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Il 25 Settembre di quest’anno si è spento Giorgio Israel: laureato in matematica ma anche storico della scienza ed epistemologo, è stato professore all’università “La Sapienza” di Roma per 39 anni.
Dei 30 libri che ha scritto, discuteremo del suo saggio “Chi sono i nemici della scienza?” per poter ricordare Israel attraverso l’esposizione di molte sue idee e osservazioni sulla scienza e sull’educazione di cui questo testo è una miniera.
Pubblicato per la prima volta nel 2008 e vincendo nello stesso anno il premio Capalbio, affronta come tema centrale la crisi culturale in cui di fatto vive la scienza, provato per esempio dal bassissimo livello di iscritti alle facoltà scientifiche, non solo in Italia ma anche in altri paesi del mondo. Può sembrare davvero strano che la scienza non susciti molte attrattive ed entusiasmi benché al giorno d’oggi la sua presenza in ogni aspetto della nostra vita ci venga evidenziata da tutti i mezzi di comunicazione. Israel cita un saggio sullo stesso tema, “La scienza negata” di Enrico Bellone (direttore di Le Scienze, scomparso nel 2011): benché la descrizione del problema sia uguale a quella di Israel, quest’ultimo è in forte disaccordo sulle sue cause, perché per Bellone l’Italia ha sempre riservato un cattivo trattamento nei riguardi della Scienza, ma in seguito spiegheremo perché secondo Israel non è stato così e dove andrebbero cercate le vere cause.
Analizziamo quindi tutti i problemi inerenti alla scuola e all’università di oggi.
Per quanto riguarda la scuola, tutti i guai nascono dall’idea sbagliata che farla funzionare allo stesso modo con cui funziona un’azienda l’avrebbe resa più efficiente, “produttiva” ed equilibrata. L’errore sta nel non tenere conto delle profonde differenze tra un’industria che per esempio produce pomodori e una scuola che produce cultura ed educazione: un consumatore non è obbligato a comprare, mentre l’educazione è un diritto; un consumatore ha tutto il diritto invece di stabilire quale siano i pomodori migliori, mentre lo studente (e spesso anche i suoi genitori), non possono dire quale dovrebbe essere il programma di studio e il modo di insegnarlo. La visione della scuola-azienda ha fatto in modo che l’insegnante, da che era un “maestro”, un educatore, diventasse un burocrate che fornisce un servizio, per cui mentre in passato veniva rispettata la sua autorità da parte di studenti e genitori, oggi spesso sono i docenti e non gli studenti ad essere rimproverati quando i ragazzi non vanno bene a scuola: è il professore che non ha reso un buon servizio.
La scuola-azienda, per una specie di coerenza, ha cambiato anche il lessico di una volta: a “conoscenze” si preferisce “competenze”, mentre a “insegnamento” si preferisce “apprendimento”. Con la scusa della lotta ad ogni soggettivismo, si cerca di rende sempre più oggettiva la valutazione, col rischio di avere un insegnamento non più orientato a dare cultura e a formare le persone, ma a preparare gli studenti al test che verrà e a nient’altro. Per una sorta di superstizioso timore che la difficoltà intrinseca dello studio sia un male da evitare, non si punta all’apprendimento dello studente visto come una persona che non sa e che tutto deve a chi custodisce la cultura, ma ad un’idea di studio basata sulle capacità di autoapprendimento che lo studente deve applicare grazie al professore che gli funge solo da catalizzatore.
Le conseguenze filosofiche di questo modo di vedere la scuola sono tristi se non addirittura pericolose: far scomparire il docente dietro metodi “oggettivi prefissati” nasconde una sfiducia nei confronti dell’uomo, a cui va sostituito la tecnica, demotivando anche gli studenti che non tendono più ad essere cittadini colti ma semplicemente “utili”; inoltre la scuola del futuro sembra più preoccupata di formare “teste” anziché “di riempirle”, insegnando ciò che magari non dovrebbe (insegnare a vivere) anziché insegnare semplicemente con rigore i singoli argomenti delle materie scolastiche. In sintesi, il desiderio di oggettività può benissimo essere usato per realizzare un’educazione da regime totalitario.
L’oggettività della scuola di oggi ha due fattori chiave, entrambi molto recenti : la centralità delle metodologie rispetto alle vere discipline e la medicalizzazione dell’insegnamento.
La “metodologia” è una scienza che si occupa dei metodi con cui va realizzata l’educazione dei bambini, essa è sostenuta da pedagogisti e da alcuni insegnanti, ma secondo Israel è una sorta di ideologia che non tiene conto delle vere capacità degli allievi, che di fatto vengono sottostimate. In particolare, per la geografia e la storia (delle elementari) viene raccomandato dai “metodologisti” di insegnare ai bambini i concetti di spazialità, lontananza, vicinanza eccetera, mentre per la storia i vari modi di concepire il tempo della storia (ciclico o lineare), senza pensare che i realtà ai bambini bastano i concetti più intuitivi di spazio e tempo e che ciò che davvero vogliono conoscere è la geografia “concreta” e il racconto delle vicende del passato.
Paradossalmente, la matematica, che è astratta, viene resa “concreta” dai “metodologisti”: essi credono che il modo migliore per insegnare la matematica ad un bambino sia di vederla come uno strumento per scopi pratici, un modo di rappresentare gli oggetti e che il modo in cui essa si sia sviluppata nella storia sia quello da seguire per insegnarla ai bambini. Per Israel sono perdite di tempo, perché i bambini possono ragionare con i numeri quasi subito considerandoli in termini astratti e sarebbe controproducente partire da una visione della pre-euclidea matematica. Inoltre si danneggia per sempre la matematica se viene presentata come strumento e non come esercizio di pensiero.
Una conseguenza che ho già accennato della metodologia è l’altra “novità” della scuola moderna, la medicalizzazione dell’istruzione, nel senso che, una volta data più importanza ai metodi che ai contenuti, se un metodo non viene rispettato, anziché porsi delle domande, si ritiene che ci sia qualcosa che non vada nel bambino. Non si immagina, di conseguenza, solo la possibilità di una dislessia (che a volte davvero è un problema), ma ormai si parla anche di disgrafia, disortografia e discalculìa. Da notare che quest’ultima non è una vera incapacità di fare calcoli, ma solo di farli sapendo mettere le cifre in colonna, per cui, fa notare il nostro autore, si confonde un algoritmo di un’operazione matematica con l’operazione in sé. Di nuovo, per venire incontro ai bambini, li si sottovaluta.
L’università ha subìto danni, anche se in modo diverso, dalla stessa idea che il modello aziendale sia il migliore e da uno scimmiottare gli US nel loro modo di gestire l’educazione e la formazione.
I problemi che ne sono venuti sono: la costituzione della laurea “3+2”, l’uso dei crediti formativi e l’approccio manageriale.
Il “3+2” avrebbe dovuto lanciare più studenti e in minor tempo nel mondo del lavoro, ma salvo alcune eccezioni, ne sono nate molte lauree che formano poco e la specialistica viene usata per colmarne le lacune. I crediti formativi invece sono numeri che tentano di quantificare il lavoro speso da ogni studente nello studiare una materia, nel partecipare ad un seminario o qualsiasi altra attività. Concettualmente sbagliati in partenza (secondo Israele e per esperienza anche secondo me), i crediti diventano una trappola sia per studenti sia per insegnati: i primi devono trovare un modo per colmarli tutti inventandosi attività e occasioni per guadagnarli, mentre i secondi devono gestire la didattica in vista dei crediti da distribuire in modo razionale lì dove sarebbe più facile e giusto basarsi solo sui contenuti e non sul “lavoro richiesto”.
Un’altra fregatura del sistema universitario è l’autonomia nella sua gestione economica, che chiamandola così sembra dare un senso di libertà, ma in realtà è un’autonomia fasulla: i soldi sono pochi, detto in modo crudo. Una volta messa da parte la quota per pagare il personale, non resta molto da gestire in autonomia, per cui l’università può rimediare in vari modi (che c’entrano poco con la cultura): uno di essi è l’affacciarsi sul territorio, inaugurando incontri con le aziende, ma anche feste, festival, conferimenti di lauree honoris causa e lezioni tenute da personaggi che con la cultura hanno non molto a che fare; oppure approfittando del pensionamento di un docente. In questo caso, infatti, coerentemente con la logica aziendale, non si è liberata una cattedra, come si potrebbe ingenuamente pensare, ma una “quota”, che può essere usata per pagare un ricercatore, un ricercatore e un termosifone o qualsiasi altra cosa che bisogna fare per quadrare i conti.
Siccome spesso tutto parte da una brutta imitazione del sistema statunitense, allora bisognerebbe precisare che negli USA il governo federale fornisce anche grandi investimenti e lì sono più sensibili ad imprese culturali e scientifiche anche non immediatamente utili.
Se per molti gli USA sono simbolo di progresso, si può far notare che l’Italia può fare molto se provasse invece a “regredire” (si fa per dire) ad un periodo in cui la sua importanza scientifica era di tutto rispetto, ossia il periodo postunitario (anni 1860 fino alla fine del secolo).
Per Israel, la scuola postunitaria era tra le migliori al mondo, in un periodo in cui la parola “pubblico” non era, come oggi, sinonimo di “inefficiente, nullafacente, parassitario”. All’epoca non c’era bisogno di guardare ai vantaggi della competizione di tipo commerciale, perché l’incarico pubblico era visto come un nobile dovere. La scuola, in particolare, era davvero un ascensore sociale:
il futuro “signor scienza italiana” Vito Volterra, figlio di una vedova indigente e destinato al mestiere di impiegato, riuscì a farsi valere in un Istituto Tecnico sotto la guida di un professore di fisica che ebbe l’autorità (quale professore di Istituto Tecnico l’avrebbe oggi?) per farlo entrare alla Normale di Pisa.
Chi e cosa ha permesso al sistema educativo italiano di scendere di livello? Per quanto riguarda i tempi relativamente recenti, Israel fa partire tutto da quello che chiama “l’Attila dell’istruzione italiana di ogni ordine e grado, il ministro Luigi Berlinguer, assieme al suo collega e mentore Tullio De Mauro”. Israel attacca sia i governi di sinistra sia quelli di destra, ma per tornare ad occuparsi in particolare della crisi della scienza, torna indietro al periodo fascista.
Il fascismo è stato nemico della scienza per due ragioni: le leggi razziali che causarono l’emarginazione di personalità come Volterra, Tullio Levi Civita, Giuseppe Levi e anche “i ragazzi di via Panisperna”, poi il regime autarchico e nazionalista bloccò la necessaria interazione e integrazione internazionale che permise e che permette alla scienza di progredire.
Sul piano filosofico, nello stesso periodo, non aiutava il mancato riconoscimento del valore culturale della scienza da parte di colui che molti definirono “magister Italiae”, Benedetto Croce. La sua opinione sulle scienze naturali era che esse fossero “edifizi di pseudoconcetti, e propriamente di quella forma di pseudoconcetti, che abbiamo denominato empirici o rappresentativi”. Peggior giudizio tocca alla matematica, detta da Croce “scimmia della filosofia” e i cui contenuti sono vuoti e utili solo per fare i calcoli. Qualcuno provò a difenderlo dicendo che Croce volesse attaccare solo il positivismo, ma non è la verità: era ostile alle scienze in quanto tali.
