Divide et impera
di Giorgio Masiero
Come, dividendo i poteri e bilanciandoli, si può diventare in 53 anni padroni del mondo
La prima volta che visitai l’Aquitania, la terra orgogliosa delle sue 4 M, mi divisi tra le delibazioni la sera agli châteaux della Médoc (la prima M), una placida distesa di vigneti cabernet, merlot, malbec e sauvignon, e il pellegrinaggio la mattina alle nobili dimore di tre grandi di Francia nati colà: Montaigne, Montesquieu e Mauriac (le altre 3 M). Al castello di Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède e di Montesquieu, o semplicemente Montesquieu (1689 – 1755), la guida ci rammentò con enfasi che questo signore classificò i regimi di governo: la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia. E per primo anche teorizzò la necessità di bilanciare i poteri dello stato, separando il legislativo dall’esecutivo e dal giudiziario, onde evitare l’involuzione dei regimi nelle loro forme degenerative, rispettivamente: la tirannide, l’oligarchia e la demagogia violenta. Sono tutte nozioni che ogni italiano conosce bene, perché gli sono state inculcate fin da piccolo nelle scuole della Repubblica e periodicamente fattegli ripassare in età adulta dai mezzi di comunicazione. Basta dare un’occhiata sul web alla voce Montesquieu, o allo Spirito delle leggi, che del barone illuminista bordolese è la maggiore opera filosofica…
Oggi però ho fatto una scoperta, personale s’intende, che vado a condividere con i lettori di CS: quella dell’ennesimo scippo fatto dai cugini d’Oltralpe al nostro patrimonio. Come molte nozioni, è una cosa che inconsapevolmente già possedevo da tempo, sita in qualche anfratto della memoria, ma che non avevo mai collegata ad un’altra cosa, sita in altro, separato anfratto. Il link tra i due siti, come in ogni scoperta, si deve al caso. La lettura dei giornali, occupati nelle vicende partitocratiche romane, mi ha spinto nel periodo estivo di otium a rifugiarmi in un classico, le Storie di Polibio, in particolare nel Libro VI dove l’autore spiega la sua infinita ammirazione per le istituzioni della res publica romana. Che felice funzione accessoria delle lettere classiche è la terapia dell’anima, la sua consolazione nei momenti in cui la cronaca quotidiana si fa più buia! La funzione principale naturalmente sta nell’allenamento della ragione unito all’apprendimento della storia, magistra vitae… Ma procediamo in ordine.
Polibio, nato nel 206 a.C. in una ricca famiglia dell’Arcadia, fu molto più che uno storico greco dell’epoca ellenistica. Egli infatti aveva esordito nell’agone politico come membro della Lega Achea, una confederazione tra le polis che includeva la maggior parte di quelle del Peloponneso, Sparta esclusa. Dopo la morte di Alessandro Magno, la frammentazione del suo impero tra Seleucidi, Tolomei e Antigonidi e la minaccia sempre incombente d’incursori esterni avevano convinto le città greche, pur gelose della propria autonomia, a stringersi in patti interni sotto la supervisione della monarchia macedone. In questa fragile situazione, era scoppiata nel 172 a.C. la guerra tra Roma e la Macedonia, che chiamò i Greci a scegliere tra il tradizionale protettore e la nuova superpotenza mediterranea. Con molti dubbi, la maggioranza degli Achei infine – tra cui Polibio – optò per i Romani, in ragione della loro supremazia militare. Nel tentativo però di preservare una residua autonomia alla Grecia, Polibio si oppose ad una sottomissione totale alle loro condizioni. Per questo motivo, dopo la vittoria finale sui Macedoni, i Romani lo portarono in ostaggio a Roma nel 167 a.C., insieme ad un migliaio di altri dissidenti greci.
