Catastrofismi di inizio secolo: i rifiuti di plastica nel mare.
Attenzione sì, ma senza allarmismi.
Alcuni giorni fa su Rai 3 è andato in onda uno speciale della trasmissione “Presa Diretta”, dal titolo “Salviamo il mare” in cui si è parlato anche di rifiuti marini. Il servizio si apre sulle isole Maldive, uno di quei paradisi terrestri che l’uomo ha pensato bene di colonizzare e attrezzare per goderne la bellezza.
L’intervistatrice è stata prima accompagnata nella visita di un magnifico resort con appartamenti da 2000 euro al giorno, con vasca idromassaggio, piscina privata e camera da letto vista mare e poi si è passato a trattare il tema dei rifiuti che vengono prodotti in strutture di questo genere. C’è da dire che nel resort sembrano anche ben attrezzati per la gestione e il riciclo dei rifiuti: si sono dotati di compattatori, di mezzi per la differenziazione e per la formazione di compost con gli scarti organici prodotti. Il vero problema, il vero scoop, però è che da quelle parti hanno adibito a discarica a cielo aperto una delle isole dell’arcipelago.
Quest’isola, inizialmente fatta come tutte le altre, da spiagge bianche e palme, è ora interamente ricoperta di rifiuti, in gran parte plastica, che periodicamente a piccoli gruppi vengono bruciati con mezzi molto semplici da un addetto locale, pagato 300 euro al mese, per poter ottenere un po’ di spazio in più.
Il problema dei rifiuti in mare però interessa tutti i mari del globo, per cui dalle Maldive ci si è spostati altrove: dall’oceano aperto in cui è possibile imbattersi in intere isole fatte di bottiglie di plastica che galleggiano e fino al nostro mar Mediterraneo.
Gli autori del servizio ci hanno raccontato di grandi quantità di oggetti di plastica che galleggiano nei nostri mari, di frammenti microscopici pescati nelle acque, morie di tartarughe marine, reti da pesca abbandonate che danneggiano irreparabilmente i fondali. Il problema non è solo “ambientale” ma anche “sanitario”, viene infatti lanciato un allarme sui possibili pericoli per la salute umana dovuto ad alcune sostanze pericolose, contenute nei rifiuti plastici, che rischiano di finire nei pesci che mangiamo.
In perfetta sintonia con il pensiero ecologista dominante, il tutto non poteva che essere presentato come l’ennesima catastrofe ambientale provocata dall’uomo. Eppure basta un minimo di buon senso e qualche dato “serio”, facilmente reperibile, per comprendere che le cose stanno in maniera un po’ diversa.
Partiamo dalle Maldive.
Per questo piccolo paese, un arcipelago in pieno Oceano Indiano fatto di quasi 1200 isole di cui solo 200 abitabili, una componente importante della ricchezza prodotta deriva dal turismo, e dove c’è attività umana è abbastanza scontato che i rifiuti non manchino (la produzione di scarti è intimamente connessa a qualsiasi forma di vita). Come si può affrontare questo problema in un paese con 300 kmq di superficie come le Maldive, circa un quarto della superficie del comune di Roma, situato in mezzo all’oceano?
Si potrebbe pensare di caricare i rifiuti prodotti su delle navi e periodicamente trasferirli in appositi centri di raccolta e riciclo, magari nella vicina India; ma quale impatto avrebbe sull’ambiente marino il continuo traffico di questi mezzi navali, considerando anche che le isole maldiviane sono tutte circondate da pregiatissima barriera corallina? Per non parlare del fatto che trovare un posto per realizzare un approdo di dimensioni adeguate da quelle parti non è una banalità.
Oppure si potrebbe pensare di incenerire i rifiuti come si deve, in impianti di ultima generazione, magari ricavandoci pure un bel po’ di energia elettrica, con costi di realizzazione forse non contenuti e con un impatto paesaggistico da valutare ma con risparmi notevoli rispetto alla produzione di energia e alla gestione dei rifiuti e con impatti ambientali non certo peggiori della discarica a cielo aperto. Ma il governo maldiviano a suo tempo scelse di affrancarsi quasi completamente dalla produzione di energia elettrica tramite combustibili fossili, in ossequio alle teorie sui cambiamenti climatici secondo le quali quelle meravigliose isole sarebbero le prime a scomparire in seguito all’innalzamento del livello del mare dovuto all’aumento della temperatura globale. Figurarsi quindi se possa considerarsi percorribile un’ipotesi del genere.
E allora, in questo contesto quali altre alternative si avrebbero? E’ evidente che la soluzione più immediata, ancorché tutt’altro che ottimale, sia quella di accumulare i rifiuti prodotti da qualche parte e di compattarli.