Qual era invece la posizione sulla scienza del fronte culturale opposto, il marxismo? Stranamente, non molto diversa, secondo Israel. Già in Marx i riferimenti scientifici non riguardano il metodo sperimentale, ma solo l’approccio materialistico-deterministico che poi venne trasposto alla società umana. Nell’Unione Sovietica la relatività e la meccanica quantistica vennero etichettate come “scienze borghesi”. In Italia, il grande intellettuale marxista Gramsci, che ha avuto un’ampia influenza sulla cultura di sinistra dell’epoca e non solo, esagerando la caratteristica della scienza di essere sempre messa in discussione (vera fino a prova contraria), considerò anche la scienza come immersa nella storia, una sovrastruttura, un’ideologia come lo può essere il capitalismo.
La cultura di sinistra ebbe una specie di “conversione” alla scienza nel secondo dopoguerra. Da un lato, la cultura comunista divenne sempre più egemone nell’editoria, nelle università (sembra che in passato le nomine a rettore venissero addirittura stabilite in sede di partito), nella radio, nella televisione e nelle manifestazioni culturali; dall’altro, la crisi del comunismo costrinse la sinistra a ridefinirsi (almeno in parte).
Sul primo punto, Israel si mostra molto onesto:
Non apprezzo il moralismo e ritengo che se un’egemonia si manifesta e si impone nei fatti, il torto è di chi non sa esprimere idee migliori
Sul secondo punto, la nuova forma della sinistra, il nostro autore individua le nuove peculiarità: un generico sentimento anticapitalista e antimperialista, il mito dell’egualitarismo, il terzomondismo e la fede nello sviluppo scientifico e tecnologico.
Quando la scienza diventa una fede, si parla di “scientismo”. Insieme alla degenerazione del sistema educativo, è esso il secondo “nemico della scienza” secondo Israel.
Storicamente, lo scientismo è l’ideologia che in molti ha preso il posto del marxismo in seguito al crollo del comunismo, ed è un’ideologia perché è una forma di pensiero onnicomprensiva, riguardante cioè ogni aspetto della vita e del mondo. Come una religione, ha i suoi testi sacri, i suoi santi e i suoi riti.
Israel divide i militanti scientisti in due tipologie, chiamandole A e B, in base al modo di privilegiare la scienza, per definizione di scientismo, rispetto ad ogni altra forma di conoscenza.
Gli scientisti A lodano la scienza perché è l’unica branca del sapere in grado di fornire conoscenze oggettive, certe e che non abbiano bisogno di imposizione ma che si impongono da sé in quanto vere. Il fatto che la scienza si possa sempre rinnovare alla luce di nuove scoperte non sarebbe un ripartire da zero, ma un allargare ciò che si sa verso un infinito che non si conosce solo per un fatto quantitativo. Tipico rappresentante dello scientismo A è Piergiorgio Odifreddi.
Lo scientista B invece ama la scienza proprio per il fatto che si mette sempre in discussione. Lo scientista B è un relativista che apprezza le verità sempre momentanee della scienza, mentre ogni tipo di dogmatismo va sempre rigettato.
Da notare il modo opposto con cui i due tipi di scientismo attaccano le religioni (anzi, la religione cristiana, perché almeno in Italia sulla altre non si fanno battaglie culturali): per lo scientista A la religione commette l’errore di basarsi su verità date per assolute ma solo per fede, mentre per quello B la religione è sbagliata in quanto dogmatica mentre nella realtà le verità assolute non esistono.
C’è un caso in cui lo scientismo, inconsapevolmente, si morde la coda: alcuni intellettuali scientisti snobbano la cultura umanista perché non ha utilità pratiche, non produce niente se non svaghi e diletti. L’ironia è che gli stessi che ammirano la scienza perché è la sola a produrre cose utili danno ragione agli intellettuali di stampo opposto, che non credono nel valore culturale della scienza ma la considerano un’attività volta a risolvere banali problemi pratici.
Se lo scientismo è come una religione, quali sono i suoi “riti”? Per Israel sono i famigerati “eventi”.
Gli eventi sono tutte quelle feste, festival, feste della matematica, della tecnologia, della biologia e così via che possono durare anche più di una settimana. Negli eventi si presenta la scienza come la salvatrice dei problemi dell’umanità ma soprattutto viene trasmessa l’idea pessima che essa possa essere facile e divertente. Benché non sia una cattiva intenzione, la scienza divertente ha due problemi gravi: innanzitutto non esiste, perché la scienza vera è rigorosa, richiede impegno e spirito critico (e nel caso della matematica anche capacità di astrazione). Il secondo problema è che in realtà non attira gli studenti alla scienza ma li rende più pigri, svogliati e disinteressati. Ancora una volta, con l’intento di venire incontro agli studenti, li si sottovaluta. Israel, grazie ai dati di un sondaggio che ebbe sottomano ma anche per esperienza personale, conosce i veri motori dell’interesse di uno studente e spiega che, ancora oggi, l’amore per una disciplina nasce quasi sempre grazie all’influenza di un professore (e non di un evento) e che lo studio rigoroso e il bisogno di astrarre non spaventa i ragazzi.
Riporto una simpatica citazione di Michele Emmer letta sul libro di Israel:
Eventi, parola che rimanda al fatto che se un famoso dipinto è in mostra nell’abito di un “evento” si muovono migliaia di persone per andarlo a vedere, ma se lo stesso quadro è in mostra “normalmente” in un museo, allora non ci va quasi nessuno.
Sembra quindi che lo scientismo, per una sorta di eccessivo amore verso la scienza, non ne faciliti la diffusione e il riconoscimento culturale. Un altro suo danno collaterale è una visione distorta di alcuni argomenti scientifici “scottanti” dal punto di vista giornalistico e dello stesso metodo sperimentale.
Il primo tipo di deformazione è quello che secondo Israel genera la “malascienza”.
Si ha “malascienza” tutte quelle volte in cui la divulgazione scientifica, se non proprio la ricerca stessa, sopravvaluta osservazioni e/o risultati scientifici oppure li applica dove non dovrebbe. Nel libro è presente una piccola antologia, ma ci sono molti casi ricorrenti: la certezza o quasi di aver trovato tracce di vita extraterrestre, il presunto pareggio o superamento dell’intelligenza umana da parte di quella dei computer, l’amore spiegato in termini solamente biochimici, la confusione tra gli impulsi nervosi e i pensieri veri e propri, le prove dell’inesistenza del libero arbitrio e in generale tutte quelle volte in cui viene spacciata una correlazione come prova di una relazione di causa ed effetto.
Un esempio divertente di quest’ultimo caso è quello di un ricercatore della Columbia University che aveva scoperto nel cioccolato una sostanza che fa bene alle cellule cerebrali. L’incredibile percorso logico del ricercatore è stato: il cioccolato favorisce l’intelligenza, per cui si può cercare una correlazione tra il consumo di cioccolato in una data nazione e il suo numero di premi Nobel. A prescindere dal fatto che la supposta correlazione non è sempre stata rispettata dai dati sperimentali, la notizia si commenta da sé.
Il secondo tipo di deformazione che può essere operata dallo scientismo è una cattiva divulgazione del metodo sperimentale. Almeno secondo l’opinione di Boncinelli (ma a volte viene insegnato anche a scuola) sono gli esperimenti e non le teorie a far procedere la ricerca scientifica. Secondo alcuni “metodologisti”, il metodo scientifico si baserebbe sull’osservazione di molti fenomeni da cui, se si riconosce una ripetitività, si procede per induzione ricavandone una legge. Scriveva invece Israel:
Che io sappia, mai nella storia le esperienze hanno preceduto la teoria e mai una teoria scientifica è sorta per induzione dall’accumulo di esperienze. L’affastellarsi di dati sperimentali può al massimo produrre una fenomenologia.
Facendo l’esempio del Principio d’inerzia, Israel spiega che esso non è prodotto di osservazioni ma di una pura astrazione (la rimozione di tutti gli attriti su di un corpo in moto) e che quindi, citando Einstein, è una “libera invenzione” che non può essere in alcun modo dimostrata sperimentalmente. Persino Galilei, nel Dialogo dei Massimi Sistemi, definisce la legge di caduta dei gravi “matematica purissima”.
Aldilà delle opinioni dei singoli intellettuali, ciò che per Israel è un vero problema per il metodo sperimentale è il sistema attuale delle pubblicazioni scientifiche.
Siccome ogni anno vengono pubblicati milioni di articoli su migliaia di riviste scientifiche, occorre un metodo veloce per valutarli, uno di essi è basato sulla “bibliometria”, che però, detto sarcasticamente, consiste di fatto nel giudicare senza leggere. Venne introdotto l’impact factor (il numero di citazioni di un articolo, che dipende anche dalla diffusione della rivista). Esso dovrebbe essere un indice della qualità dell’articolo, se non fosse che concettualmente regge sulla fallacia che una cosa che piace a tutti sia cosa buona, mentre dal punto di vista pratico le citazioni avvengono per i più svariati motivi: per esibire le proprie conoscenze, per debito intellettuale, per servilismo accademico, per esempio formando delle consorterie di persone che si citano a vicenda per far salire i propri parametri di qualità.
Esiste anche l’impact factor di una rivista (relativo ad un dato anno):
l’IF di una rivista nell’anno N è il rapporto tra il numero di citazioni rilevate in quell’anno di articoli pubblicati nei due anni precedenti diviso per il numero totale degli articoli pubblicati negli stessi anni sulla rivista. Si noti che questa metodologia non è stata né ideata né implementata dalla comunità scientifica bensì da una ditta privata, l’ISI (Institute of Scientific Information) fondata nel 1960 da Eugene Garfield e oggi parte della Thomson Reuters Co.
Dobbiamo essere felici del fatto che questi criteri non sono sempre esistiti, per esempio
Nel 1906, il grande matematico Henri Poincaré scrisse una memoria, “Sur la dynamique de l’électron”, che può ben essere considerato come uno degli articoli scientifici più importanti del secolo scorso. Fu pubblicato sui Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo
Di tale rivista, oggi si sarebbe detto che aveva un bassissimo impact factor e chissà dopo quanto tempo sarebbe stato apprezzato il lavoro di Poincaré. I tempi cambiano, ma non dobbiamo essere fatalisti, infatti in Australia il governo ha abolito la bibliometria nella valutazione della ricerca scientifica.
Israel segnala anche l’apparente garanzia, nella fase in cui viene giudicato un paper prima della sua pubblicazione, conferita dall’anonimato del valutatore e dell’autore.
L’anonimato dell’autore è in realtà uno schermo raggirabile perché, guardando per esempio la bibliografia, si può capire la “scuola” di appartenenza dell’autore, mentre quella del valutatore è anche dannosa: chi giudica il paper senza rivelarsi può essere libero di fare giudizi superficiali se non proprio erronei senza rischiare niente, mentre sarebbe molto più attento se fosse palese la sua identità.
Passiamo finalmente alla parte propositiva del pensiero di Giorgio Israel.
Innanzitutto, la scuola e l’università dovranno avere il meglio del “vecchio” senza rigettare tutto ciò che è nuovo. Ciò che va recuperato è un rapporto docente-studente che non sia tra esecutore di un servizio e utente di esso, ma tra una persona che è custode di una conoscenza e un’altra che l’apprende. Non più metodologie ma passione per le discipline. L’università, in particolare, non deve produrre “polli da batteria”, cioè persone ultra-specializzate in una cosa sola, ma occorrono preparazioni a più ampio respiro per garantire la possibilità di idee nuove. Il fattore filosofico alla base di quest’ultimo punto è un riequilibrio tra le due culture umane, l’umanistica e la scientifica: la prima è necessaria per evitare il declino di una nazione mentre la seconda va ritenuta capace di fare cultura e non solo comode applicazioni.
