Martin Buber
I periodi dell’ “uomo senza dimora” sono quelli in cui è possibile sviluppare le riflessioni antropologiche.
Un’opportunità per questi tempi
Martin Buber, filosofo viennese vissuto a cavallo tra l’800 e il ‘900, sosteneva che fosse possibile elaborare un’autentica riflessione antropologica solo in quelle che lui definiva “epoche senza dimora” o “epoche senza casa”. Con tale concetto, Buber voleva indicare quei periodi in cui l’uomo si trova smarrito, privo di punti di riferimento, epoche in cui le tradizionali strutture sociali, economiche e culturali vengono meno o sono messe pesantemente in discussione. Per intenderci, secondo Buber, S. Agostino riuscì ad elaborare un’autentica riflessione antropologica proprio perché visse in un’epoca senza dimora, con l’Impero Romano d’Occidente sotto l’assedio dei Vandali di Genserico.
Mi trovo fondamentalmente d’accordo con la tesi di Buber, e per questo motivo credo che la nostra epoca sia perfetta per avviare una seria e nuova riflessione antropologica. Per quanto mi riguarda, infatti, credo che il mondo contemporaneo sia un ottimo esempio di epoca senza dimora, in cui i valori tradizionali, le strutture sociali “classiche” e gli assetti economici che regolano la vita delle persone stanno lentamente (ma non troppo) cambiando. Per non parlare, poi, del mondo del lavoro; i rapidi cambiamenti che stanno investendo la sfera professionale delle persone, creano forte scompiglio all’interno degli apparati sociali di riferimento (sindacati, associazioni di lavoratori, ecc…) e nei lavoratori stessi, che si trovano di fronte ad un nuovo tipo di schema che incide fortemente sui loro diritti, sul loro salario e, di conseguenza, sulla loro vita.
Buber individuava poi la crisi sociologica come fattore preponderante all’interno delle epoche senza dimora, intesa come crollo dei modelli sociali che da sempre costituiscono il pilastro su cui l’uomo fonda la propria esistenza; famiglia, associazionismo, comunità, ecc… Tutto ciò comporta una crisi di identità nell’uomo stesso che, trovandosi privo dei tradizionali punti di riferimento, deve reinventarsi, adattarsi, evolversi; per fare ciò, deve prima di tutto avviare una riflessione sulla sua natura; il modello antropologico, infatti, influenza fortemente l’evoluzione di una società, in un senso o nell’altro. La società prende (o dovrebbe prendere) una direzione a partire dalla considerazione sottostante sull’uomo e sul suo ruolo all’interno del mondo.
Per questo motivo, dal mio punto di vista, è giunto il tempo di riprendere e portare avanti una riflessione antropologica e filosofica che definisca seriamente chi è l’uomo del XXI secolo, momento, questo, che per troppo tempo è stato consapevolmente evitato. Tale riflessione, deve coniugare, contrariamente a quanto avvenuto nel XX secolo, una visione esistenziale ed una visione ontologica dell’uomo. Nel secolo scorso, infatti, si è scelto di privilegiare una riflessione di tipo esistenzialista che, partendo dal presupposto che nulla può essere detto circa “l’essenza” dell’uomo, ha finito col pretendere l’adeguamento dell’uomo alla società, anziché della società all’uomo. Per quanto mi riguarda, una proiezione esistenzialista è ancora fondamentale, perché consente di individuare le specificità dell’esistenza umana e, quindi, di capire come l’uomo possa e debba muoversi all’interno del suo habitat naturale, il mondo; ma tale riflessione non può prescindere da un aspetto prettamente ontologico, portato ad indagare le profondità dell’uomo e del suo essere. Se infatti non cogliamo le specificità dell’essere umano, proprie della sua essenza, non riusciremo neanche a comprende il ruolo dello stesso nel mondo, il suo rapporto con l’ambiente e con l’universo in cui vive ed opera.
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26 commenti
Buongiorno Nicola,
Quali sono le specificità dell’essere umano? Filosoficamente parlando. Ci sono risposte condivise? Grazie.