Qui il destino gli riservò tutto il contrario di una vita grama: partecipò, com’è il mestiere degli intellettuali di ogni epoca, ai salotti e alle feste dei nuovi padroni, intrattenendo la nomenklatura latina semianalfabeta, viri atque puellae, con i tesori della civiltà greca. “Graecia capta ferum victorem cepit”, avrebbe detto lo spiritoso Orazio cent’anni dopo, pensando anche a Polibio. In particolare, l’esule àrcade intrecciò un rapporto d’amicizia, che sarebbe durato tutta la vita, con il generale Scipione Emiliano, nipote di Scipione l’Africano, al punto da divenirne il precettore e da seguirlo nelle spedizioni militari, fino alla terza guerra punica conclusasi con la distruzione di Cartagine (146 a.C.) ad opera dello stesso Scipione Emiliano.
A prodotto aureo del suo dorato esilio, Polibio scrisse una monumentale Storia universale in 40 libri, culminante nei 53 anni compresi tra il 220 e il 167 a.C., durante i quali Roma sconfisse prima i Cartaginesi e poi i Macedoni ed i Seleucidi, e si trasformò così da piccola potenza locale dell’Italia centrale a superpotenza unica di tutto il mondo conosciuto. Com’è stata possibile questa folgorante ascesa da parte d’un villaggio di contadini? Per rispondere a questa domanda, Polibio fa nel Libro VI una disamina dei diversi modelli politici, con i pregi e i difetti di ciascuno – dalle polis greche sperimentato –, e trova che la forza di Roma le deriva dall’originalità di un regime misto dei tre modelli classici, in cui il bilanciamento dei poteri attraverso la loro divisione svolge una funzione di equilibrio, garantendo durata interna ed invincibilità esterna.
“Come e grazie a quale regime politico quasi tutto il mondo abitato è stato assoggettato ed è caduto in nemmeno 53 anni sotto il dominio unico dei Romani, fatto che non risulta mai essere accaduto prima?” Polibio, dopo aver ricordato sulla scia di Tucidide l’applicazione ellenica delle tre categorie tradizionali di governo, giunge alla conclusione che Roma ha preso nella sua costituzione il meglio delle tre. Essa portò alla perfezione quel regime misto che a suo parere solo Licurgo nel IX secolo a.C. era riuscito a creare in Sparta, preservando per secoli i Lacedemoni dalle turbolenze di cui invece furono vittime le altre polis, governate da questo e quell’altro regime puro.
Aristocrazia o democrazia nella Roma repubblicana? L’una e l’altra convivono nella costituzione capitolina, osserva Polibio, in un ampio spettro di “magistrature” a suddividere i poteri tra le classi principali – i patrizi ed i plebei – e all’interno delle stesse, per controllare e controbilanciare ogni magistratura! Così ci sono a Roma due consoli, che sono eletti annualmente; e poi tribuni (fino a 10), censori, pretori, edili, questori, ecc. equamente ripartiti tra patrizi e plebei, in una sofisticata architettura di ordini e gradi dove ogni magistrato può opporre il veto all’azione intrapresa da un altro magistrato di grado pari o inferiore. E, nelle situazioni di emergenza, la repubblica nomina persino un dictator che, per i suoi poteri sovrastanti tutte le magistrature, supera quelli di ogni autocrate mediterraneo e orientale.
Anche se Polibio considera deboli le monarchie e le aristocrazie, nondimeno le democrazie sono per lui il male peggiore. A questa conclusione lo porta l’osservazione dell’involuzione nel tempo, in tutte le polis, della democrazia in “oclocrazia”, un regime demagogico dove le masse politicizzate alla fine governano con violenza sfruttando la libertà, divenuta licenziosità, garantita dalla democrazia. Il sistema misto romano è un metodo efficace per contrastare la natura auto-distruttiva delle forme pure di governo, per la sua struttura di bilanciate salvaguardie che blocca gli eccessi suscettibili di minare la stabilità interna causando collassi e rivoluzioni. Sapere da parte d’un magistrato che in ogni tuo progetto un altro magistrato può supportarti o al contrario ostacolarti, spinge tutti in Roma a sviluppare reciproche relazioni di rispetto. Polibio non si nasconde comunque la natura effimera di tutte le forme di governo cosicché, anche se la costituzione romana è la migliore, la coscienza che il corso della natura conduce al declino tutte le cose implica la fine prima o poi anche del sistema misto romano.