Il nuovo che avanza, la tecnologia, può entrare nelle aule scolastiche ma deve essere al servizio dell’istruzione e non il suo centro: può facilitare una lezione, ma non sostituirsi al rapporto personale studente-docente. Anche all’università bisogna tenerne conto: le lezioni su internet non potranno mai sostituire quelle frontali e le sedute di laurea andrebbero fatte senza la presentazione Power Point (tranne per le immagini complesse).
Se proprio si vuole essere coerenti con il prendere la sana competizione del mondo del mercato e trasportarla in quello universitario, una buona proposta (che non deve essere l’unica) è l’abolizione del valore legale del titolo di laurea. Di primo impatto sembra che Israel volesse che le lauree valessero meno di quanto valgano oggi, ma il senso è un altro: il valore di una laure deve essere dato solo dalla sua qualità effettiva, non da quella concessa dalla legge, solo così si avrebbe una vera concorrenza tra i corsi universitari per dare peso reale alle proprie lauree.
Per quanto riguarda la divulgazione scientifica, riporto un brano di Israel che a mio avviso mi piacerebbe diventasse una sorta di “Manifesto” di Critica Scientifica perché coincide perfettamente con i suoi propositi:
Oggi ci troviamo di fronte a un’alternativa: accontentarci di una mera trasmissione di notizie di “eventi” accaduti nell’ambito della ricerca scientifica, oppure comunicare un’informazione pensata, elaborata, critica e che non si limiti al puro e semplice annuncio, magari presentato in forme sensazionali, ma che sia trasmissione di contenuti di cui chi li riceve non è semplicemente bersaglio e deposito passivo, bensì anche soggetto capace di utilizzarli attivamente. Nel secondo caso noi staremmo effettivamente creando cultura scientifica. Nel primo caso non trasmettiamo neppure informazione, bensì soltanto un insieme indistinto e rumoroso di notizie.
Cosa può invece aiutare tutti in una visione critica e aperta della scienza?
La conoscenza della storia della scienza; e deve trattarsi di una conoscenza capace di rifletterne le dinamiche complesse e contraddittorie, non di un insieme di raccontini apologetici.
Un approccio corretto per risolvere la crisi attuale della scienza è riconoscere questa come un elemento della propria identità nazionale. Siccome ci stiamo avvicinando (o ci vogliono far avvicinare) ad un nuovo tipo di patriottismo a carattere più europeo, ci distacchiamo un po’ dai temi trattai finora per conoscere le opinioni di Israel sulla questione dell’identità europea.
La sua opinione è che l’identità comune sia stata fatta male: si è partiti dalle questioni economiche e monetarie invece di cercare una “trama culturale e ideale condivisa”. Avete notato che cosa c’è raffigurato sulla banconote dell’euro? Generici edifici di varie epoche artistiche, in pratica figure quasi astratte.
Il problema che non si volle ammettere è che, detto senza mortificare nessuno, il peso culturale di nazioni come l’Italia, la Francia, il Regno Unito, non è paragonabile a quello di Cipro, Malta, Finlandia e Bulgaria. Anziché puntare a fattori comuni astratti, si poteva usare un approccio più complesso, più lungo e difficoltoso ma più realista: valorizzare ogni cultura europea per il suo valore effettivo ma allo stesso tempo facendo sentire come proprio il contributo di tutti gli altri paesi. In pratica, è come dire che siccome siamo europei sia Dante sia Kant sono “nostri” e i tutti i cittadini dell’Unione Europea.
Concludo riconoscendo che la sintesi che ho compiuto rappresenta solo una parte delle molte osservazioni e idee che ho appreso leggendo Giorgio Israel. Spesso i suoi toni erano molto accesi, un po’ polemici, però ho imparato molto e per me è stato un piacere condividere quanto scriveva su educazione, scienza e cultura questo intellettuale che ci ha lasciato pochi giorni fa ma di cui sentiamo già la mancanza.
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81 commenti
@Htagliato
H il tuo articolo è lunghissimo, non si può commentare tutto, su alcune cose sono d’accordo con te, tipo le lauree 3+2 o gli ECM, ma mi limito a due considerazioni
1) Massimo rispetto ovviamente per la persona deceduta, ma intuisco che io ho una considerazione diversa della scienza rispetto a Israeli. Su IBS c’è una stroncatura di un suo libro da parte dell’Indice, e lui aveva risposto con un commento personale. Per la mia esperienza, forse è l’unico caso di una risposta di un autore contro gli amministratori del sito.
2) Visto che Odifreddi è ancora vivo e non è morto,per dirla alla LaPalice : ), perché non lo inviti a risponderti in merito alle tue critiche ? E lo stesso varrebbe per Boncinelli.
Buona giornata
1) Non conoscevo questo episodio
2) Noi siamo disponibili a confrontarci con chiunque, pensi che Odifreddi l’abbiamo addirittura intervistato!
Non capisco in quale modo l’episodio di IBS sia da ritenersi rilevante: Odifreddi si scriveva la propria biografia su wikipedia, il che mi sembra ben più ridicolo di un intervento legittimo in risposta ad una stroncatura ideologica. Seguivo da anni Israel sul suo blog, più sulle tematiche che riguardano la scienza che sui temi dell’insegnamento, e l’ho sempre apprezzato per il suo punto di vista libero e la sua critica argomentata ad alcune delle opinioni che oggi vanno maggiormente di moda. Ho appreso vagamente della sua malattia leggendo proprio i commenti sul suo blog ed ero rimasto tristemente impressionato dal suo ultimo intervento, pochi giorni prima della morte, in cui confermava la gravità della sua condizione con poche parole e qualche errore di battitura. Personalmente mi mancheranno tantissimo i suoi articoli: grazie ancora Professore!
Carmine, Odifreddi qui su CS era intervenuto, ma senza troppo costrutto, purtroppo.
S’è stufato quasi subito e, incalzato da mille domande, ha preferito eclissarsi, fors’anche perché non aveva troppo tempo…
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Sull’articolo tributo di Htagliato ho da dire che ha messo troppa carne al fuoco: se un post si presta a mille possibilità di commento fin dall’inizio come questo va a finire che nelle repliche ci può stare tutto e il contrario di tutto. Troppo dispersivo, dunque.
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Mi limito a constatare che la solita polemica con lo scientismo, le accuse di scientismo sparse a piene mani, è il fumo negli occhi che alla fine vuole solo portare acqua al mulino della metafisica di stampo religioso… Come al solito, 1 : 1 e palla al centro…
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E in ogni caso onore al grande professore, all’uomo di scienza, che ci ha lasciato.
Siccome l’articolo è dedicato a Giorgio Israel, ho voluto esporre buona parte delle sue idee su educazione, scienza e cultura. Se così ho reso difficili gli eventuali commenti non è niente di grave perché ciò a cui tenevo era raccontare il suo pensiero.
@Htagliato: grazie,grazie mille. Un riconoscimento ad un uomo che ragionava con la sua testa a partire da dati di fatto. Come ex insegnante di scienze riconosco molte cose vere dette nell’articolo. Che fatica gli ultimi anni di insegnamento in scuole succubi del pensiero di sinistra che poi era quello americano, che gioia sentirsi ringraziare da studenti ora quarantenni per la qualità della relazione che avevo impostato,con loro, unica base perché amassero lo studio e sopportassero con orgoglio la fatica……condivido tutto il suo articolo. grazie.
Prego, grazie a lei per essere stata una brava insegnante e per il seguire il nostro sito!
@GIUSEPPE CIPRIANI
Ok la denuncia nei riguardi di una deriva tecnico/scientista ma lo spot per la metafisica di stampo religioso non lo vedo; mi sembra venga proposta una reciproca fecondazione di cultura umanistica e scientifica. Poi come detto il post è veramente pregno quindi si presta ad essere commentato in varie direzioni.
Cipriani se lei vede troppa carne al fuoco, commenti solo i punti che ritiene siano giustamente criticabili
H ha fatto un articolo secondo il suo pensiero, non vedo alcun problema a commentare solo alcuni punti o tutti, a seconda del proprio desiderio di affrontare l’argomento
Forse lei che tanto critica l’articolo già a partire dalla sua forma, dovrebbe provare a scriverne uno, cosi vediamo come se la cava, no?!
Caro Giuseppe, lo sai quanto ti apprezzo! Ma stavolta sei stato un po severo con Htagliato. E’ vero che si è concentrato, tra gli altri argomenti, sullo scientismo, ma almeno in modo esplicito la metafisica non l’ha nominata. Io apprezzo lo sforzo comunque di produrre un articolo lungo, di senso compiuto e non banale.
Grazie, Mentelibera65, per aver apprezzato il mio sforzo.
Buongiorno,
grazie, htagliato, per aver sintetizzato e condiviso alcuni importanti argomenti de “Chi sono i nemici della scienza?”. Mi trovo d’accordo praticamente su tutto quanto viene detto a proposito di istruzione e scienza (ho trovato il passaggio sugli “eventi scientisti” particolarmente esilarante). Leggermente meno d’accordo su quanto detto sull’UE; premettendo che sono personalmente anti-UE, penso tuttavia che la valorizzazione commisurata all’apporto scientifico-umanistico di una nazione sia effettivamente un approccio piuttosto “mortificante”, pur dovendo riconoscere le “positive diversità” tra le varie nazioni (non credo nell’applicabilità della “meritocrazia” alle nazioni).
Grazie ancora dell’articolo, ed anche per i toni pacati ed autarchici che La contraddistinguono nelle discussioni.
Grazie a lei per l’interesse manifestato e per i complimenti.
Htagliato la ringrazio dell’articolo,anche se il mio carissimo amico GC vi ha trovato un ruolo pro metafisica ben venga ugualmente.E infatti a proposito “di sport” “1 a 1 e palla al centro”mi chiedo chi ufficialmente,a livello nazionale,sarà o è lo sfidante del granitico ed informatissimo Odifreddi,per la “squadra Pro Metafisica-Campionato Matematica Serie A della Scienza”,in sostituzione di Israel.
Prego, Stò; quale potrebbe essere l’omologo credente del matematico Odifreddi? Non saprei, è necessario trovarne uno?
Risposta intelligente a domanda un pò sciocca(ma non troppo).Personalmente e molti altri simili a me(presumo ciò ma non sono il loro rappresentante)già percepiscono un grandissimo vuoto che andrà colmato.
Tra i non italiani segnalo la medaglia fields Lafforgue, matematico geniale, cristiano e pure lui molto attento alle tematiche dell’insegnamento.
Grazie signor Enrico.
Lo seguivo sul Corriere e mi piaceva, Israel, ma ho completamente “bucato” la notizia della sua morte, perché ricevo il giornale in abbonamento solo nei giorni feriali, ed essendo deceduto di venerdì, non ho letto la notizia e i “coccodrilli” nei due giorni successivi. Ringrazio quindi Htagliato per avere fornito una breve, ma efficace sintesi del suo pensiero che condivido in gran parte. Speriamo che le sue posizioni vengano portate avanti da altri, perché il nostro futuro può essere migliore qualora venissero fatte delle scelte che vanno nelle direzioni tracciate da Giorgio Israel.
Prego, Muggeridge, è stato un pacere per me esporre le idee di questo ex professore che conosceva bene l’origine profonda dei problemi dell’istruzione e della divulgazione.
Htagliato articolo scritto bene, ma non concordo in tanti punti.
Perché, secondo me, racconti una parte della verità, un punto di vista (legittimo per carità).
La mia critica è al modello di scuola che tratteggi (su questo allora non sono d’accordo con Israel): il male di oggi non sono le competenze, apprendimento… La tua critica è troppo filosofica e poco pratica.
Al contrario, nella mia esperienza, ho visto come certi docenti sono proprio irremovibili, e come certi “programmi scolastici” siano a loro totale discrezione. Questo ha portato, sempre a mio parere, a grosse disparità, cioè si sono create classi di serie A e di serie B.