Buongiorno Max,
la risposta alla sua domanda è proprio quella che, secondo me, occorre trovare. Al momento, dal punto di vista filosofico, non ci sono risposte condivise, tutt’altro. Nel corso dei secoli, la Filosofia ha tentato in più modi e in più fasi di definire l’essere umano, senza aver mai trovato una risposta condivisa. A partire da Socrate, che vedeva l’uomo come essere innanzitutto dotato di anima, proseguendo poi con il dualismo di Platone, passando per Aristotele, il quale individuava nell’uomo due componenti in comune con gli altri esseri viventi (anima vegetativa ed anima sensitiva) ed una componente peculiare (anima intellettiva); successivamente il Cristianesimo ha ricondotto l’uomo ad unità di anima e corpo, pur riconoscendo alla prima un valore preminente. Nel mondo contemporaneo, dal mio punto di vista, nel dibattito sulla specificità dell’essere umano si possono individuare 3 filoni principali (anche se, in realtà, ce ne sono molti di più): quello di matrice cattolico-cristiana, che ha mantenuto sostanzialmente inalterata la posizione dei filosofi patristici e scolastici, che individua una sostanziale superiorità dell’uomo rispetto al mondo animale (il ché, però, non deve fare pensare alla concessione di una “licenza”, da parte della filosofia cristiana, al maltrattamento dell’ambiente e degli animali. Anzi, proprio in virtù di questa superiorità qualitativa, l’uomo, nel Cristianesimo, è custode dell’ambiente); quello scientista-riduzionista, che definisce l’uomo come un comune animale dotato di pensiero, caratteristica quest’ultima che non risulta però sufficiente per affermare una superiorità qualitativa dell’uomo rispetto al regno animale; infine, un filone intermedio, che, pur riconoscendo delle grandi peculiarità all’essere umano, non arriva comunque a definirlo “superiore” al mondo animale, ma semplicemente “avanzato”. Questo è, in maniera chiaramente poco esaustiva (occorrerebbero una serie di articoli ad hoc per snocciolare ed esporre compiutamente tutte le posizioni antropologiche emerse nella storia della filosofia occidentale) il quadro odierno; i tentativi di risposta sono tanti e diversi, quindi non ci sono certamente molti punti di condivisione nel dibattito attuale. D’altra parte, tutte le varie questioni etico-sociali protagoniste del nostro tempo, risentono fortemente dell’impostazione antropologica di chi le affronta; la diversità con cui esse vengono proposte e dibattute, ci fa capire la grande pluralità di posizioni filosofiche in merito.
Penso che la miglior definizione di uomo sia ‘persona’, con tutto quello che la storia di questo termine significhi. Nicola, diamoci del tu, qual è la tua definizione di uomo? Grazie per le tue risposte! Max
Certo, diamoci del tu. Per quanto mi riguarda, io propendo per una definizione “spiritualista” (anche se tale termine non è esattamente appropriato…) dell’uomo. Per me l’Uomo è pensiero, coscienza, libertà e volontà; filosoficamente parlando, quindi, lo concepisco prima di tutto come un ente spirituale, la cui principale connotazione è l’autocoscienza di sé. Da ciò, ne discende che il corpo è la modalità tramite cui l’uomo si manifesta nella realtà fisica. La prima caratteristica, pensiero/autocoscienza, riguarda la sfera dell’essenza umana, mentre il corpo riguarda la sfera dell’esistenza. L’uomo riesce a definire cosa sia il corpo perché è prima di tutto pensiero, coscienza di sé, e compie le sue azioni perché dotato di libertà e volontà. La categoria di “persona”, quella che tu giustamente citavi prima, è quella in cui queste due dimensioni, essenza ed esistenza, si fondono. Per me, quindi, l’uomo è pensiero, la persona (detta molto in soldoni) è l’unione di corpo e pensiero, quindi, in ultima analisi, la manifestazione storico-sociale dell’uomo. Questa è la mia definizione: naturalmente, mi piacerebbe leggere anche i pareri degli altri utenti sulla questione, la mia posizione è assolutamente aperta ad altri contributi ed acquisizioni. 😉 Naturalmente, qui si sta ragionando su un piano prettamente filosofico; sul piano scientifico, le considerazioni fatte in questo commento perdono di significato. Spero di essere riuscito a rispondere alla tua domanda.
La mia definizione di uomo è: scimmia nuda.
