Raffaello (1508), La scuola di Atene
Che cos’è la filosofia?
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La mia risposta è: “La ricerca della conoscenza del reale, continuamente motivata dallo stupore, realizzata con il metodo dialettico, dove il reale è considerato nella sua interezza”.
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Mi rendo conto che questa (quadruplice) definizione può apparire ai lettori inusuale, sovraccarica, forse anche pedante; però ho pesato le parole ad una ad una e, a mio modo di vedere, non ce n’è una in più, né una in meno. Analizziamone il significato.
1. Ricerca della conoscenza del reale. La filosofia non è contemplazione immediata di ciò che ci appare davanti (di ciò che esiste, è reale): nessun ente offre la conoscenza di sé gratuitamente. Il filosofo sa che la verità dell’essere, nel suo ricco manifestarsi nelle cose del mondo, può risultare velata e che quindi va ricercata con pazienza e con metodo[i]. Il filosofo, con i suoi paradossi, mira proprio a questo: a mostrare come ciò che in apparenza sembra semplice e scontato, ad un esame più profondo risulti complesso ed anche talvolta contraddittorio. In latino la parola “verità” deriva da “verum”, che significa “il fatto reale”: per gli antichi romani, quindi, la verità sembrerebbe darsi dalla naturale coincidenza del discorso con il fatto. Nei greci, invece, la parola verità si esprime con “a-letheia” e significa “disvelamento di ciò che è nascosto”: i greci sembrano dirci che non è sempre facile far coincidere ciò che si dice o si pensa riguardo a qualcosa con ciò che questa cosa è. L’essere autentico si copre di molteplici, talora ingannatorie, sembianze e va scoperto. Forse è per tale prudenza innata nel linguaggio ionico che la filosofia nacque in Grecia e che, anche dopo che la civiltà greca “occupò” Roma, non ci sono stati filosofi romani originali.
2. Ricerca della verità motivata continuamente dallo stupore. Nel dialogo platonico “Teeteto”, Socrate richiama il mito di Iride, dea della conoscenza e figlia di Taumante, il dio dello stupore, per fondare in questo peculiare sentimento umano la filosofia: “Teeteto: ‘Sono straordinariamente meravigliato di quel che sia l’apparirmi davanti di tutte queste cose; e talora, se mi ci fisso a guardarle, realmente ho le vertigini’. Socrate: ‘Amico mio, non mi pare che Teodoro abbia giudicato male la tua natura. Ed è proprio del filosofo quello che tu provi, di essere pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofo che questo; e chi disse che Iride fu generata da Taumante (Colui che si stupisce) non sbagliò, mi sembra, nella genealogia’”.
“Thauma”, la parola greca per “stupore”, “sgomento”, indica un alto grado di turbamento dell’anima: davanti ad un evento inatteso e meraviglioso, in quel momento noi perdiamo la consueta consapevolezza e siamo come pietrificati, abbiamo le vertigini. Non si dà voglia di conoscenza, o filosofia, senza passare attraverso quella passione che è lo stupore. Questa è forse la primigenia sensazione provata dall’autocoscienza ancora confusa d’un infante, il cui primo logos, quando diverrà capace di minimamente articolare una parola, sarà: perché? Poi, man mano che la visione del mondo e della sua cornucopia si accresce, i “perché” del bambino diventano sempre più frequenti; e solo col passare degli anni (ed il sopraggiungere degli affanni dello studio, del lavoro, della famiglia), nell’adulto si diradano nell’assuefazione o scompaiono nella noia, salvo riapparire eccezionalmente di fronte ad un fatto del tutto inatteso. Il filosofo, invece, per sua fortuna, si affaccia alla finestra del mondo sempre con gli occhi di un bambino: non si abitua mai allo spettacolo del policromo multiforme apparirgli degli enti, né si accontenta di contemplarlo, ma vuole conoscerne le cause; e ha sete di sapere i fini che si proposero quelle cause; e perché quei fini e non altri; … fino alla domanda più fondamentale di tutte le domande: perché c’è qualcosa in generale, piuttosto che niente?