Un altro problema è come la scuola non sia amministrata, ma sia spezzettata in tante figure… questo porta a non capire mai di chi è un certo merito o una certa disfunzione. E’ piuttosto grave!
Al di là di tutti gli ostacoli economici, che sono tanti, la “buona” scuola deve essere stimolante, deve riuscire a incuriosire i ragazzi, non a mortificarli. Per questo non c’è paragone con gli altri Stati europei, e non solo, che sono dotati di molte più attrezzature e hanno un insegnamento/lavoro impareggiabile.
La tua critica, infine, al rendere pratico/manuale l’insegnamento la trovo un po’ ideologica, non sono d’accordo. Le esperienze rendono vivo un particolare. Non basta studiare sui libri. Un bravo dottore deve mettere mano a quello che studia. Infatti, in Italia ci troviamo molti dottori che poi laureati non praticano, perché non riescono a gestire le emozioni. Così anche lo studente, a mio parere, deve vivere sul campo quello che studia per capire se lo aggrada, se fa per lui. Altrimenti diventa tutto nozioni!!!
Nel suo libro Israel cita anche i bisticci e i problemi burocratici della scuola, ma non li ho riportati nell’articolo sia perché dovevo operare una selezione sia perché Israel approfondisce tale problema nel contesto universitario. In ogni caso, credo che sarebbe stato d’accordo con lei con il rimediare anche a questi problemi.
Riguardo alla critica all’insegnamento pratico/manuale pure potremmo riavvicinarci: non stiamo dicendo che uno studente non ha bisogno di mettere piede in un laboratorio o che non deve essere capace di risolvere problemi pratici. Il punto non è che cosa facciano gli studenti, ma con quale approccio.
Se per esempio insegno come risolvere le equazioni algebriche dicendo che “così potrete risolvere problemi pratici” non è che sto mentendo né ho cattive intenzioni, ma in realtà sto banalizzando la matematica a strumento utile (non ad un elemento culturale) e lo studente svogliato penserà che allora conviene affidarsi ad un altra persona o ad un computer, SE lo scopo è la soluzione del problema pratico. Ora è più chiaro?
Secondo me non si banalizza affatto. Anzi, penso sia il problema presente nel sistema educativo italiano: la mancanza di un mettere in pratica quanto studiato.
Banalizzare la matematica, lei dice? Ma perché?
Molto spesso mi è capitato di combattere il pensiero opposto, vale a dire: “a cosa servono le equazioni matematiche nella vita?”, “Tutta teoria!”ecc…
Non pensare a quanto servano le discipline scientifiche nella vita quotidiana è uno dei maggiori problemi del presente…
Gli studi aerodinamici, la gravità, ecc… ci permettono di andare per aria, o piuttosto, la relatività per tante altre cose. Quindi più pragmatismo e meno filosofeggiare, a mio parere, in Italia oggi. (Non disprezzo la filosofia attenzione, la ritengo indispensabile a dare una direzione! Ma deve avere dei limiti e deve fermarsi nel suo campo d’azione, senza interferire).
@Dom
Mi scusi la provocazione: dire che la filosofia non deve intervenire è già fare filosofia e intervenire.
Filosofia e prassi sono intrecciate molto in profondità, ben più di quel che sembra a noi di questo secolo, forse Israel voleva dire proprio questo (tra le altre cose).
Sono d’accordo. Ma la filosofia in Italia si chiama “allungaggine”. Annacquare le discipline di questo e di quello non mi sembra un ottimo metodo per insegnare.
Oggi, quando guardo i libri di testo, mi metto le mani ai capelli. Poveri ragazzi! Le faccio un esempio: se nei libri di storia delle medie o delle elementari trovi infarinature superficiali ,messe li a caso, su sociologia, matematica, ecc, cosa capisci dell’argomento? Con la scusa dell’interdisciplinarietà non si insegna più nulla; perché un ragazzo fa un poco di quello, un poco di questo e manca il tiro, cioè l’argomento centrale. Così non si studia più ne italiano, matematica, religione, storia… La profondità la trovi in un insegnamento chiaro e lineare, con piccoli approfondimenti utili a esplicitare. Le complicazioni non servono a nessuno. Questa scuola va cambiata.
Pure a me, quando stavo al liceo, è successo moltissime volte di sentire un mio coetaneo che chiedeva “A che mi servirà sapere i logaritmi? A che serve nella vita la trigonometria?”
Premesso che queste di sopra sono domande dettate dall’ignoranza (e dalla pigrizia), non posso che essere d’accordo sul fatto che la matematica sia uno strumento potentissimo, ma attenzione, il diavolo si nasconde nei dettagli.
Se provo a stimolare uno studente svogliato presentandogli la grande utilità della matematica, magari forse lo convinco, però di fatto sto appoggiando il suo criterio di utilità (che in realtà non è veramente suo ma è figlio della modernità) per cui conta ciò che è utile e se studia la matematica diventerà una persona abile con essa, NON colta. Per cui se qualcuno davvero viene stimolato dalla pragmaticità, molti reagiranno pensando che la matematica è una (bella) abilità tra le tante, ma una persona può e DEVE sviluppare le abilità che gli interessano. Insomma, il matematico sarebbe un “idraulico dei numeri”, molto più abile di un idraulico, ma sempre un tecnico.
SE invece rispondo allo svogliato che il criterio di utilità è meglio se lo abolisce, che deve apprezzare la possibilità conferitagli dallo Stato di diventare una persona istruita a 360°, SE riesco a convincerlo (non è facile, ci sono troppi fattori, anche personali), ho fatto 2 in 1: studierà la matematica e anche per le altre materie non dovrà conoscere ogni volta l’utilità.
A proposito di “praticità”: uno studente di Ingegneria chiese al suo professore di Meccanica razionale “…ma un vettore, praticamente, che cos’è?” Il prof. rispose che non si può dire “praticamente” che cosa sia, è un costrutto intellettuale, come tutta la matematica, a prescindere dall’utilità pratica.
Htagliato tutto il rispetto per le tue opinioni, ma occorre fare poche seghe mentali. “Se dico questo allora…” ne abbiamo sentiti troppi.
Fai bei ragionamenti, però bisogna stare sui fatti.
Molto spesso in Italia, si pensa di dare un po’ di conoscenza di questo e di quello (un’infarinatura, diciamo) ma si manca l’obiettivo: “operare”.
Poi ci stupiamo se quest’Italia trabocca di passacarte…
Francamente, trovo questi discorsi sulla cultura, sull’educazione datati.
La coltura è personale, la costruisci piano piano, studiando, approfondendo…
Chiunque può essere colto, saper tante cose, avere una laurea non significa essere colti, o non averla non esserlo.
Il pezzo di carta serve ad attestare delle conoscenze che servono a farti entrare nel mercato del lavoro, stop.
Possiamo fare tanta filosofia su quanto sia bello studiare, ma l’obiettivo è, per tutti credo, ottenere delle competenze.
Per questo, credo, fai dell’idealismo facile poco realista. Non so cosa fai nella vita, però è brutto vendere sogni quando molte persone, molto competenti anche, non hanno un posto di lavoro a causa di un sistema universitario poco improntato sul lavoro.
Mi spiace dirlo, ma è così. Tanti, tanti tanti, vivono questa situazione.
Vogliamo essere più realistici? D’accordo.
La crisi delle iscrizioni nelle facoltà di Scienze (Fisica, Matematica, Chimica, Biologia…) e l’incremento di iscritti nelle facoltà di Ingegneria penso che siano dovuti proprio allo spirito pratico dei nostri tempi, quello che ho chiamato Criterio dell’utile. Senza però la ricerca di base, allora il concretissimo progresso tecnologico non si avrà mai.
Senza progresso, non si creano nuovi posti di lavoro.
Parafrasando Chesterton, quando c’è una crisi, bisogna evitare di ricorrere alle persone pratiche, perché i pratici, per loro natura, sono molto bravi a fare cose note; in tempo di crisi occorrono invece i teorici per soluzioni nuove.
Con tutto il rispetto per Israel, definire il sistema scolastico italiano tra il 1865 ed il 1900 come il migliore d’europa, e soprattutto prenderlo come esempio per la scuola del 2015 mi sembra azzardato.
La quantità di nozioni che si sono accumulate negli ultimi 100 anni non ha pari in alcune materie, ma soprattutto il mondo del lavoro è totalmente cambiato. Concordo con Dom che scopo della scuola non è produrre degli intellettuali ma delle persone pronte per il mondo del lavoro, dove realizzandosi, anche economicamente possano poi , se vogliono, coltivare ogni approfondimento culturale. Non c’è nulle di più deprimente che aver studiato 20 anni e scoprire che non c’è un posto di lavoro dove sei ritenuto abile da subito, ed adatto ai tuoi studi.
Nei secoli scorsi per produrre un intellettuale bastava insegnargli a leggere e scrivere e un po di filosofia, e già lo si piazzava tra i “colti”.
Oggi per essere colti in senso generale non basta una vita, e non si può pretendere che la scuola abbia l’obbiettivo di produrne a profusione.
Ovviamente ci sarà sempre la possibilità per chi ama l’approfondimento di avere un percorso per lui , ma dobbiamo dare prima di tutto un futuro concreto ai nostri ragazzi. Questa è una generazione che a 30 anni guadagna 800 precari euro al mese, e questo è inconcepibile.
Sinceramente l’accostamento delle crisi delle iscrizioni con l’argomento mi sembra fuori luogo. In primis, perché le iscrizioni sono in calo per tutte le facoltà! (Il criterio dell’utile va a farsi friggere notando il calo quest’anno avuto a medicina, il 95% mediamente trova lavoro dopo il conseguimento della laurea!).
La crisi di quelle facoltà sono proprie di quelle facoltà! Bisogna cambiare, sperimentare metodi di apprendimento diverso per quelle discipline solo così si avrà un nuovo interesse.
Smettiamola con gli slogan facili, è veramente difficile per tutti: per l’ingegnere, per l’idraulico, per il matematico. Le illusioni non aiutano davvero. Perché per risolvere i problemi non occorre partire dalle idee, occorre guardare alla realtà e cercare di migliorarla. Ma non partendo da “quello che mi piacerebbe”! Gli ideologhi agiscono così.
Solo così tutti quanti riusciremmo a cambiare un pezzetto alla volta questa situazione incresciosa.
È chiaro che entrambi siamo d’accordo che le cose devono cambiare, ma secondo lei come?
Più ore di laboratorio, informatica, storia dell’arte (siamo il paese in cui ci sono opere d’arte nel mondo, siamo sommersi!)… Gli studenti non devono solo studiare, devono anche elaborare, creare loro “progetti”. Il voto andrebbe calibrato sfruttando il loro talento, non solo, quello che sanno o che apprendono sui libri. Così cambierebbe.
Non è facile mi rendo conto.
I docenti dovrebbero essere valutati per i loro risultati, non che dopo un tot di anni vivono di rendita e si sentono al sicuro, non trova?
Noto con piacere che ha affiancato a laboratori ed informatica anche storia dell’arte, ma avrei un brutto presentimento sulle altre due innovazioni: costringere gli studenti a fare progetti soggetti di valutazione non li renderebbe di fatto dei lavoratori a costo zero aggravando la disoccupazione? Può un liceale essere già in grado, in ogni caso, di realizzare un progetto utile?
Quali dovrebbero essere i risultati che devono dare i docenti? I progetti dei loro studenti? Se così, si aggravano le perplessità della domanda precedente.