Scipione Emiliano e Polibio davanti alle rovine di Cartagine dopo la distruzione della città (stampa del XVIII sec.)
Un secolo dopo, Marco Tullio Cicerone avrebbe ripreso l’argomento delle costituzioni miste nella sua opera De re publica. Per Cicerone, le monarchie e le aristocrazie sopravvivono solo alle condizioni di collocare gli interessi dei governanti alla pari di quelli dei governati, che tutti siano vincolati alle stesse leggi e che a nessuno sia consentito di abbandonarsi al lusso, alle passioni sfrenate e alla smania del potere. A sua volta, pensava Cicerone, il popolo avrebbe in questi due regimi meglio adempiuto ai suoi doveri. Le democrazie invece non possono promuovere l’uguaglianza dei diritti, perché il popolo tende a corrompersi fino a non distinguere l’onore dall’infamia. Le democrazie pervertono la caratteristica che genera l’uguaglianza: la moralità. Ma poiché tutti e tre i princìpi – la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia – hanno la tendenza a trasformarsi nei loro “gemelli viziati” – la tirannide, l’oligarchia e l’oclocrazia –, anche Cicerone come Polibio riteneva le costituzioni miste quelle con più possibilità di successo. È interessante notare che Cicerone stilava queste considerazioni nel 54 a.C., poco tempo prima della transizione per autoconsunzione della costituzione romana dalla repubblica all’impero.
Durante il Rinascimento, la costituzione repubblicana romana fu ammirata e divulgata da Machiavelli, che aveva studiato Polibio. Nel ‘700, il giudizio positivo del fiorentino fu letto e condiviso da Montesquieu il quale, duemila anni dopo la creazione del sistema misto da parte dei Romani, ne divenne non si sa come il padre putativo.
Ai nostri giorni il sistema misto coincide tout court con la democrazia formale globale. Non esiste più la contrapposizione tra regimi puri che sconvolse e contrappose il mondo per 200 anni, dalla rivoluzione francese (1789) alla caduta del muro di Berlino (1989): monarchie costituzionali e dittature del popolo, aristocrazie teocratiche mediorientali e repubbliche democratiche europee, oggi in tutti i paesi (con una folcloristica eccezione) vige un sistema misto composto di tre forme ed una sola sostanza, nel quale il potere è tanto più reale quanto meno è gridato. In questo regime globale, ci sono ruoli locali per la forma popolare con lo svolgimento ciclico chiassoso del voto, c’è un ruolo diffuso per la forma oligarchica con il peso permanente ovattato delle tecno-burocrazie e c’è il protagonismo monarchico sovrano della grande impresa e della finanza, dove si esercita silenziosamente il potere per mezzo dell’unica sostanza – il denaro.
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15 commenti
L’ultimo paragrafo è da incorniciare, grazie Giorgio!
grazie, ht.
Anch’io non posso che unirmi a quanto detto da Htagliato e riportare un passaggio fondamentale:
” In questo regime globale, ci sono ruoli locali per la forma popolare con lo svolgimento ciclico chiassoso del voto, c’è un ruolo diffuso per la forma oligarchica con il peso permanente ovattato delle tecno-burocrazie e c’è il protagonismo monarchico sovrano della grande impresa e della finanza, dove si esercita silenziosamente il potere per mezzo dell’unica sostanza – il denaro.”
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E’ una coferma di quanto emerso in numerosi articoli, pienamente d’accordo con te Giorgio.
Simpaticissimi i Francesi.
Come la saliva di traverso
😀 😀 😀
L’anomalia sarebbe la Corea del Nord, dottor Masiero? 🙂
Beh, condivido lo spirito di questo articolo anche se lo trovo molto teorico e poco fattuale.