“Non si sazia l’occhio di guardare, né mai l’orecchio è sazio di udire” (Qohelet). Quando un filosofo finisce di meravigliarsi, quando ha perduto la gioia dello stupore davanti alla varietà cangiante delle manifestazioni dell’essere, quando pensa di averne imbrigliata l’infinita ricchezza nel suo “sistema filosofico”, allora non è più un filosofo, ma è diventato un professore di filosofia, un impiegato pubblico pagato dai contribuenti per comunicare ai giovani studenti la sua “verità”, la quale non è la realtà quotidianamente rivissuta nello stupore infantile, ma la rappresentazione personalmente codificata della propria esperienza ormai giunta al termine.
3. Ricerca della verità attraverso la dialettica. La molteplicità sempre presente nella storia di correnti filosofiche contrapposte è per me la prova più evidente dell’infinita ricchezza dell’essere, delle innumerevoli prospettive da cui esso può venire ammirato e dell’impossibilità della ragione umana a “comprenderlo” interamente, afferrandolo e contenendolo dentro di sé. Non c’è nessun grande filosofo, nemmeno tra i più lontani nei loro “sistemi” dalla mia visione del mondo[ii], in cui io non abbia trovato intuizioni geniali perennemente vere. La molteplicità del pensiero filosofico non è una manifestazione della miseria della filosofia, ma della ricchezza dell’essere.
Invece, G. W. Leibniz (1646-1716), che oltre a molte altre cose era un matematico ed un filosofo, si doleva (come tutti coloro che anche oggi, per questo motivo, antepongono la scienza naturale alla filosofia…) che tra i filosofi non vigesse la stessa concordia che tra i matematici ed immaginò di risolvere la questione
- con la creazione di un linguaggio universale (“Characteristica universalis”) che, come quello della logica e della matematica, fosse libero da omonimi, sinonimi ed altre possibilità di fraintendimento del significato dei termini; e
- con la costituzione di un gruppo di regole sintattiche di composizione e deduzione delle frasi (“Calculus ratiocinator”) che, ancora come accade in logica ed in matematica, servisse a trasformare il ragionamento filosofico in calcolo e ad evitare liti verbali inutili.
Una volta costruiti l’una e l’altro, scrisse il pensatore tedesco in un famoso passo, “non ci sarà più maggior bisogno di discussione tra due filosofi di quanto ce ne sia tra due persone che fanno un calcolo aritmetico. Sarà sufficiente, infatti, che essi prendano la penna in mano, si siedano a tavolino, e si dicano reciprocamente (chiamato, se loro piace, un amico): calcoliamo!” (“Scritti di Logica”).
Negli anni trenta del secolo scorso, il più grande logico di tutti i tempi insieme ad Aristotele, Kurt Gödel, dimostrò un teorema della logica formale per il quale il calcolo proposizionale del prim’ordine (dove i quantificatori[iii] lavorano sugli elementi del sistema di riferimento, ma non sulle sue parti) è consistente e completo: ciò significa che un discorso composto di proposizioni di questo semplice tipo è formalizzabile e calcolabile, come un’espressione algebrica. E, pertanto, anche eseguibile da un computer. Ma…, purtroppo per Leibniz, appena si passi alla logica del second’ordine (che poi coincide col linguaggio scientifico, per non dire del linguaggio parlato), interviene un altro teorema più recente della logica formale a dichiarare l’intraducibilità di quella proposizione in un algoritmo eseguibile da un calcolatore.
L’ideale di Leibniz è dunque un’utopia irrealizzabile nel linguaggio parlato e nelle stesse scienze naturali.
Dovremmo allora, in nome dell’unanimità e del leibniziano ecumenismo del pensiero unico, rinunciare alla parola viva ed immediata, quella che è coincisa con l’“evento improvviso” (I. Tattersall) dell’apparizione del simbolo nella specie terrestre Homo sapiens e si esprime ogni giorno nella vita reale vissuta dagli umani? o sono comunque possibili nel linguaggio parlato descrizioni del reale tendenzialmente complete, organiche, profonde e coerenti?
Certo, come ci ha insegnato Aristotele, c’è un logos raziocinante che analizza e classifica: esso appartiene alle scienze naturali ed ha per risultato una conoscenza specializzata, vale a dire: la conoscenza di un ente da uno specifico punto d’osservazione. La conoscenza che ci dà questo logos analitico risulta tanto più precisa quanto più è specialistica, come dire: più mi avvicino ad un oggetto da un punto di osservazione, più questo si riduce nelle sue qualità che riesco ad afferrare ad alcune poche, le “affezioni” quantificabili (Galileo). Questo logos scientifico celebra nelle applicazioni della tecnica moderna il suo maggiore trionfo.