D’altra parte, da quanto raccontato nel servizio Rai, il problema principale dei rifiuti alle Maldive sembrerebbe essere l’aver sottratto al mare un’isola per farci una discarica, che vi si siano accumulate sopra tonnellate di rifiuti di tutti i tipi e che l’isola diventi sempre più alta per via delle montagne di rifiuti. Invece, nonostante le fumate alte decine di metri che si innalzano dall’isola e che ripetutamente vengono riprese dalle telecamere, praticamente nulla si dice a riguardo del consistente danno che deriva da una combustione approssimativa dei rifiuti accumulati sull’isola incriminata: è ampiamente noto, infatti, che il bruciare i rifiuti in maniera impropria e non controllata porta alla produzione di sostanze molto pericolose, anche per la salute umana, come ad esempio le diossine.
Veniamo poi alle “isole di plastica” presenti in mezzo all’oceano.
L’autore del programma afferma che ogni anno buttiamo in mare circa 8 milioni di tonnellate di plastica e che entro il 2025 questa quantità potrebbe raddoppiarsi. Queste isole si formano in quei punti degli oceani in cui le correnti marine convogliano e concentrano tutto ciò che c’è di galleggiante nelle acque provenienti dai luoghi più disparati, come se le bottiglie di plastica fossero microscopiche gocce d’acqua rilasciate al bordo di un enorme imbuto le quali poi finissero per ritrovarsi tutte al centro dell’imbuto stesso. Ci si potrebbe domandare quindi quanta sia la plastica che finisce in mare.
Nel febbraio di quest’anno è uscito sulla rivista Science uno studio (vedi anche qui) riguardante proprio gli input di rifiuti plastici verso il mare, provenienti da terra. Gli autori affermano che allo stato attuale delle conoscenze non è possibile stabilire con certezza quanta plastica riversiamo effettivamente nei nostri mari ma, incrociando un po’ di dati, è stato possibile stimare un input annuale variabile tra i 4,8 e i 12 milioni di tonnellate; l’80% di queste quantità derivano da appena 20 paesi su gli oltre 190 considerati nello studio e il vettore principale di plastica nei mari è rappresentato dai fiumi.
L’aspetto interessante tuttavia è che tali input, se confrontati con l’entità della produzione mondiale di plastica, valutata intorno ai 275 milioni di tonnellate all’anno, non sembrano poi così consistenti: nella peggiore delle stime, infatti, solo il 4% di tutta la plastica prodotta arriva negli oceani. Lo studio pubblicato su Science, per di più, indica che la quantità di materiali presenti nelle isole di plastica di tutto il mondo, nel peggiore dei casi è stimabile in 270.000 tonnellate, cioè circa il 3% di quella che si stima entri ogni anno negli oceani e solo lo 0,1% di quella che annualmente viene prodotta. Gli studi circa il destino del resto della plastica sono ancora in corso.
E veniamo, infine, ai nostri mari.
L’esperto consultato, professore all’Università di Bari, scrittore e navigatore, scopritore delle isole di plastica ci dice che il problema da noi è che il mar Mediterraneo è un mare chiuso e che quindi la plastica staziona di più che altrove. Affermazione curiosa perché appare difficile immaginare che la plastica si degradi in maniera diversa a seconda se si trovi in un mare chiuso o in un mare aperto come l’oceano; sarebbe forse più intuitivo immaginare che la plastica permanga o si degradi in mare in funzione di altri fattori, come la sua composizione chimica, il tempo di esposizione ai raggi solari o l’agitazione meccanica dovuta alle onde. La cosa è infatti tanto intuitiva che alla fine lo stesso esperto è costretto a riconoscere, con rassegnazione, che “la plastica non muore mai”.
Per fortuna però poi si passa a fornire qualche dato. Correttamente nel servizio viene fatto presente che gli studi sui rifiuti marini in Mediterraneo sono proprio agli inizi ma recentemente Legambiente, con la sua Goletta Verde, ha condotto una prima ricognizione nel corso della quale si sono rinvenuti fino a 27 rifiuti galleggianti ogni chilometro quadrato, il 90% dei quali fatti di plastica. A partire da questi dati, senza avere la benché minima idea se tali valori siano davvero dannosi per l’ambiente marino o meno, visto che se ne sa ancora molto poco, si giunge comunque alla seguente conclusione:
Ripercussioni negative sull’ambiente, sull’economia, sulla fauna marina. L’ingestione di rifiuti è tra le principali cause della morte delle tartarughe marine. Senza contare l’impatto delle microplastiche (i frammenti più piccoli che si generano per degradazione dei materiali ad opera degli elementi climatici) che, ingerite direttamente o involontariamente dalla fauna marina, entrano nella nostra catena alimentare
Sarà forse perché i rifiuti galleggianti, come si dice nel servizio, costituiscono solo il 15% di quelli ritrovati nel mare e che, come sostengono all’Università di Genova, sul fondale dei nostri mari ci sono 40 kg di rifiuti sommersi per chilometro quadrato? Nessuno può dirlo, siamo purtroppo solo nel campo delle ipotesi.