Se tra i risultati ci dovessimo includere gli studenti diplomati in sé, allora si avrebbero sufficienze regalate per apparire docenti che “producono”.
Il lavoro non fa schifo, glielo assicuro. Bisogna cominciare a sporcarsi le mani, sbagliare, imparare, e correggersi fin dalle prime battute.
Un sistema in cui tutti sono protetti in una campana di vetro non funziona, così com’è.
Costo zero o no, sono esperimenti che renderebbero curiosi i ragazzi! Portandoli a “creare”, non aspettando le risposte da un manuale o da un modello! Le risorse le troverebbero in loro.
I docenti devono essere trattati come professionisti, devono accrescere, migliori i talenti che hanno a disposizione. Questo li motiverebbe e li responsabilizzerebbe, mi creda.
Il problema, come ha già scritto Pennetta, è che in un liceo anche molto attrezzato gli studenti non potranno fare molto, persino io, al primo anno universitario, sono partito dal pendolo semplice e dalla molla!
“Costo zero o no, sono esperimenti che renderebbero curiosi i ragazzi!”
Forse, ma li renderebbero dei lavoratori quasi certamente a prestazioni gratuite e con la scusa che devono fare esperienza prenderebbero il posto dei lavoratori già titolati, aggravando la disoccupazione.
“Portandoli a “creare”, non aspettando le risposte da un manuale o da un modello! Le risorse le troverebbero in loro.”
In pratica, nel caso delle scienze, gli studenti dovrebbero scoprire che la scienza che studiano sui manuali non è una baggianata perché potranno verificarla riproducendo un numero intrinsecamente limitatissimo di esperienze (rispetto alle conoscenze che si studiano).
È giusto che i docenti scoprano i talenti, ma ciò non potrà mai avvenire con qualche attività pratica: 1) perché ciò che si può fare con le basi del liceo è poco; 2) perché per le attività pratiche, senza una base forte, si diventa solo dei praticoni e non c’è bisogno di un particolare talento.
Ht secondo me sono tutte scuse per non mettere mano e per non modificare alcunché
Andare contro un certo modo di cambiare le cose non significa essere contrari ad ogni cambiamento.
Tralasciando gli istituti tecnici e professionale, uno studente liceale non potrà fare che cose banali in un laboratorio mentre se lo si fa collaborare già in quel periodo con un’azienda lo si rende solo un lavoratore gratuito.
Ma perché vogliamo tenere i nostri ragazzi inchiodati alla sedia?
Non lo capisco proprio…
Guarda che altrove in Germania, Australia, anche nei licei, ci si sporca le mani. Conoscere il lavoro è altamente etico.
Si responsabilizza la persona, si lavora in squadra…
Ancora con il lavoratore gratuito? A chi lo toglierebbero il lavoro? Suvvia siamo seri…
Anzi, capirebbero come operare e scoprirebbero quanto studiato abbia un effettivo campo di azione. E’ brutto tutto questo, mi chiedo?
Perché i miei commenti sono in moderazione?
Dom, non sarai per caso uscito dal brenton?
Sono perfettamente d’accordo con il pensiero di Giorgio Israel per il quale ho avuto il piacere di organizzare un conferenza alcuni anni fa, e ringrazio htagliato per aver reso così bene il suo pensiero espresso in Chi sono i nemici della scienza?
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Mi trovo anche pienamente d’accordo con htagliato e, inevitabilmente, totalmente in disaccordo con Dom e ML.
Quando si comincia a pensare che la funzione della scuola sia preparare per il mondo del lavoro si uccide la scuola, quella vera, e con lei la cultura.
La mia posizione da insegnante è che la scuola sia come l’arte, se insegna a fare cose pratiche non è più arte. Il nuovo direttore del CERN, Fabiola Gianotti ha rivendicato con orgoglio la sua preparazione liceale classica, i nostri studenti, e lo dico per averlo ascoltato da docenti universitari nei corsi di orientamento, sono richiestissimi proprio per la loro elasticità mentale, non perché sanno come montare un motore o come si compila la dichiarazione dei redditi.
Se si vuole un futuro lavorativo concreto allora basterebbe sostituire ai licei scuole per pizzaioli, manovali,elettricisti, piastrellisti ecc… semplice no?
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Ma se si vuole crescere generazioni in grado di capire un discorso, in grado di fare politica veramente, in grado di fare scoperte scientifiche o creare imprese uniche al mondo, allora che studino filosofia, storia, storia della matematica, storia della scienza, arte, lettere ecc…
In difesa degli ingegneri.
Sono d’accordo che la scuola debba formare la persona a tutto tondo, anche perchè è servito tempo a tutti noi capitre e focalizzare ciò che realmente ci piaceva e se la scuola non è capace di farmi assaggiare almeno un bocconcino di ogni pietanza, limita de facto le mie possibilità di scelta.
Quindi sì al latino, sì alla filosofia, sì alla letteratura, alla storia, alla geografia, alla chimica, alla biologia. alla fisica, alla matematica che secondo me, in vari gradi e con varie modalità possono e devono essere insegnate in tutte le scuole di ogni ordine e grado.
So già che qualcuno dirà che ad un ragazzo dei professionali la filosofia non interessa e io sostengo che non è affatto vero, un certo modo di insegnare filosofia o storia o altro non interessa ma alla fine le domande profonde di un ragazzo di 15-20 anni sono le stesse sia che frequenti un professionale che un classico, ovviamente il linguaggio e tutta l’impostazione dovrà essere diversa e magari un ragazzo che si è iscritto per imparare ad essere un elettricista si laureerà in filosofia.
Ne conosco uno, che certo non è significativo ma secondo me è un successo della scuola.
Resta però il fatto che molte persone hanno un carattere più pratico, più tecnico e che quindi è giusto che la scuola offra anche a queste persone una preparazione specifica.
La distruzione degli ITIS trasformati in “Licei Tecnologici” è servita più a soddisfare l’ego di presidi, scusate, Dirigenti, che si sentivano un po’ sminutiti a non essere presidi di liceo che a formare dei tecnici migliori o dei tecnici sufficientemente formati nello specifico con in più una formazione generale più vasta.
In effetti tutte le ultime riforme hanno portato a tecnici con una preparazione insufficiente e con nessuna apertura mentale visto che lo spezzatino delle materie e la drastica riduzione dei laboratori non permette più di acquisire e padroneggiare gli strumenti necessari.
Si poteva fare meglio, molto meglio.
In definitiva la tara tutta italiana di considerare sia le materie scientifiche e ancor più quelle tecniche come minori rispetto a quelle umanistiche ha prodotto danni e basta.
Ormai i ragazzi hanno un bagaglio di competenze vasto ma di conoscenze minime tanto che assomigliano sempre di più a certi tuttologi che infestano i talk show televisivi.
Pur essendo d’accordo che la scuola deve formare e deve puntare in alto, secondo me anche la preparazione tecnica avrebbe dovuto essere potenziata ed arricchita invece che ridotta al marasma di nullità che vediamo oggi.
E si poteva fare visto che gli ITIS formavano dei tecnici molto preparati, bastava adeguare, potenziare e tarare alcune spigolosità.
Per un tecnico la matematica resterà sempre uno strumento, perchè il suo interesse sta altrove e sarebbe criminale chiudergli la porta in faccia.
E’ un’equilibrio difficile lo so, ma peggio di quello che è stato fatto difficilmente si sarebbe potuto fare.
Parlando di ingegneri, visto che da questa categoria sono partito, non è possibile che un ingegnere (laurea triennale) faccia confusione fra energia e potenza tanto da essere insultato da un relatore durante una conferenza, e il fatto che sappia enunciare e dimostrare il teorema di Weierstrass correttamente non lo fa un ingegnere migliore ma sempre e comunque un qualcosa di meno di un semplice perito industriale di 40 anni fa.
Non quarant’anni fa, ma trenta parlando con un ingegnere canadese, non uno qualunque, uno che lavorava per il governo alla progettazione dei sistemi d’arma degli F-18, mi sono sentito orgoglioso di essere italiano, infatti lui mi diceva che gli ingegneri italiani erano molto ricercati come project manager in quanto la loro preparazione multidisciplinare li poneva diversi gradini sopra ai loro colleghi, ad esempio, americani.
Ne ho conosciuto qualcuno di questi e qualcuno di loro era veramente “un cane” quando si affrontavano temi diversi da quelli tecnici, un paio non erano nemmeno in grado di scrivere un testo in corretto italiano, ma quando si entrava nel tecnico si illuminavano loro gli occhi e riuscivano ad inchiodarti per ore a parlare e spiegare cose di cui io non avevo cheo una misera infarinatura.
La scuola, e parlo di tutta la scuola, dalle elementari all’università dovrebbe formare un uomo a 360° sì, ma nel dominio delle sue proprie e uniche inclinazioni.
Voler fare di un somaro un cavallo da corsa non ha senso ma nemmeno utilizzare un cavallo da corsa come animale da soma come si fa oggi.
L’equiparazione, secondo me, della dignità delle materie umanistiche, scientifiche e tecniche è cosa giusta e necessaria, purtroppo è stata scelta la strada dell’equiparazione al ribasso e alla banalizzazione e qui sta il vero problema.
Sono d’accorso con Valentino su tutta la linea.
No Enzo, può darsi che mi sono espresso male, vediamo di capirci.
A parole sono tutti per una scuola migliore che prepari davvero ma poi nei fatti non è così.
Sinceramente, ora, le famiglie mantengono i propri figli (con tanti sacrifici vi assicuro!) per dar loro una cultura?
Sì e no, è la mia risposta. E’ la risposta che do a voi e, se ci fosse, la darei anche a Giorgio Israel (mi dispiace di non poterlo fare, è molto sentita la sua mancanza).
Perché un uomo per poter vivere deve poter lavorare. E’ confortante fare quello che ci piace fare, ma spesso non è indispensabile, così come molte altre cose nella vita. Ora, tornando al discorso, una scuola, come quella italiano, molto teorica e allo stesso tempo poco tecnologica, che competenze potrà fornire ad un giovane?
E questo giovane, oltre ad avere assimilato “Promessi Sposi” e tanti altri (importantissimi per carità!) con quali competenze potrà interfacciarsi al mondo?
Io non voglio contrappormi alle vostre idee, ci mancherebbe; molto spesso, anzi, le condivido. Soltanto, credo, occorre non formare dei pizzaioli, ma allargare il raggio alle innovazioni già dalle medie con molte più ore di laboratorio. Non mi sembra la fine del mondo. Come ho scritto sopra, già le materio ordinarie (italiano, storia, matematica, geografia, tanto per intenderci…) non vengono insegnate più col rigore di una volta, per cui, questo danno non ce lo vedo.
Invece, far assimilare più abilità informatiche porterebbe maggiore benefici a lungo andare.
In Germania, negli altri paesi europei, Stati Uniti sono molto più pragmatici di noi, non fanno tanti giri di parole; un buon medico studia il corpo umano ma studia fin dal principio in sala operatoria!
Invece, questo paese ha prodotto, secondo l’Ocse, degli studenti inferiori ai loro coetanei europei grazie a questo sistema scolastico.
Dom, dunque io dovrei passare ore e ore in laboratorio, ed esattamente per fare cosa?
Non dico che il laboratorio sia inutile, ma quello che può dare è davvero molto limitato, prendiamo la chimica per esempio, in laboratorio posso far pesare le sostanze per studiare le moli, fare titolazioni acido -base, fare reazioni di ossidoriduzione, distillare e fare saggi alla fiamma… ma sono tutte cose da manovalanza della chimica!