Ma c’è un altro logos, da cui il precedente deriva ed è alla fine giudicato: è il logos dialettico, il discorso sul processo del pensiero, anzi il processo stesso del pensiero nella sua immediatezza. Questo appartiene alla filosofia. L’esempio più semplice di dialettica, che abbiamo appreso dai greci, dalla lettura dei dialoghi di Socrate nei libri di Platone e da Aristotele, è ogni autentica conversazione, di un’anima con se stessa o tra due anime, nella quale per mezzo delle parole la vita stessa si riversa come un fiume. Parla Socrate: “Il pensare è un ragionamento che l’anima fa con se stessa su ciò che ella viene esaminando. Bada, come un ignorante io cerco di spiegarti la cosa; ma insomma l’anima, quando pensa, io non la vedo sotto altro aspetto che di persona la quale conversa con se medesima, interrogando e rispondendo, affermando e negando” (Platone, “Teeteto”; evidenziazione mia).
La dialettica è un pensare al ritmo di domande e risposte, ipotesi e tesi, inspirazioni ed espirazioni, distruzioni e creazioni. Nella dialettica ogni oggetto viene esaminato dai più diversi punti di vista, per ogni argomentazione (“tesi”) riguardante una prospettiva si considera anche la validità dell’argomentazione opposta (“antitesi”), e poi si fa “sintesi” degli opposti in una proposizione che non è mai finale, ma punto di partenza di un ulteriore esame dialettico. (La procedura dialettica si svolge nel botta e risposta anche di commenti in questo blog, quando il dialogo è sincero e libero da troll ed intrusioni OT…)
La dialettica non è mai generata dallo sdoppiamento tra la realtà e la parola, tra la vita ed il pensiero, come accade sempre invece, necessariamente, nel logos analitico delle scienze; ma è la capacità d’interpellare e rispondere. Ancora Socrate: “E quello che sa interrogare e rispondere non lo chiami dialettico?” (Platone, “Cratilo”). Né la dialettica si riduce ad astratto esercizio logico della ragione, ma sempre inerisce alla rivelazione stessa, per mezzo della parola, della verità che è vita. La dialettica è la ragione che mira a partecipare alle infinite sfaccettature dell’essere. Nel “Fedro” Platone assimila la dialettica a due procedimenti contrapposti ma complementari: il primo, scrive Platone, è “abbracciare in uno sguardo d’insieme e ricondurre ad un’unica forma ciò che è molteplice e disseminato affinché, definendo ciascun aspetto, si attinga chiarezza intorno a ciò di cui si intenda ogni volta insegnare”; l’altro “consiste nella capacità di smembrare l’oggetto in specie, seguendo le nervature naturali, guardandosi dal lacerarne alcuna parte come potrebbe fare un cattivo macellaio”.
La dialettica è organizzazione logica dello stupore dell’osservatore davanti alle cose.
4. Conoscenza dell’essere nella sua interezza. L’Universo (fisico-mentale-logico) non è una polvere di sabbia, non è un insieme di monadi non interagenti; ma è una struttura organica dove ogni ente, anche piccolo, è connesso ed interdipendente con ogni altro, fosse più piccolo ancora ed il più lontano da quello nello spazio ed il più remoto nel tempo. Nelle scienze naturali, invece, l’avanzamento non può prescindere dalla specializzazione che è focalizzazione sull’oggetto isolato dai “disturbi esterni”, e ciò per definizione del processo pensante del logos analitico (anche se tra le diverse scienze oggi s’invoca una maggiore interdisciplinarità rispetto alla babele specialistica, perché ogni singola scienza ed ogni tecnologia potrebbero trarre vantaggio dall’interazione reciproca). La filosofia, al contrario, adotta un approccio olistico verso le domande suscitate dall’essere, che invitano l’osservatore estasiato a focalizzare l’attenzione non sul singolo ente, ma sui processi e sulle profonde interconnessioni tra più enti; ed evita la semplificazione (che è regola nelle scienze naturali) di modellizzare la soluzione di un problema complesso entro quegli schemi analitici che trascurano tutta una serie di “qualità secondarie” (le “essenze”) dell’ente[iv]. Quest’attività filosofica di collegamento ed unificazione, che è l’aspetto precipuo della razionalità umana, del “logos” (dal verbo greco “legein”: legare, raggruppare, ridurre ad uno), viene perseguita nel suo metodo dialettico: “La prova più importante se la natura di qualcuno sia dialettica o meno consiste nella prova di tale capacità di sentire non solo il molteplice nell’uno, ma anche, al contrario, l’uno nel molteplice, la visione del molteplice come della singolarità. […] Perché chi è capace di una visione integrale è dialettico, e chi non lo è, no” (Platone, Repubblica).