Il che non nega necessariamente alcuna realtà trascendente ma anzi ristabilisce il contatto tra uomo e natura, che la rivoluzione agricola e la conseguente nascita della “civiltà” ha spezzato, donandoci tante meraviglie ma anche tantissima sofferenza.
Grazie Luca. Condivido che la nascita della “civiltà” (il virgolettato è d’obbligo…) abbia portato anche a tantissima sofferenza. E sono d’accordo anche sulla necessità di ristabilire il contatto tra uomo e natura. Magari le nostre premesse “ontologiche” sono differenti, ma condividiamo la necessità di recuperare questo indirizzo.
Scimmia nuda mi pare alquanto riduttivo, per non dire riduzionista. Anche perché proprio con la civiltà la scimmia nuda diventa un ricordo e per me questa uscita dallo stato di natura è un bene che caratterizza l’uomo attuale. L’uomo diventa meno dipendente dalla natura, ma resta in armonia con la stessa, come lo sono state le civiltà premoderne. E’ con la modernità che la natura viene svilita e oltraggiata e si perde questa armonia, questo equilibrio che è stato per molti versi ammirevole.
Comunque l’approccio di Nicola mi piace alquanto, ottimo l’articolo, ma ancora meglio gli interventi successivi.
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Bravo! Scritto breve ma incisivo, sentito nel cuore, vero…
Scrivi “Nel secolo scorso, infatti, si è scelto di privilegiare una riflessione di tipo esistenzialista che, partendo dal presupposto che nulla può essere detto circa “l’essenza” dell’uomo, ha finito col pretendere l’adeguamento dell’uomo alla società, anziché della società all’uomo.”
Sottoscrivo!
E, come allo specchio, pur da non credente mi viene in mente una delle cose chiare dette da Gesù Cristo riguardo al sabato: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato…”.
Anche per me, comunque, l’uomo è anima (in tutte le sue prerogative, compresa quella tipica umana) e corpo, ma inscindibili… Detto terra terra, non c’è anima senza corpo.
Grazie mille, Giuseppe e Muggeridge, per le considerazioni e per il vostro apprezzamento. La questione è certamente complessa, l’articolo vuole essere solo una prima idea proprio per stimolare un dialogo condiviso su quella che, per quanto mi riguarda, è una vera necessità del nostro mondo contemporaneo.
Sarebbe bello poter porre delle linee guida su quello che è il senso della nostra esistenza di umani, della nostra specie che davvero ha la prerogativa di essere cosciente di quel che è e che è diventata.
La capacità di astrazione, di immaginazione, di essere riusciti a elevarci al rango della più evoluta specie vivente, anche solo per essere riusciti a elaborare il verso di una poesia, ci fa forse sognare un futuro di gloria, a immagine dell’Onnipotente che abbiamo creato… Io penso che quel futuro di gloria, altra utopia delle tante, sia ben contrapposto e annullato dalle nostre bassezze, infinite debolezze, capacità negative, a cominciare da quella di essere crudeli, capaci di godere del male inferto all’altro…
Se la nostra peculiarità avesse un’origine soprannaturale, come i più la pensano nel mondo, allora davvero anche quel soprannaturale incarnerebbe le nostre debolezze…
Siccome tutto alla fine si rivelerà per quel che è: concatenazione di meccanismi naturali che ci hanno consentito di diventare quel che siamo, anche il domandarsi cose su noi stessi, queste mie stesse parole, non avrà più senso e solo allora raggiungeremo la pace che appartiene a chi è consapevole del non-senso che ci ha originati…
@ Giuseppe Cipriani
Proviamo a mettere un pò d’ordine..che ne pensa?
Lei parla di “origine sopranaturale” e poi dice “si rivelerà per quel che è: concatenazione di meccanismi naturali che ci hanno consentito di diventare quel che siamo”.
E’ evidente che siamo una concatenazione, come dice lei, di meccanismi “naturali”, metto questo termine fra virgolette perchè significa poco secondo me.
Quindi? I due concetti non sono mica antinomici.
Tuttavia le faccio notare che non avremmo il tempo, nella nostra vita, di approfondire nessuna disciplina, che sia la biologia, la fisica, la filologia neotestamentaria, o la storia, per rispondere “razionalmente” alla domanda se la vita abbia senso, ovvero un fine, o meno, figurarci se possiamo avere il tempo sufficiente a collegare successivamente insieme tutte le informazioni che potremmo derivare da queste singole discipline, e distinguere in queste il vero dall’opinabile.