Il vero valore della chimica è studiare come hanno fatto Lavoisier e Proust ad ideare le loro leggi, come Dalton si riallacciasse a Leucippo e Democrito, come Mendeleev per il sistema periodico si sia ispirato al pentagramma musicale, come Thomson abbia sfruttato in modo brillante il tubo di Crookes (ce l’ho e lo mostro in laboratorio), come Bohr abbia risolto il problema del modello planetario di Rutherford, ecc… Ma non sente che si respira ben altra aria, qui siamo in cima all’Everest, stiamo parlando di SCIENZA, mentre con tutti gli esempi di laboratorio citati prima stiamo facendo i tecnici di laboratorio.
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Riguardo alle classifiche Ocse rispondo in un modo che forse sarebbe piaciuto ad Israel: qual è l’unità di misura della preparazione degli studenti?
Si Enzo, scalando la montagna. Almeno imparerebbero l’etica del lavoro. Si parte da 0, anche facendo i tecnici da laboratorio! In Italia tutti vogliono già arrivare belli comodi al gradino più alto!
Non solo, instillerebbe loro umiltà (lezione di civiltà!), e al tempo stesso, prenderebbero visione,toccherebbero con mano, quello che studiano.
Così cambierebbero un po’ di cose.
Hai scelto un ottimo esempio comunque, io capii la chimica grazie ad un’ottima professoressa, che ebbi al 2° anno, che tra una provetta rotta e l’altra ci spiegò talmente bene i sali che ancora ora ricordo molto bene. Bisogna fare delle esperienze, pasticciare. 😉 😉
Un po’ di laboratorio aiuta, molto laboratorio zavorra… 😉
D’accordo con quanto detto (veda i miei commenti sopra e sotto).
Se posso permettermi, tuttavia, non ritengo efficace la similitudine della scuola con l’arte.
Arte (ars, techne) si contrappone tradizionalmente e semanticamente a Conoscenza (scientia, episteme), anche se durante la storia ha assunto anche significati più generali o prettamente intellettuali (e.g. le arti liberali).
Esprimerei meglio il concetto proprio dicendo del fondamento spirituale, e non tecnico-materiale, che dovrebbe definire l’istruzione, l’insegnamento e lo studio.
A proposito, vado un po’ ot: ruguardo la materialità della scuola odierna, la si può intendere, a mio dire, anche constatando come la pratica dello studio si associ prevalentemente all’età infantile e adolescenziale, mentre dovrebbe essere qualcosa di naturale in qualsiasi età della vita (a ciò si potrebbero contrapporre critiche realistiche, che io stesso potrei giustificare, per esperienza)
Grazie a lei, prof.; visto che stiamo approfondendo questo punto, riporto un brano di Giorgio Israel:
“L’innovazione tecnologica richiede una cultura vasta capace di attingere ai campi più disparati, altro che specializzazione. Mi ha profondamente colpito l’osservazione che ho sentito da diversi ingegneri che le automobili di oggi sono, in fondo, ancora “bricolage” del modello originario, mentre occorrerebbe ripensarne uno nuovo non soltanto in termini tecnici stretti, ma tenendo conto del senso del “trasporto” nella realtà economico-sociale di oggi. Come può farlo questo chi non sappia di economia, di sociologia, di storia? In un’università tecnologica francese mi raccontarono: «Un’importante ditta automobilistica ci chiede come migliorare una difficoltà di carburazione. Un ricercatore elabora un modello e conclude che occorre aumentare di tot millimetri il diametro di un tubo. Cosa di veramente nuovo può venire da questo?».
È comprensibile che le imprese abbiano fretta e desiderino un sistema dell’istruzione funzionale alle formazione di addetti. Ma ciò può portare solo al disastro. Nè vale produrre
l’esempio di paesi che imboccano questa via: qui il mal comune non è mezzo gaudio. Tanto meno può esserlo in un paese che non solo possiede gran parte del patrimonio culturale e artistico mondiale, ma ha una grande tradizione: aver saputo sintetizzare con successo, dal periodo postunitario, visione umanistica, scientifica e tecnologica. Di tale sintesi è stata espressione l’ingegneria italiana, costellata di grandi personalità che non erano solo “pratici” di prim’ordine, ma scienziati e umanisti. Tale fu Luigi Cremona, matematico puro, fondatore della Scuola di Ingegneria e ministro dell’istruzione. Tale fu Francesco Brioschi. Tale fu Vilfredo Pareto ingegnere ferroviario, imprenditore, e grande teorico dell’economia e della sociologia. Scienziato umanista fu il creatore della plastica Giulio Natta (diplomato in un liceo classico). Questa è la tradizione cui riallacciarsi, invece di degradare i Politecnici a scuole di formazione di addetti alle aziende, credendo che sia un progresso distruggere la formazione umanistica classica, proprio mentre viene riscoperta in paesi privi delle nostre tradizioni.”
Guarda che il mio modello è Adriano Olivetti, e il suo modello di fabbrica, se è per questo.
Quello che è riuscito a fare è tremendamente attuale.
Il problema attuale è proprio questo: un attitudine manuale/laboratoriste davvero nulla, o uno studio generalista multidisciplinare davvero superficiale? Dove è la cultura?
PS: Gli artigiani italiani sono i migiori del mondo, ce li invidiano, eppure non vengono valorizzati. Come ricordava Valentino il predominio su certe materie tecniche non aiuta, anzi mortifica molto spesso i talenti.
Dom, quello che poni è un falso dilemma.
Perché non hai incluso tra le alternative uno studio generalista multidisciplinare NON superficiale?
Ci sono scuole che lo forniscono e altre che non lo forniscono, ma ovviamente il riferimento sono le prime, non le seconde, quelle che attuano la vera scuola italian, non quelle che funzionano male.
Visti i risultati mi sembra la maggioranza, purtroppo, professore.
Sono in completo accordo, per il poco che vale la mia opinione, con l’ultimo intervento di Enzo Pennetta. La scuola deve insegnare delle basi di conoscenza e ragionamento su cui innestare le conoscenze pratiche, eventualmente dando anche delle conoscenze pratiche ma come esemplificazioni. Formare persone pronte per un immediato inserimento nel mondo del lavoro significa formare persone che quando il modo in cui si lavora cambierà non saranno in grado di adeguarsi. Questo solo per limitarsi al mero aspetto lavorativo e senza considerare la formazione complessiva del cittadino.
Sulla scuola postunitaria ricordo una sola cosa: dalla riforma degli Istituti tecnici del 1871 scaturì il trattato di Geometria Proiettiva di Luigi Cremona che non solo diede il nome stesso a questa scienza che precedentemente era detta Geometria di sito o di posizione, ma che è a tutt’oggi ristampato in lingua inglese.
Anzi ne aggiungo un’altra: l’Italia che era in condizioni di arretratezza tecnologica rispetto a Paesi come l’Inghilterra o la Germania raggiunse in pochi anni posizioni di rilievo internazionale. Questo perché il mondo industriale italiano, con in testa personalità del tipo di Quintino Sella, rifiutò una formazione tecnica basata sulle conoscenze pratiche e ritenne che anzitutto occorresse dare una salda cultura di base. Da quegli istituti tecnici uscì gente come Vito Volterra, Enrico Mattei, Adriano Olivetti; a quegli istituti tecnici – e su quelle basi concettuali – si collegarono i musei industriali e i Politecnici di Milano e Torino che, pure, mi sembra che qualche esito positivo lo abbiano avuto.
Giorgio Israel era un grande intellettuale, uno spirito libero e uno dei pochi che avessero veramente chiari i problemi della scuola italiana e delle consorterie ideologiche che la stanno portando allo sfascio, uno dei pochi che rifiutassero, come va rifiutata, la presunta scissione tra cultura umanistica e scientifica. Per queste posizioni anticonformiste (ricordo anche la smitizzazione del feticcio della scuola finlandese) aveva subito l’esclusione dal circuito della grande stampa, non so davvero quando mai abbia scritto sul Corriere (che ha appaltato l’argomento “scuola” a personaggi che sono proprio all’opposto di quanto Israel ha sempre creduto e sostenuto), ma recentemente non lo ospitavano più neanche il Mattino e il Messaggero cui in precedenza collaborava quasi regolarmente.
E lo dice uno che ha anche polemizzato con lui (sul suo blog, con diverso nick) e ha ricevuto anche delle stroncature ad alcuni interventi.
Ci mancherà eccome. Purtroppo non si vede proprio chi possa essere all’altezza di prenderne il posto.
Grazie Klaus per questo intervento, in particolare per aver riportato altri punti dell’attività del prof. Israel che ne completano il pensiero.
Quello sulla scuola finlandese, in particolare, lo ricordo ancora, ne parlò proprio alla conferenza che organizzai, da qualche parte dovrebbe esserci anche un video…
Buonasera,
personalmente, riesco a comprendere le critiche dell’utente Dom, in particolare mi trovo d’accordo con le inefficienze amministrative. Per quanto riguarda la praticità della scuola, è palese come questa in quanto istituzione statale si inserisca in una certa cornice politico-economica e quindi necessariamente professionale; tuttavia (io, che sono persona tutt’altro che idealista) propendo per il modello vagheggiato da Israel, per il fatto per cui la scuola dovrebbe ritrovare il proprio antico fondamento spirituale (il che mi pare impossibile) e non essere una mera fabbrica di tecnici. La capacità di pensiero critico ed astrazione (aggiungerei anche la moralità) prescinde da, e supera semplici competenze esecutive, ed è l’unica che può far la differenza anche sul piano politico-economico nazionale e internazionale. Per questo ritengo che, ancor più di materiale didattico moderno ed accattivante, sia necessaria una classe di docenti intellettualmente e spiritualmente elevati.
Non tanto stimolare interesse, quindi, con chissà quali invenzioni metodologiche, ma destare l’intelletto dei (miseri) discenti dalla propria (naturale) inerzia entropicizzante mediante l’interesse disinteressato (perdonate l’accostamento incauto) per lo studio ed attuando quella certa “rivoluzione antropologica” antimaterialista vagheggiata dal prof. Pennetta.
Purtroppo, ammetto miserevolmente la totale impossibilità e inapplicabilità di quanto penso e ho scritto, e forse emerge quanto detto da Dom in quanto a realismo ed applicabilità.
Alio, perché dovrebbe essere impossibile attuare quello che hai scritto?
Ti dico io come si fa: non serve nessuna riforma.
Fai entrare in un’aula, che sia anche scrostata e con le finestre rattoppate, un insegnante che ama e conosce bene la sua materia, che ama chi ha davanti e che sia contento di essere un insegnante. Dagli degli studenti cresciuti in famiglie che li abbiano educati al senso del bene e del bello, e che gli abbiano insegnato il rispetto.
Non serve altro.
@ ALIO ALIJ
vorrei precisare, sono d’accordo che la scuola dovrebbe dare tutto questo e l’azione formativa deve essere completa a partire dalla prima elementare, è indispensabile che si insegni a ragionare con mente libera e aperta, è indispensabile che si insegni ad essere curiosi, è assolutamente basilare che si insegni ad essere morali, ma se il desiderio più grande di una persona è quello di battere con il martello la scuola ha il dovere di insegnarli a battere bene.
Non ho una visione riduttiva della scuola (tutti fabbri) ma neanche utopica (tutti Platone, o Fermi o chi altro volete).
La scuola deve essere ad ampio spettro e soddisfare l’aspirante fabbro come l’aspirante fisico.
Ho un amico ereditato da mio padre, un architetto piuttosto bravo nel design del vetro, un sognatore eccentrico con una preparazione nella sua materia mostruosa amplissima e multidisciplinare e che veleggia liberamente fra la filosofia, la storia, la sociologia, l’arte e la tecnica.