Al suo metodo dialettico la filosofia deve la sua primazia rispetto alle scienze: perché le sue descrizioni del reale puntano ad una spiegazione
- tendenzialmente completa[v], che non semplifica gli attributi dell’oggetto in esame limitandosi ad una sola prospettiva di osservazione, ma tende all’opposto a moltiplicare le prospettive;
- organica, che non isola l’oggetto da tutto il resto dei mondi, ma all’opposto mira ad integrarne le relazioni con tutti gli altri oggetti;
- profonda, che non si ferma all’apparenza immediata, e nemmeno all’evidenza sensoriale e sperimentale, ma gratta sotto i diversi strati della superficie dell’apparire; e
- coerente, perché tutte le descrizioni multi-prospettiche, multi-relazionali e multi-strato contenute nella spiegazione dell’oggetto non devono contraddirsi.
Oggi, per effetto della potenza pervasiva assunta dalla tecnica nella vita umana, va di moda il logos analitico: lo scienziato viene interpellato su tutto, e paradossalmente, quanto più specialistiche e ristrette sono le sue conoscenze, tanto più numerose sono le aree dello scibile su cui è interrogato. Così, il grande oncologo pontifica sui problemi dell’etica, dell’eudemonologia o dell’energia; un chiassoso logico emette giudizi sulla religione come si trattasse di teoremi del suo orto di studio; il cosmologo in ritiro scrive libri d’ingenua metafisica. Con ciò non intendo affatto mettere in dubbio la validità e l’utilità delle scienze naturali, teoriche e applicate, che sono enormi oggi e destinate a divenirlo ancor più nel futuro; al contrario, mi propongo di difendere il loro prestigio dalle contaminazioni sofistiche. Scienze e tecnica sono beni troppo preziosi perché l’incauto filosofare di uno scienziato-tuttologo si rifletta in una loro disistima.
Ma infine, “la logica interna dell’attività scientifica non è qualcosa di vitale; quella della cultura, invece, sì. La scienza non presta attenzione alle nostre urgenze, ma segue la strada delle sue specifiche necessità” (J. Ortega y Gasset, “Misión de la Universidad”). Per questo la scienza non muove l’anima, la filosofia (in tutte le sue parti: metafisica, etica, estetica, …) sì.
[i] Nell’antico mito, Isi, la dea della Natura, è ricoperta di molteplici veli, che vanno ad uno ad uno sollevati per poterne scoprire i segreti.
[ii] Tra questi, mi vengono in mente: Epicuro, Gorgia, Plotino, Machiavelli, Hobbes, Locke, Hume, Berkeley, Lamettrie, Diderot, Kant, Fichte, Hegel, Feuerbach, Marx, Compte, Schopenhauer, Kierkegaard, Carnap, Nietzsche, Freud, Heidegger.
[iii] I quantificatori sono due: il quantificatore universale (Per tutti gli x tali che… vale la proposizione x è…) ed il quantificatore esistenziale (Esiste nell’ambiente y un x tale che x è…).
[iv] In una data scienza naturale, i “disturbi esterni”, le “qualità secondarie” sono quelle proprietà dell’ente che, per definizione di quella scienza, non rientrano nella sua prospettiva di osservazione.
[v] Nessuna descrizione del reale può essere “effettivamente completa”, come pretende l’idealismo, perché le manifestazioni dell’essere sono infinite.
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29 commenti
Grazie Giorgio, con articoli come questo la TA merita pienamente il suo nome. Quando inevitabilmente qualcuno riproporrà l’argomento ci sarà questo articolo a spiegare esaurientemente il ruolo della filosofia e quello della scienza.
Grazie a te, Enzo, per avere aperto con la realizzazione di CS la possibilità di un sogno: quello di un’ “agorà” (potenzialmente globale), come fu un tempo la Scuola di Atene, dove dibattere le frontiere della ricerca contemporanea, senza steccati disciplinari e con la serietà che appartiene ai diversi metodi di studio, in una permanente tensione all’interdisciplinarità.
