccupati,che tiene bassi i salari e mina i diritti?
Povero C.Marx pure lui era contrario a queste furberie!
Il concetto di povertà, a mio parere, non è da intendere in termini solo monetari. Ci sono nazioni ricche di risorse naturali come quelle sudamericane o africane le cui popolazioni vivono in condizioni di estrema indigenza. La parabola del Venezuela che da nazione ricca è precipitata nell’ indigenza deve fare riflettere. Si invoca la rapacità delle multinazionali per dare spiegazioni di tali condizioni, sarebbe l’ egoismo dei popoli ricchi, per inciso gli occidentali, a condurre tali nazioni alla fame. Tuttavia il terzomondismo di stampo marxista di cui, credo, sia influenzata l’ enciclica papale è una teoria estremamente fragile e contraddetta dai fatti.
Non tiene conto della cultura e dei caratteri dei popoli. Venezuela, Argentina,e recentemente anche il Brasile si sono autoaffondati andando dietro alla demagogia dei propri governanti. I paesi africani sono afflitti da un tribalismo e da un familismo esasperato, tale da rendere i loro governi generalmente sordi alle esigenze della globalità delle loro popolazioni. Al contrario paesi come il Giappone o Israele, poverissimi di risorse naturali e sovrappopolati, risultano all’ avanguardia in ogni campo!
Tornando all’ inizio, a mio parere, la causa della povertà è primariamente di tipo culturale e se non si agisce su questa nessun trasferimento di risorse sarà veramente efficace!
Guardare ad esempio all’ uso che fanno i governanti africani degli aiuti occidentali (armi e arricchimento personale), e, senza andare lontano, al fallimento della Cassa del Mezzoggiorno che avrebbe dovuto risollevare il meridione d’ Italia.
p.s. Per quel che riguarda il finale preciso che sono siciliano.
Anche l’Italia, storicamente, è un buon esempio di paese povero di risorse ma ricco di inventiva. La povertà ha sempre delle deteminanti che non sono solo economiche o materiali ma anche e forse sopratutto sociali. Gli studi sulle carestie (ne parla Amartya Sen) hanno più volte mostrato che durante le crisi peggiori le persone morivano per l’impossibilità di accedere a cibo che nel paese sarebbe stato presente. Dal punto di vista dell’economista il punto è individuare quali meccanismi sociali nel processo di produzione-distribuzione-consumo sono più capaci di offrire opportunità ai poveri: in questa direzione vanno le considerazioni di Deaton. La creazione di rendite (con la conseguente diseguaglianza) comprime la libertà e non favorisce lo sviluppo delle conoscenze in grado di favorire un uso più efficiente ed efficace delle risorse (e un allargamento del benessere). Penso poi che i fattori frenanti lo sviluppo di singoli siano sempre un mix di caratteristiche locali (anche culturali) e influenze esterne. E che spesso le ideologie (di qualsiasi coloritura siano) siano un nfattore di conservazione dei privilegi (rendite) di qualcuno.
Non mi pare che Deaton dica molto di nuovo, anche se può essere considerato particolare l’accento posto sulla connessione tra rendite (di vario tipo) e disuguaglianza. Viene ribadita quella che è un po’ la condanna economicista di noi moderni, quella di dover far crescere sempre il “prodotto” per avere un futuro. Un po’ come l’andare in bici, in cui si deve pedalare sempre per non fermarsi e cadere. Viene rimesso sul piedistallo il Pil come il meno peggio degli indicatori, ma in questo modo non si vede come possa esserci un’alternativa all’attuale modello economico e all'”obbligo” di produrre e di consumare sempre di più (anche quando la crescita demografica si ferma o diventa decrescita). Originale anche definire “malfhusiana” la posizione pontificia perché auspica una decrescita delle economie sviluppate. Certamente chi persegue la crescita costante non può essere “malthusiano” e forse nemmeno ecologista estremo, tuttavia bisognerebbe capire per tempo che modello economico si possa adottare in un mondo che rischia l’implosione demografica (che nei paesi sviluppati è in atto) e le cui risorse non infinite vanno comunque preservate.
La decrescita delle economie sviluppate per far crescere quelle meno sviluppate, per come la vedo io, non è una opzione realistica ma una bandiera ideologica. Una decrescita economica delle economie sviluppate avrebb effetti probabilmente devastanti sulle economie meno sviluppate, in una economia globale sempre più interconnessa. La vera motivazione che vedo dietro le tesi della decrescita è sempre quella malthusiana, legata agli scenari di lunghissimo periodo prodotti dai modelli di simulazione climatica ed economica globali. Il fatto è che non si ricorda mai che la crescita economica non è solo crescita delle quantità prodotte ma crescita del valore delle produzioni. E la crescita porta lo sviluppo dell’economia, con la sua dinamica strutturale. Deaton ci ricorda come una economia sufficientemente sviluppata possa permettersi di produrre servizi ad altissimo valore aggiunto, come i sistemi di sanità pubblica che sono fondamentali per la qualità della vita e la condivisione della prosperità anche con le fasce di popolazione più povere.
Ringrazio il prof. Rocchi per la cortese risposta. Non sono affatto per la “decrescita” e tanto meno ritengo che possa essere “felice”, solo che trovo ossessivo questo continuo sforzo collettivo per avere sempre il segno più sul prodotto, forse c’è un altro modo più tranquillo per star meglio tutti senza decrescita, ma anche senza l’assillo produttivo. Non sarebbe male essere soddisfatti anche per un prodotto che resta invariato e magari porselo come obiettivo. Non mi sfugge che la crescita si ottenga con il valore aggiunto, ma questo entro certi limiti perché con una popolazione decrescente questo significa dover chiedere ai “superstiti” di consumare beni di sempre maggior valore e non è detto che il tutto sia sostenibile perché sono beni che devono pure essere prodotti da qualcuno oltre che consumati. L’innovazione tecnologica con l’automazione, la robotizzazione e l’AI possono forse essere una soluzione se si trova il modo di non portare queste tecnologie ad ampliare le disuguaglianze (si veda la recente sortita di Gates sulla tassazione ai robot che è criticabile, ma va presa come un primo tentativo in questa direzione).
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