Il figlio che a quattro anni disegnava cavalli come io a 57 non mi sogno nemmeno di imitare con le due zappe che ho per mani, dopo il diploma ha detto a suo padre:
“Ho fatto quello che volevi e non mi è dispiaciuto ma adesso farò quello che voglio io: il maniscalco” ed è quello che fa.
Storia parallela con mio cugino, arrivato al diploma di maturità, il padre aveva già raccolto materiale sulle varie università ma lui ha detto:
“ti ho deluso mai?” e il padre ha risposto “no certo”, “Bene allora adesso tu non deludere me, non imprigionarmi” ed è partito per Londra a fare lo sguattero.
Adesso è a Melbourn chef di un importante ristorante ed è felice.
L’ho incontrato lo scorso Agosto e abbiamo parlato a lungo e mi raccontava della fatica che ha dovuto fare mancandogli un’istruzione specifica.
Terzo caso, mia sorella, ha venduto il suo primo quadro a 9 anni, allarchitetto di cui sopra, era veramente straordinariamente dotata, ma si sa, con la pittura non si mangia, e poi, la pittura è un hobby non certo qualcosa su cui fondare una vita, ed ecco che frequenta il liceo e poi si iscrive a medicina dove consegue brillanti risultati agli esami ma ad un certo punto cade in depressione e molla tutto, anche la pittura e da quella depressione non è più uscita. La sua gemella si è laureata felicemente in chimica con il 110.
Allora? Secondo me una scuola che insegna chimica ma non insegna a preparare un arrosto o a dipingere o ferrare un cavallo è una scuola fallita.
Tutto è scuola quello che sviluppa le potenzialità del discente al meglio, sia che si tratti di formare un filosofo che un fisico che un fabbro.
Cero il modello non è quello della scuola americana dove l’ingegnere di cui parlavo prima sapeva tutto sulle microonde ma solo sulle microonde e che è il modello del perfetto “numero da industria” ma bisogna rendersi conto che non tutti aspirano ad essere Leopardi.
I ragazzi di via Panisperna, bellissimo libro, affascinante, letto e riletto con immenso piacere, ma quanti erano? Quanti gli ingegneri sfornati nello stesso periodo? Quanti i contadini che hanno coltivato il grano per nutrire sia i fisici che gli ingegneri e i professori che li hanno formati e che magari se istruiti un po’ potevano produrre meglio e con meno fatica?
Certo che Fermi, Pontecorvo, Maiorana hanno contribuito al progresso dell’umanità in modo eccelso ma mica tutti possono o vogliono aver a che fare con il decadimento dell’uranio e allora che facciamo? Li lasciamo senza scuola o li mettiamo in un getto e li chiamiamo “pratici” con disprezzo e sufficienza?
Per una volta lasciatemi dissentire
Veramente ci sono scuole che insegnano a dipingere, a preparare arrosti e magari anche a ferrare cavalli. Se lo facciano bene o male non lo so, ma comunque esistono.
E’ vero anche che in queste scuole, grazie alle recenti riforme (Gelmini) e appunto alle concezioni ideologiche di cui si parlava sopra, negli ultimi tempi si insegnano molto di meno queste cose e molto di più si costringono gli studenti a materie che non li interessano affatto o che non sono in grado di affrontare.
Ma questo non è in contrasto con la distruzione della formazione classica e scientifica, anzi sono linee di azione che sono portate avanti dalle stesse correnti di pensiero, da almeno cinquant’anni a questa parte.
Cerco di essere più chiaro: coloro che hanno voluto la cancellazione degli Istituti d’Arte (pensiamo solo a quello di Faenza, che formava ceramisti che poi trovavano lavoro, come tempo addietro esponeva un professore a Philippe Daverio), rendendo inutilizzati, tra l’altro, patrimoni di decine di milioni di Euro in attrezzature di laboratorio, sono anche gli stessi che hanno trasformato la struttura dei Licei classici in modo tale da causare un crollo delle iscrizioni, almeno a quanto sembra dalle recenti notizie. E’ un unico programma ideologico di appiattimento quello che detta queste scelte.
Per quanto riguarda Enrico Fermi, frequentò il Liceo classico (Umberto I di Roma, oggi Pilo Albertelli) e ne uscì con voti massimi in matematica e fisica, ovviamente, ma altissimi anche in italiano, latino e greco. Altrimenti, forse, non sarebbe diventato Enrico Fermi.
Sulla questione se la scuola debba dare più competenze o più conoscenze, dico la mia. Nel mercato del lavoro di oggi, la competenza per esercitare un lavoro si acquisisce solo nel posto di lavoro, mai a scuola. La scuola dia conoscenze e metodi, in tutti i campi, in maniera generalista e interdisciplinare. Insegni a ragionare, con lo studio dell’italiano, della storia, della matematica. E poi con tutte le altre materie, ma sempre in maniera interdisciplinare. Un professore dovrebbe, a mio parere, insegnare la sua materia non allo scopo di trasmettere competenza, ma per inoculare curiosità, dubbio, per far comprendere quanto siamo ignoranti e per stabilire ponti con le altre materie, a cominciare dalle 3 fondamentali dette sopra. In questo modo, inevitabilmente, trasmetterà anche un minimo di competenza specifica nella sua materia, quel poco che poi integrato da un altro poco dell’università servirà al giovane per essere un buon cittadino, per proporsi nel mondo del lavoro e per apprezzare la vita.
“… ogni giorno gli scolari facciano deduzioni e soluzioni da sé; non si costringano alla sola parte passiva… ma si facciano concorrere attivamente allo svolgimento di cose nuove; in questo modo e non altrimenti si riuscirà ad accendere in essi l’amore allo studio”.
Dalla prefazione al trattato di Geometria Proiettiva di Luigi Cremona (1873) cui facevo riferimento sopra.
Prof le parlo con tutto il rispetto di questo mondo, la sua biografia d’altronde è di tutto rispetto!, ma dissento profondamente.
Nel mio piccolo, ho imparato che il “te lo insegno dopo”, “aspetta a formarti, ad avere le competenze al lavoro” significa non impararle mai, purtroppo! Perché nessuno è così stupido da formare un lavoratore (laureato??) sul lavoro, per tante ovvie ragioni.
La prima questione è: perché ruberebbe il mestiere, se fosse più bravo, a chi lo forma, dunque…
meglio sfruttare un laureato poco competente che non imparerà mai il mestiere!
Molte professioni, ad es. del settore ingegneristico civile, o anche solo le libere professioni, si reggono così. Tutto è dovuto ad una profonda mancanza, disfunzione, dell’università; parliamoci francamente: li prepara poco dal lato operativo.
Questo comporta lavorare, una volta usciti, a stipendi ridicoli per qualche grosso sfruttatore che sa il fatto suo con uno studio avviato! Tutto per colpa del sistema universitario, mantenuto con le tasse dai cittadini!
Dobbiamo vederla da questo punto di vista: la gente paga fior fior di tasse, ha quindi tutto il diritto ad avere dalla Stato, o chi per lui, una preparazione tecnica di tutto rispetto.
Lo studio serve, eccome se serve, però attenzione a non farlo diventare il fine.
L’uomo acquista dignità lavorando!
Senza giri di parole occorre parlare chiaro: bisogna puntare di più sull’aspetto lavorativo.
E’ questo quello che serve al Paese.
Puo´ essere condivisibile quello che scrive, ma non sara´che il vero problema sia che troppo spesso la domanda di lavoro sia sproporzionata rispetto alla vera richiesta del mercato ? non sarebbe ora di selezionare chi veramente ( per capacita´oggettive) possa continuare gli studi ? mica tutti possono diventare Dottori , Fisici , Avvocati, ecc..
Gentile Aurelio, a mio parere, andrebbero aboliti gli albi professionali, tutti, perché il loro scopo è mantenere e conservare il potere di quelli già affermati sul mercato. Darei più spazio di manovra ai singoli cittadini. Sai fare un mestiere, bene, cimentati, come in tutte le nazioni civili e democratiche del pianeta. Niente tasse all’albo, niente mediazioni dei soliti. Ma chi è veramente capace deve potere andare avanti, a patto che rispetti le leggi (mi sembra ovvio).
Defiscalizzazioni massicce potrebbero avviare nuove attività di nuovi aspiranti. Consulenze universitarie da parte dei ricercatori/universitari porterebbero ad un ampliamento di manovra in termini di qualità (permettimi cultura) ed economici alle aziende.
Questo farei fare.
Già dai primi anni dell’università. Non nei master o a fine percorso.
Un’apertura al mondo, per crescere, far eccellere il Paese. Soltanto così :l’Italia potrebbe tornare a fare l’Italia.
Beh , questa sarebbe una mezza rivoluzione politica/culturale di non facile attuazione , forse anche utopica per la generazione attuale di politici , che dire , da uno che vive ormai da decenni nel Nord Europa ve lo auguro.
Altrimenti la nave affonda. Non è utopico. Utopico è credere che si va avanti finché la barca va.
Occorre agire subito, purtroppo, questi governanti pensano al loro posto e ai loro privilegi, non è retorico, permettetemi.
Sono necessari grossi cambiamenti in fretta!
Da notare: come lei e molti altri italiani stanno letteralmente fuggendo a gambe levate da questo Paese che non ha fatto niente per trattenerli! Irlanda, Cina, queste le nuove frontiere!
DOM on 6 OTTOBRE 2015 15:26
Altrimenti la nave affonda. Non è utopico. Utopico è credere che si va avanti finché la barca va.
Occorre agire subito, purtroppo, questi governanti pensano al loro posto e ai loro privilegi, non è retorico, permettetemi.
Sono necessari grossi cambiamenti in fretta!
Da notare: come lei e molti altri italiani stanno letteralmente fuggendo a gambe levate da questo Paese che non ha fatto niente per trattenerli! Irlanda, Cina, queste le nuove frontiere!
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Ripeto condivido molti passaggi di quello che lei scrive , detto questo rimane in Italia una difficolta´oggettiva nel cambiare le cose , ( soprattutto cercare di prendere l´osso di bocca al cane) .
PS io sono nato all´estero da genitori Italiani , sono comunque cresciuto fino alla maggiore eta´in Sicilia, non mi definisco un cervello in fuga sarebbe un insulto alla mia stessa intelligenza , comunque capisco il senso ed il fine del suo discorso.
E’ comunque un uomo che va via che avrebbe potuto fare il bene della nostra terra!
DOM on 6 OTTOBRE 2015 15:49
E’ comunque un uomo che va via che avrebbe potuto fare il bene della nostra terra!
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Non credo che avrei potuto fare qualcosa per l´Italia , al tempo non si stava cosi male erano gli anni 90´, Ammiro comunque chi ci crede e´si sforza di cambiare le cose . col senno di poi ( egoisticamente ) rimanendo in Italia sopratutto al meridione non avrei avuto molte alternative in campo lavorativo come oggi posso avere in Germania, sullo specifico non posso dire molto visto che all´universita non diedi mai un´esame , quindi per forza di cose il mio discorso puo´avere solo carattere generalizzato.
Aurelio non importa ci sono molti altri modi di contribuire…
Su questo punto specifico ha le sue ragioni, gentile DOM, tuttavia la mia esperienza (ormai di decenni fa) nella Facoltà di Architettura (dopo il Liceo classico) mi ha insegnato che ci sono realmente professori che non comunicano troppo agli allievi per non crearsi dei concorrenti. Ma sono i mediocri. Quelli davvero bravi non hanno questo timore, perché: 1. amano la loro materia e quindi amano anche comunicarla trasmettendo le loro competenze; 2. sanno di essere bravi, hanno una solida base di “mercato” e non temono la concorrenza.