Questo è uno spazio che manca nella cultura di oggi, divisa tra la massa di paper delle riviste ultraspecialistiche da un lato, e il vuoto della cosiddetta divulgazione scientifica dall’altro lato, sempre più prigioniera della fantascienza e del sensazionalismo.
Come non ricordare, in controluce a questo splendido articolo, quanto vanno giocondamente (e senza costrutto) sostenendo certi “maître à penser” nostrani, secondo cui «gli unici discorsi che val la pena affrontare sono quelli scientifici, gli altri sono privi di consistenza»…
… senza accorgersi che la proposizione “gli unici discorsi che val la pena affrontare sono quelli scientifici, gli altri sono privi di consistenza” non è un’asserzione scientifica, ma filosofica di tipo valutativo e con intento normativo!
Di fronte all’insuperabilità di questa contraddizione logica il neopositivismo è morto in filosofia (dove lo trovate oggi un filosofo di questa corrente?!) e sopravvive, per la naturale inerzia con cui le masse ripetono per ancora 50 anni i refrain ormai abbandonati dalle elite del pensiero, presso quella quella volgarizzazione del positivismo che oggi si chiama scientismo.
Grazie, Michele. Magari cmq si trattasse solo di di sofisti “nostrani”, temo invece sia una malattia diffusa in tutto l’Occidente e che ne rappresenta la crisi profonda…
bellissima e necessaria questo intervento Giorgio, la tua definizione di filosofia è strepitosa e me la rivendo di sicuro 😉 Solo un piccolo appunto (da romano) e cioè che intanto non è vero che la latinità non abbia dato grandi filosofi (è uno dei tanti luoghi comuni che deriviamo dall’idealismo tedesco), pensiamo solo a Seneca (lo stoico di gran lunga più interessante) e, in era cristiana l’immenso S.Agostino che è imbevuto di ‘latinitas’..quanto al ‘verum’ la parola in latino condivide la stessa origine di ‘vergogna’ e del suo plurale ‘vergogne’ quindi per estensione gli organi genitali e coglie una dimensione unica e cruciale della verità: il fatto che ci faccia arrossire, che l’uomo insomma non la riesca a contemplare senza abbassare gli occhi e che il sacro confini con l’erotico. Insomma è quando siamo nudi che siamo di fronte ad una verità innegabile….Pavel Florenskij nel suo bellissimo ‘La Colonna e Il Fondamento della verità’ edito da S.Paolo fa una disamina della parola ‘verità’ in diverse lingue e chiarisce molto meglio di me (che ho citato a memoria dal suo libro) questo concetto….
Grazie, Alessandro, per il tuo riferimento molto interessante a Florenskij. Quanto alla mia osservazione sui filosofi romani, avevo sperato di scansare le osservazioni critiche aggiungendo l’aggettivo “originale” a mitigazione del concetto, come a dire che Roma non ha avuto produttori di “sistemi” filosofici (alla Democrito o Parmenide o Platone o Aristotele ecc.), ma con un romano verace come te non è bastato…! Sulla grandezza di Seneca e Agostino sono del tutto d’accordo con te.
Che ebrezza toccare i fili scoperti di “una questione senza il limite del tempo”
Mai dubitando della Sua Onestà Intellettuale.
Strano(strange)è constatare la mancanza di un Alter Ego ai Suoi curati articoli.
Nessuno soffre più di me, stò, per la mancanza di un vero contraddittorio in “ogni” occasione, non solo qui su CS. Io lo attribuisco alla grande ignoranza filosofica (in particolare epistemologica e metafisica) che c’è nel campo “avversario”, prigioniero dello scientismo, ovvero dell’assurdità logica ricordata da Forastiere qui sopra.
Ti ricorderai per es., stò, che un nostro assiduo lettore e commentatore, di nome Giuseppe, era qui approdato con una fiducia illimitata nella scienza naturale e irridendo inizialmente ai miei richiami di distinguere in ogni questione il metodo scientifico da quello filosofico; e che poi, quando si è finalmente accorto dell’importanza della filosofia, ed in particolare di essersi lui stesso in tutti i suoi interventi limitato a filosofare, allora ha fatto harakiri, autobannandosi dal sito. Ovvero rifuggendo il confronto, con una perdita per lui ma anche per tutti noi.
Qualcosa si muove anche nel campo avverso,e poi con articoli simili come si può rimanere indifferenti?