Infine, altro aspetto messo in luce dal servizio di Rai 3 è il rischio che alcune sostanze presenti nei rifiuti riversasti in mare possano risalire lungo la catena alimentare e giungere fino all’uomo. La plastica in mare, infatti, si frammenta in piccole parti e può essere ingerita dagli organismi marini, compresi quelli appartenenti a specie di pesci di interesse commerciale; per questo motivo le sostanze contenute nelle plastiche potrebbero rilasciarsi negli organismi marini e finire poi nel nostro corpo attraverso i cibi. L’attenzione viene posta, in particolare, sugli ftalati (vedi anche qui), usati per rendere più morbidi i materiali con cui sono fatti molti oggetti di plastica, come ad esempio le bambole e i pupazzi con cui giocano i nostri figli. Alcuni studi hanno mostrato che queste sostanze, sono potenzialmente pericolose per il nostro organismo e infatti, in Europa, sono state bandite da tempo soprattutto per la produzione di tettarelle e biberon.
Eppure qualcosa non torna. Gli ftalati, infatti, sono sostanze volatili e in grado di essere facilmente degradate nell’ambiente, tanto più in un ambiente ad “alta energia” come il mare in cui il moto ondoso, l’azione chimica dell’acqua e l’irraggiamento solare in superficie sono molto intensi. Senza contare che i frammenti di plastica delle dimensioni idonee per essere ingeriti dagli organismi marini sono stati esposti a tali azioni per un tempo anche molto lungo. Non a caso quindi, i ricercatori intervistati da Rai 3, affermano di non poter essere ancora in grado di affermare con certezza cosa avvenga lungo la catena alimentare.
Cosa concludere, quindi? E’ certamente vero che i rifiuti marini siano un problema da non sottovalutare: si ritrovano nelle acque, sui fondali, negli organismi marini; i materiali di scarto e gli oggetti rilasciati in mare possono essere veicolo di sostanze chimiche potenzialmente dannose per gli abitanti del mare. Non è tanto meno trascurabile il fatto che la produzione di rifiuti, soprattutto nei paesi sviluppati, è ingente e la loro gestione non avviene sempre in maniera adeguata.
Ma è pur vero che ad oggi siamo lontani dall’avere sufficienti informazioni circa la quantità di rifiuti che sono in mare, che vi vengono immessi da terra, quali siano i loro impatti su questi ambienti e sugli organismi che li abitano. Siamo ancora più lontani dal comprendere se questi rifiuti siano un pericolo per la salute umana.
Prima di lanciare l’allarme di una catastrofe ambientale imminente non sarebbe quindi il caso di approfondire meglio la questione? A Presa Diretta, su Rai 3, evidentemente pensano di no.
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9 commenti
In perfetta sintonia con il pensiero ecologista dominante, il tutto non poteva che essere presentato come l’ennesima catastrofe ambientale provocata dall’uomo.
Beh, gli animali certo non producono plastica…
Inoltre il mio timore è che si sottovaluti una situazione del genere per poi ritrovarsi con la proverbiale patata bollente tra le mani.
Perché ci sono tanti rifiuti? Perché c’è tanta popolazione, si torna sempre lì.
Meno umani, meno rifiuti.
Concordo con Alessandro, l’equazione umani=plastica è fuorviante, è il tipo di scelte che sono state fatte ade essere sbagliate, è la società del consumo a dover essere rivista del tutto.
Pensiamo ad esempio al problema dell’obsolescenza programmata, uno scandalo che paghiamo tutti, sia in termini di spese economiche che di rifiuti.
Basterebbe tornare davvero al vetro o a contenitori biodegradabili come quelli introdotti per le busta della spesa.
..l’80% di queste quantità derivano da appena 20 paesi su gli oltre 190 considerati nello studio e il vettore principale di plastica nei mari è rappresentato dai fiumi.