Inoltre se questa fosse l’unica strada, tutte le persone escluse da queste forme di conoscenza, per vari motivi, accidentali o personali, non potendo risolvere tale enigma sarebbero destinati a non poter porsi nemmeno tale domanda sensatamente, in quanto la soluzione sarebbe impossibile….tutto piuttosto sciocco.
La questione è molto più semplice, anche perchè, se così non fosse, Dio escluderebbe dal poterlo conoscere, una fetta considerevole dell’umanità, io direi tutti noi.
Semplicemente Dio è persona e se lo si cerca risponde, non sto parlando di sensazioni, ma di concrete risposte.
Purtroppo non risponde sempre solo Lui.
Parlo per esperienza personale, partendo da una posizione di completo ateismo.
(non militante, perchè un ateo militante lo trovo concettualmente paradossale, un ateo che ritiene la vita non aver senso o fine, non perde tempo a dibattere di alcunchè, proprio perchè lo stesso dibattere su qualcosa, che è illusorio non ha senso…e fra di noi, senza ipocrisie, agnostico è la stessa cosa..).
Così non troverà risposte, mi creda.
La conclusione è la solita, tipica, parossistica e patologica del credente che dice al non credente: mi creda! E quante parole al vento anche lei lancia… E anche quel “Purtroppo non risponde sempre lui” sa tanto di pretesco esorcista… Patetico!
@ Giuseppe cipriani
Giuseppe, questo è un suo problema.
Personalmente di esorcisti ne ho conosciuti due.
Lei?
@ Giuseppe Cipriani
Comunque mi permetto di farle notare che io non le ho scritto: “mi creda per quello che è capitato a me”, potrei anche raccontarglielo, ma non ci si convince per quanto capitato agli altri.
Io le ho detto cerchi lei, e vedrà che le risposte arriveranno a lei.
Del resto questo dovrebbe essere l’atteggiamento di coloro che tante risposte cercano nel metodo scientifico, che per l’appunto è un metodo sperimentale.
ma per un cortocircuito logico costoro, che applicherebbero a tutto questo metodo, non lo fanno rispetto tale domanda.
Paradossale per davvero.
Dal non senso arriva la pace? Arriva più probabilmente l’insoddisfazione. Che uno creda o no in Dio, l’uomo ne ha costituzionalmente un grande desiderio, come scriveva Sant’Agostino. E il laico Montanelli disse:
“Lo confesso: io non ho vissuto e non vivo la mancanza di fede con la disperazione di Prezzolini… Ma l’ho sempre sentita e sento come una profonda ingiustizia che toglie alla mia vita, ora che ne sono al rendiconto finale, ogni senso! Se è per chiudere gli occhi senza aver saputo di dove vengo, dove vado, e cosa sono venuto a fare qui, tanto valeva non aprirli.”
Forse le sfugge la pace del non credente o dell’agnostico spirituale…
Quando leggo cose simili capisco che il cristianesimo non è stato per nulla compreso e pare che nemmeno sia stato letto quel “bigino” dello stesso che sono i Pensieri di Pascal.
E’ proprio il cristianesimo che considera l’uomo come unico, proprio perché capace del male peggiore e del massimo bene, quindi libero di poter agire in un senso o nell’altro. Qui sta la sua grandezza, nella distanza tra l’abisso e la volta celeste, che è maggiore della distanza di questi dal suolo.
Pascal, quello della famosa scommessa… Tenero.
Molto riduttivo rispetto al pensiero di Pascal (la scommessa si trova accennata in una nota dei “Pensieri” e non sarebbe neanche farina del suo sacco…).