Ma la preparazione tecnica si deve basare su una preparazione di fondo e su una “capacità di sintesi” come ha scritto più sotto Alfonso Pozio, il cui intervento condivido appieno. Senza di questo, la preparazione tecnica non è nulla.
Assolutamente, però spesso sfruttano i neo-architetti a pochi spicci al mese
Un colpo al cerchio e un colpo alla botte…
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Ai miei tempi, bei tempi, gli studi al tavolino erano supportati dai laboratori e dalla pratica in campagna (si parla di periti agrari).
La differenza, poi, la facevano i professori e tra una sezione e l’altra della stessa scuola ci poteva correre un abisso tra la preparazione degli studenti, in base alla qualità dell’insegnate. E per qualità intendo: dedizione al lavoro, preparazione, capacità di coinvolgere… Bestie coloro che miravano solo alla pagnotta a fine mese, e quanti danni hanno fatto!
Vero anche che la scuola sforna, nei rispettivi campi, buoni lavoratori in potenza, mentre è la pratica sul campo, abbinata alla voglia di fare, che affina questa.
A proposito del seminario, una scuola come le altre o più delle altre?
Sforna buoni e santi preti?
O mira solo a preti preparati teologicamente?
Ed è la pratica che forma il buon prete o la base che ha ricevuto alla scuola che l’ha sfornato?
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Insomma, anche in questo campo, come negli altri in cui si applicano e sudano i lavoratori, la differenza la fanno gli uomini e la buona volontà.
Contributo interessante Htagliato perchè’ focalizza moltissimi problemi sulla preparazione dei laureati scientifici.
Per quello che è la mia esperienza, avendo lavorato a gomito con laureati in discipline scientifiche di diversa provenienza geografica posso dire che:
Le differenze di un laureato scientifico italiano rispetto agli altri sono “approssimativamente e mediamente” tre:
1) Un italiano è dotato di una certa elasticità. E’ abituato ad arrangiarsi ed usa fantasia e immaginazione.
2) il tipo di studio impartito dai Tecnici, dai Licei e dall’ Università al di là delle competenze specifiche fornisce all’ italiano una visione di insieme che definiamo con il termine cultura ma a mio parere sarebbe più appropriato definire come una “capacità di sintesi”.
3) Il sistema scolastico italiano non mette in competizione gli studenti e questo li rende essenzialmente collaborativi sia nei rapporti con le persone che nell’ affrontare i problemi.
Non so bene se queste doti siano strutturali, ovvero appartenenti agli italiani in virtù del background storico e culturale o se siano frutto di un metodo. Certo un paio di osservazioni si possono fare.
La prima differenza in parte potrebbe derivare da un sistema scolastico in cui è necessario “adattarsi” ( alcuni direbbero arrangiarsi) perchè in molti aspetti organizzativi strutturalmente carente. Per arrangiarsi “fantasia e immaginazione” sono fondamentali. E, a molti sembrerà strano ma per un laureato scientifico fantasia e immaginazione sono fondamentali. Cmq, questo dovrebbe aver “selezionato” una tipologia di studente. Il vantaggio del primo punto lo paghiamo in termini di numero di abbandoni.
La seconda differenza, ovvero la capacità di sintesi, mi sembra un’eredità storica che deriva dal sistema scolastico (insegnanti-programmi-etc). Il sistema scolastico italiano specializza-formando al contrario del sistema anglosassone che forma-specializzando.
La terza differenza non so dire bene a cosa sia legata. Forse abbiamo privilegiato un sistema orizzontale e non piramidale della conoscenza. Questo potrebbe essere legato al cattolicesimo ed alla sua visione della Scienza e/o anche alle istanze di diffusione della cultura portate avanti da un certo socialismo/comunismo.
Cmq, queste differenze fanno si che i laureati scientifici italiani siano notati all’estero dove elasticità, immaginazione, capacità di sintesi e spirito di collaborazione sono caratteristiche ricercate.
Ovviamente poi ad un certo livello di preparazione scientifica le differenze geografiche si vedono sempre meno. Il metodo scientifico tende ad uniformare e ad affinare certe capacità.
Alfonso Pozio, lei si riferisce alle eccellenze…
Per fortuna che ci sono, aggiungo io.
Ma non è che tutti possiamo essere eccellenze, mi scusi.
Anche altri Paesi vantano eccellenze, non è questo il punto.
Il discorso che si faceva, penso, sia un po’ più generale.
Riguarda le classiche internazionali, Ocse ad es., che, purtroppo, certificano grosse carenze dei nostri studenti e il fallimento di un sistema educativo.
In Germania l’alternanza scuola/lavoro funziona!
Lì i professori sono pagati molto di più perché danno competenze agli studenti!
Invece in Italia il merito, la capacità personale, non vengono mai a galla.
Qui le categorie bloccano ogni cosa.
E poi si è sempre stagisti, falsa partita IVA…
le sembra un Paese che da dignità al lavoro?
Mi riferivo ai laureati in materie scientifiche in considerazione del fatto che il Titolo del libro di Israel era “Chi sono i nemici della Scienza”. Ciò ovviamente non toglie le sue critiche al sistema.
Condivido appieno il bell’intervento di Alfonso Pozio. Le critiche di DOM al sistema italiano sono corrette e centrate, ma non è (o almeno non era) la scuola la causa di tutto ciò. I migliori giovani non si affermano nella società italiana non perché la scuola non li abbia formati adeguatamente, ma perché la società (o il sistema) non dà loro opportunità. Diversamente, non avremmo “fughe di cervelli” ma immigrazione in massa di giovani di valore. E su questo punto mi sembra che i dati statistici non lascino dubbi.
Aggiungo un episodio raccontatomi da un mio amico e da me già postato altrove. Il figlio ha seguito, dopo la scuola secondaria, un breve ma intenso corso di alta formazione culinaria (in Italia). Al termine ha cercato lavoro. La richiesta-tipo era “Chi ti manda?” e la proposta-tipo un’assunzione in nero per non si sa quanto tempo. Ha mandato il curriculum all’estero e in un ristorante a Lussemburgo lo hanno chiamato a mostrare cosa sapeva fare, gli hanno dato un giorno di prova (con contratto di un giorno, regolarmente pagato) e poi lo hanno assunto a tempo indeterminato. Ora è uno degli chef principali di uno dei più importanti ristoranti italiani della città.
Nel quale, per inciso, si sono presentati tempo fa quindici membri del Governo, giunti con mezzi propri e senza alcuna scorta, e hanno pagato regolarmente il conto come clienti qualsiasi, non trascurando di salutare e ringraziare tutto il personale prima di andarsene.
DOM on 6 OTTOBRE 2015 15:38
in Germania l’alternanza scuola/lavoro funziona!
Lì i professori sono pagati molto di più perché danno competenze agli studenti!-
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Non solo funziona , permette agli studenti di Guadagnare qualcosa ( circa 350-600 euro) , quindi di non essere completamente sulle spalle dei genitori , allo stesso tempo permette alle aziende di avere personale (anche se non specializzato , con costi ridotti ) che fa´giustamente i lavori che i piu´anziani non vogliono piu´fare ( si chiama gavetta ) . Poi bisogna dire che le eccellenze esistono un po´in tutta Europa , la scuola aiuta sicuramente nella formazione di una persona, ma non tramutera´mai un ronzino in un cavallo da corsa , esistono tanti esempi che si possono fare, Dario fo premio Nobel per la letteratura come anche Eugenio Montale non prese la laurea, Steve jobs quello che a inventato il mac e l´iphone lo stesso Bill Gates non ha mai terminato gli studi ad Harvard possiede una laurea ad honoris.
Puntare tutto sulla teoria potrebbe alla lunga risultare controproducente, non va piu´bene da tempo neanche per la Grecia , che risulta tra i paesi Europei con il piu´alto tasso di laureati , nonostante nel paese non manchino gli ingegneri magari laureati in Italia , Germania o In Gran Bretagna , poi nel pratico per costruire un´aeroporto chiamano i Tedeschi.
Mostruoso O.T. e me ne scuso.
Non sono venuto in linea per una settimana su per giù e non ho potuto partecipare alle discussioni interessantissime che hanno avuto luogo in questo lasso di tempo.
Debbo dire che ho trovato molto intrigante e perfettamente interessante la proposta fatta da Do-o-do-not il 1 ottobre alle 11:23nel thread sulle “Quindici risposte…”
“Cioe’: supponiamo che la speciazione fra le diverse farfalle avvenga in seguito ad accumulazione di piccole mutazioni casuali, seguita dalla selezione naturale. La distribuzione rispetto a N generazioni, per questi processi e’, rispetto alla fitness, una gaussiana simmetrica. Ergo avremo che solo un’accumulazione di diverse parti della coda della gaussiana, dopo N^N ‘generazioni determina una speciazione simpatrica, ed e’ possibile calibrare quindi una frequenza con cui questo accade.
Supponiamo di contrasto che la speciazione avviene con un meccanismo diverso, a piacere. Magari Lamarckiano, magari qualcosa che non mi viene in mente. Ma essendo un meccanismo scientifico e pure deterministico (o parzialmente tale), ha una certa probabilita’ di avvenire o avviene entro certe condizioni.
A questo punto, la distribuzione delle popolazioni a seguito di N generazioni sara’ diversa da una gaussiana simmetrica, sara’ una gaussiana distorta, fino a una funzione a gradino…”
Secondo me questo sarebbe un primo livello di ricerca alquanto facile a fare per chi mastica statistica e vorrei sapere, da Do-or-do-not se conosce qualche pubblicazione concreta al soggetto e se non è il caso perché secondo lui questo non è stato già fatto
Ho già espresso qualche settimana fa ( o mese fa) l’opinione personale che le mutazioni siano come un grande montecarlo dove però il sistema va alla ricerca di un minimo ( o un massimo) stabile: la questione che mi pongo è sapere se prendendo differenti processi di speciazione indipendenti tra di loro, aldilà dell’analisi proposta da Do-or-do-not non sia possibile statisticamente osservare/misurare/simulare convergenze . In altre parole se è possibile falsificare l’affermazione che quel che si chiama selezione naturale non è altro che la (termo-) dinamica che conduce il sistema a detto minimo ( o massimo).
Scusate l’O.T., magari Do-or-do-not potrebbe farci un articolino al soggetto!
Da qualche tempo a questa parte va per la maggiore, tra i pedagogisti, l’idea che la scuola debba effettivamente, in qualche modo, creare competenze. Di qui scaturisce un mainstream pedagogico che mira a una didattica basata su “problem solving”, “cooperative learning” e via discorrendo (di marca prettamente anglosassone, come si evince dal gergo specifico).
Tutto molto buono e giusto, se non fosse che (tra le altre cose) il livello delle competenze si riesce a misurare oggettivamente male, se non per nulla — a differenza di quello delle conoscenze/abilità (che sono strumentali all’acquisizione delle competenze). Come dice Giorgio Masiero, le competenze per svolgere un’attività lavorativa si possono acquisire solo con la pratica, fuori dall’ambiente scolastico. A scuola, quindi, non è sperabile di poter dare una valutazione oggettiva del loro grado di possesso da parte di una persona.
E’ invece possibile valutare oggettivamente il grado di preparazione, vale a dire il possesso delle conoscenze e delle abilità, che sono gli strumenti indispensabili per la formazione e il mantenimento di una qualsiasi competenza.
In breve, io penso che la scuola debba continuare a fornire agli studenti tali strumenti (attività didattica, questa, la cui efficacia è misurabile in corso d’opera), mentre le competenze potranno — e, in generale, dovranno — maturare anche dopo la fine della scuola.