Ora mi sento di dire che i 20 paesi inquinatori massimi non siano esattamente quelli dove ci sono più bambini..allora io preferirei riportare i ‘vuoti’ al Vini e Oli del rione come facevo da giovanissimo piuttosto che avere una popolazione di vecchi un pò bizzosi e irranciditi….
Sino a pochi decenni fa si pensava che non fosse più necessario l’aumento della popolazione per la crescita economica e lo sviluppo, questo perché si credeva che potesse bastare che tutti consumassero sempre di più. Oggi si tocca con mano come questo approccio non risulti affatto valido, anche perché ci sono dei limiti tecnologici e pratici al consumo sia dei singoli che delle collettività. La riduzione della popolazione porta solo a una decrescita infelice perché rende un’economia asfittica, senza prospettive e quindi sempre più povera e soggetta a squilibri strutturali insostenibili (si veda la questione del welfare) che conducono a scenari futuri inquietanti tanto quanto le catastrofi ecologiche. Al momento non si conosce un percorso di crescita sostenibile nel lungo periodo che non preveda anche un aumento della popolazione. Se il sistema economico rimarrà quello attuale e non ci saranno alternative migliori, che al momento non si vedono, la mossa peggiore sarebbe proprio quella di puntare sulla riduzione della popolazione.
Concordo, la popolazione nei paesi industrializzati è anzi in drammatico calo e gli effetti si sentono, le teorie malthusiane hanno sempre prodotto miseria ma ancora qualcuno (ONU in testa) continua a proporle.
Per approfondire un po’ meglio la questione…
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-e198edb3-f40e-4e5c-b9d2-42608a90d94e.html
Grazie, segnalo anch’io qualcosa.
Sul Corriere della Sera Aldo Grasso denuncia la moda del catastrofismo scientifico su RAI 3:
Mercalli e la scienza raccontata da un profeta di sventure
«L’aspetto interessante tuttavia è che tali input, se confrontati con l’entità della produzione mondiale di plastica, valutata intorno ai 275 milioni di tonnellate all’anno, non sembrano poi così consistenti: nella peggiore delle stime, infatti, solo il 4% di tutta la plastica prodotta arriva negli oceani. Lo studio pubblicato su Science, per di più, indica che la quantità di materiali presenti nelle isole di plastica di tutto il mondo, nel peggiore dei casi è stimabile in 270.000 tonnellate, cioè circa il 3% di quella che si stima entri ogni anno negli oceani e solo lo 0,1% di quella che annualmente viene prodotta. Gli studi circa il destino del resto della plastica sono ancora in corso.»
Il ragionamento vorrebbe concludere che la plastica in mare è solo una piccola percentuale di quella prodotta, invece bisognerebbe concludere che, se già quella piccolissima percentuale basta a creare un isola grande come l’Italia in mezzo al Pacifico, la quantità di plastica prodotta è molto al di sopra di quello che il pianeta può sopportare. Il problema non è che tanta plastica finisca in mare, falso problema a cui si può ribattere che non è vero; è proprio l’eccesso di plastica prodotta, nonostante in mare ne finisca pochissima, il problema che questo ragionamento elude. Gli studi sono ancora in corso che cosa significa? Chi e come decide quando gli studi sono sufficienti per porre la questione come afferente a una potenziale catastrofe ambientale? Per qualcuno il problema deve porsi quando la catastrofe sia già in corso, per qualciun’altro deve porsi con ragionevole anticipo senza per questo dover definire questo secondo punto di vista catastrofismo. Modi di pensare per giudicare i quali non ha senso limitarsi ai dati relativi allo stato del mare. Si deve valutare anche il trend dell’inquinamento che non accenna a diminuire…
Questo articolo voleva affrontare il problema dei rifiuti in mare e non quello più generale dei rifiuti.
La plastica che riversiamo in mare ogni anno è oggettivamente poca rispetto a quella prodotta. È comunque un problema che va affrontato, ma nel più ampio contesto della produzione e della gestione dei rifiuti: se 8-10 milioni di tonnellate di plastica in mare sono un problema, figuriamoci i restanti 260 milioni che restano sulla terraferma, la cui superficie (inclusi deserti e montagne) è solo il 20% di quella terrestre.
Il mio intento era segnalare che sui rifiuti in mare si sa ancora poco: non sappiamo bene da dove vengano, quanti ne arrivano e quali impatti determinano. Siamo solo agli inizi.
Per questo sarebbe bene non lasciarsi andare a facili allarmismi poiché sulla scorta di questi si possono prendere decisioni davvero troppo onerose, decisioni che non sono paragonabili all’entità e alle conseguenze del fenomeno che vogliono risolvere. In campo ambientale, purtroppo, questo è un rischio che si corre spesso.