Qui, Giuseppe, si apre al puro ambito esistenzialista. Per poter entrare concretamente nel suo discorso, occorrebbe innanzitutto dare una definizione di bene ed una definizione di male, perché parlare di “capacità di godere del male inferto all’altro” presuppone una conoscenza del male. Poste queste definizioni, poi si dovrebbe andare a capire in che modo il male e il bene si traducono nell’esistenza umana (ad es.: le nostre debolezze sono un bene o un male? E il bene è necessariamente assenza di debolezza?). Si dovrebbe infine capire in che modo il bene e il male condizionano un ipotetico senso dell’esistenza, e se la presenza del male, di per sé, costituisca una certificazione del non-senso. Capisce che dovremmo entrare in un contesto differente, facendo tutta una serie di assunzioni senza le quali non potremmo procedere nel discorso. Mi ha comunque fornito degli ottimi spunti, sia per alcune riflessioni personali, sia per futuri articoli, e di questo la ringrazio.
Già, l’esistenzialismo… Che ci rimane di diverso?
E spunti da me ne avrà fin che vuole… Prego.
Fortunatamente ci rimangono anche tante altre cose da cui attingere… Lo stesso Heidegger, uno dei massimi esponenti della corrente esistenzialista, partì in realtà da presupposti ontologici nella sua riflessione. Ad ogni modo, quel Pascal che lei, a mio modo di vedere un po’ troppo frettolosamente, liquida come “quello della scommessa”, è proprio uno dei precursori dell’esistenzialismo…
A mio modesto parere una nuova e significativa antropologia filosofica potra’ essere raggiunta solo se la filosofia moderna sara’ disposta a rivalutare la validita’ delle concezioni del realismo moderato proprie della filosofia tomistica. Indubbiamente la filosofia moderna e contemporanea ha avuto il merito di approfondire diversi aspetti dell’ indagine filosofica ma, purtroppo, ha avuto anche il demerito di cercare di trasformare delle verita’ parziali in chiavi di lettura efficaci dell’ intera realta’. Un tentativo del genere non poteva che fallire e condurre agli esiti del pensiero debole. Come ha giustamente fatto notare Benedetto XVI a partire da Kant si e’ assistito al tentativo di “geometrizzare” la filosofia, di inquadrarla in concezioni universalmente condivisibili, ma l’esito di questo tentativo e’ stato invece fallimentare poiche’ i filosofi che hanno cercato di attuarlo lo hanno fatto pardendo da posizioni razionalistiche. A questo riguardo, per cercare di favorire una sana rinascita del pensiero filosofico, credo siano state date delle indicazioni molto utili ed equilibrate da papa Giovanni Paolo II nella sua importante enciclica “Fides et ratio”.
Grazie per le sue considerazioni, Lucio. Potrebbe spiegarmi meglio la frase “A mio modesto parere una nuova e significativa antropologia filosofica potra’ essere raggiunta solo se la filosofia moderna sara’ disposta a rivalutare la validita’ delle concezioni del realismo moderato proprie della filosofia tomistica.”? Mi interessa molto capire meglio il signifcato di questo recupero del realismo tomista. La ringrazio in anticipo.
Ha ragione sig. Terramagra, nel mio intervento sono stato un po’ troppo sintetico. Mi spiego quindi meglio: Il realismo moderato della filosofia Tomista, per quanto ho compreso, da un lato riconduce l’uomo ad avere una giusta fiducia nella sua ragione, poiche’ questa, se pure in maniera imperfetta, semplificata, gli consente di comprendere autenticamente la realta’ tramite gli universali (contrariamente a quanto affermano i nominalisti, vecchi e nuovi che siano). Nel contempo, pero’, affermando che l’uomo non e’ capace di conoscere il singolare, evita gli eccessi propri di quei filosofi che mostrano una fiducia illimitata nelle capacita’ della ragione umana. Il realismo moderato quindi, valorizzando nella giusta misura la capacita’ umana di comprendere la realta’ puo’ condurre l’uomo, ad indagare in profondita’ anche la propria natura. Basti pensare alla possibilita’ fornita da queste concezioni di dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio e l’ esistenza e immortalita’ dell’ anima umana; per non parlare poi del recupero di valore che consentirebbe riguardo ai principi della morale naturale.
Dicendo tutto questo, naturalmente, come ho gia’ scritto nel mio precedente intervento, non voglio certo affermare che auspico esclusivamente un ritorno alle concezioni tomiste ma, piuttosto, ad una integrazione di queste con le migliori intuizioni proprie della filosofia contemporanea; in una direzione gia’ indicata anche da una studiosa seria e di grande valore come Sofia Vanni Rovighi.
Cordiali saluti!