In generale ha assolutamente ragione, però non credo sia così per ogni Stato/Nazione del globo. La sostanza, come la chiama lei, la si può governare e controllare. Veda certi Stati/Nazione: Svizzera, Danimarca, Australia. Lì c’è un controllo diretto della politica, della politica quella vera. Per cui si tratta di scegliere in questo mondo.
sì, dom, la corea è l’eccezione. che poi in svizzera o in australia sia la politica decisa dai cittadini a comandare sulle cose importanti…, mah! anch’io qualche volta ho l’illusione di comandare in casa.
Seguo con costanza CS, anche se non commento gli interessanti contributi, che mi trovano il più delle volte d’accordo. I miei complimenti al prof. Masiero: è ben raro leggere di Polibio tra blog e il “mare nostrum” di internet… Autore che andrebbe studiato, mediante proprio corso specifico nell’ipotetica «università degli studi per aspiranti politici». La nobile democrazia oggi è assai confusa con la più pilotabile oclocrazia. Quindi, i miei complimenti, prof. Masiero, davvero.
Mi ricordo ancora con lucidità quando al liceo classico (35 anni fa) il mio professore di greco e latino ci fece studiare le teorie politiche della Grecia e dedicò delle interessanti lezioni su Polibio.
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Circa l’ultimo paragrafo (che sottoscrivo), vorrei spingere un po’ più in là il pensiero del prof. Masiero, se posso permettermi. Leggerlo mi ha inevitabilmente rinviato al pensiero di un filosofo del Novecento, che si sta oggi rivalutando – così dicono i miei colleghi – per le sue teorie ormai sempre più verificabili nel pensiero odierno (verificabili in senso filosofico, ovviamente). Sto parlando di Walter Benjamin (1892-1940), che scrisse un breve opera davvero interessante (“Capitalismo come religione”, 1921): fa riflettere sugli indirizzi che la realtà attuale sta percorrendo. La prof. Donatella Di Cesare ne scrisse un invitante articolo sull’inserto “Lettura” del Corriere della Sera di gennaio 2016 (http://rassegna.be.unipi.it/20160125/SIQ1044.pdf).
grazie, lizst, e benvenuto nel nostro arengo. sono sicuro che i suoi interventi contribuiranno ad innalzare il livello del dibattito. anche benjamin, certamente, meriterebbe di essere più conosciuto!
Grazie, prof. Masiero, del saluto.
Il mio ambito è strettamente umanistico, ho una formazione universitaria specialistica in “anticaglie”, come dice qualche mio collega, ossia storia antica e medievale. La passione per la filosofia è una derivazione della mia formazione, ma è da “autodidatta” (leggendo i testi originali degli autori).
Leggo i vostri commenti, ma mi mancano spesso gli “strumenti intellettuali” (= leggasi: studi scientifici) per dare un contributo adeguato e pertinente alle discussioni che nascono dai commenti.
Comunque, se posso, devo dire che dalla mia angolazione, dalla mia prospettiva di indagine e di ricerca trovo CS (ripeto: dall’angolatura degli studi storici antichi) corretto come formulazione… magari più di qualche collega nelle mie stesse discipline, leggendovi, scuoterà la testa. Così come io scuoto la mia, quando leggo i saggi di certi scienziati o di polemici matematici o di filosofi della domenica, mentre parlano di storia antica.
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Per dirle che cosa mi capita di leggere e che mi fa scuotere la testa… recentemente mi è stato chiesto di verificare alcune affermazioni in ambito storico, scritte in un libretto della Marzano, da costei non sufficientemente documentate di fonti (è una prassi costante, invalsa specie nella cosiddetta editoria di divulgazione). Insomma, il redattore di una rivista dell’Università dove lavoro mi ha chiesto: “Ti risultano queste affermazioni?”. A una prima lettura, sembrava l’assemblaggio di luoghi comuni, assemblaggio strano per chi insegna all’Università di Parigi V, e nel curriculum ha una formazione alla Normale di Pisa. Chiedo tempo per rileggere con calma e, dopo alcuni giorni, ho scoperto – ormai senza meraviglia – che la Marzano ha mescolato dati storici dell’alto medioevo, costumi e usanze mediche del Seicento (!?), credenze del basso Medioevo e lo ha condensato in una pagina, dedicata all’anno Mille. Tempo un paio di giorni e, grazie all’aiuto di due studenti, ho constatato che aveva maldestramente copiato – e “vendute” come proprie intuizioni, ossia semplicemente tradotte dal francese in italiano – tre brani di due studi (non suoi) sul medioevo e uno (non suo) sul Seicento, “shakerato” e buttato lì, secondo l’opinione comune sull’anno Mille (immagino che Marzano non abbia letto nulla di serio e “corposo” di Lucien Febvre, di Marc Bloch, di Henri Pirenne o di Georges Duby – quattro nomi importanti della storiografia dell’École des Annales, punto nevralgico e fondamentale per la storiografia medievale contemporanea -, altrimenti non avrebbe scritto quelle “sciocchezze”).
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Mi scusi la divagazione, prof. Masiero, ma chi studia la storia, leggendo codici e manoscritti antichi, come faccio da più di 25 anni, si è ormai arreso alla straripante moda del «taglia-copia-incolla» imbizzarrito, a cui è avvezza buona parte dell’attuale mondo accademico (guarda caso, spesso è proprio quella parte che appare di più in televisione e viene ospitata nei quotidiani). E che non può far altro che scuotere la testa…
Proprio x la Sua cultura umanistica, Liszt, i Suoi contributi saranno importanti. La scienza naturale è tecnica, specializzazione, e da sola è solo alienazione, disumanesimo.
Per me la guida francese ha esagerato di molto dicendo che fu Montesquieu a distinguere tra le tre forme di governo: monarchia, aristocrazie e democrazia, pare infatti che il primo a elencarle sia stato Erodoto:
https://it.wikipedia.org/wiki/Anaciclosi
A Montescquieu resta il merito della divisione funzionale tra i poteri interni allo Stato. Comunque il nostro è anche quello che rinvigorì il concetto laicista della religione come “instrumentum regni” pare prendendolo proprio da Polibio:
https://it.wikipedia.org/wiki/Instrumentum_regni
Quindi diciamo che a parte lo sciovinismo della guida in questione era invece normale per le grandi figure del passato attingere dai classici e non dovevano nemmeno scusarsi per questo perché per i loro interlocutori di pari livello contemporanei era del tutto scontato che il dibattito dell’epoca non fosse che una rielaborazione dei concetti presi dai grandi del passato (i famosi “giganti” sulle cui spalle ci si ergeva, per dirla alla Newton).
Solo una banale precisazione: il concetto di “nani sulle spalle dei giganti” (topos medievale di innumerevoli concetti umanistici) proviene dal “Metalogicon” di Giovanni di Salisbury (1120-1180), che a sua volta cita il pensiero di Bernardo di Chartres (+ 1126)…
Buonasera Liszt, ho molto apprezzato i suoi interventi.
La invito a non far mancare il suo contributo perché mai come adesso abbiamo bisogno di cultura umanistica, ma di quella vera.
la guida francese ha certamente esagerato, muggeridge, sul ruolo di montesquieu sulla defizione delle forme di governo. ciò l’ho sottolineato ironicamente anch’io. ma sul l’originalità montesquieuiana della divisione dei poteri non ha esagerato, ha solo ripetuto un luogo comune che si insegna ovunque. invece fu un’invenzione della repubblica romana, come spiegato per primo da polibio.
quanto alla religione instrumentum regni, polibio non fa un discorso generale sulla religione, che in grecia non ha mai avuto questo ruolo. polibio si riferisce solo alla religione romana dei suoi tempi, ed essa è stata certamente uno strumento di governo e di successo per la politica romana, periodo imperiale compreso.