Fingere di non avere di fronte un degno avversario?Per quanto tempo ancora?
ps.permettimi di ringraziare Giuseppe per la sua voglia di spaziare in varii campi dello scibile,anche se con evidenti difficoltà.
Il confronto con un Professore come Lei(tu)credo in ogni caso gli sia stato prezioso.
“La molteplicità sempre presente nella storia di correnti filosofiche contrapposte è per me la prova più evidente dell’infinita ricchezza dell’essere, delle innumerevoli prospettive da cui esso può venire ammirato e dell’impossibilità della ragione umana a “comprenderlo” interamente, afferrandolo e contenendolo dentro di sé. Non c’è nessun grande filosofo, nemmeno tra i più lontani nei loro “sistemi” dalla mia visione del mondo, in cui io non abbia trovato intuizioni geniali perennemente vere. La molteplicità del pensiero filosofico non è una manifestazione della miseria della filosofia, ma della ricchezza dell’essere”.
Concordo perfettamente con lei Prof. Masiero, la sua e’ una considerazione onesta e profonda. A questo riguardo mi sembra utile ricordare un episodio molto significativo avvenuto ad uno dei filosofi che stimo di piu’ in assoluto: S. Tommaso d’ Aquino”.
“Il 6 dicembre 1273 gli accadde un fatto strano, mentre celebrava la Messa, qualcosa lo colpì nel profondo del suo essere, perché da quel giorno la sua vita cambiò ritmo e non volle più scrivere né dettare altro.
Ci furono vari tentativi da parte di padre Reginaldo, di fargli dire o confidare il motivo di tale svolta; solo più tardi Tommaso gli disse: “Reginaldo, non posso, perché tutto quello che ho scritto è come paglia per me, in confronto a ciò che ora mi è stato rivelato”.
Voglio inoltre chiudere questo mio modesto intervento con una domanda un po’ provocatoria: spesso gli articoli che trattano di darwinismo provocano dei confronti molto accesi, perche’ non accade lo stesso anche per questo articolo? A mio avviso cio’ accade perche’ la filosofia moderna e contemporanea si e’ grandemente allontanata da una sana concezione realistica, ed e’ quindi divenuta per la maggior parte della gente una disciplina oscura, complicata e poco utile, in grado di affermare contemporaneamente tutto e il contrario di tutto. La filosofia sembra quindi avere perduto la capacita’ di adempiere al compito per il quale era stata pensata: condurre l’uomo verso la comprensione della verita’.
E’ vero, Lucio, che gran parte della filosofia contemporanea, avendo perduto il solido ancoraggio al realismo, è diventata prima ancella della scienza naturale e poi un crogiuolo di ideologie.
Quanto al fatto che il darwinismo susciti accesi dibattiti e feroci reazioni ogniqualvolta se ne metta in discussione qualche aspetto dimostra a mio avviso una sola cosa: che esso non è biologia, né qualsiasi altra scienza naturale, ma solo una concezione filosofica di vita, invitabilmente destinata – come bene mette in chiaro ogni giorno Pennetta – ad integrarsi in tutti i suoi aspetti (sociali, economici, etici, ecc.).
Grazie dell’articolo molto bello.
Riflettevo sulla capacità umana di ‘capire’ la verità e ‘dimostrarla’.
A me sembra però una capacità deludente: sempre più spesso risulta impossibile giungere a qualunque conclusione definitiva su qualsiasi argomento (a parte forse la maggioranza della matematica/geometria). Come dire: ora basta, su questo non c’è nessun dubbio, è una certezza; su questo, da qui possiamo andare avanti.
Passi sulla Verità, ma anche sulle verità più prosaiche, troppo spesso non c’è dimostrazione/prova che tenga, arriva sempre qualcuno che non è convinto e solleva dubbi o addirittura ribaltamenti totali.
Alcuni esempi banali: darwinismo, farmaci, clima, storiografia, perfino sulla testimonianza oculare dei cromatismi… non esiste una sola dimostrazione assoluta che obblighi l’interlocutore ad accettare il fatto com’è. Indizi, verosimiglianze, probabilità, intuizioni.
Come ricordava il prof. Masiero, non c’è neppure una sola affermazione della scienza che possa dare alcuna certezza! Aggiungerei anche la filosofia, che ampliando il campo a una visione olistica della realtà ne amplia anche le infinite varianti di spiegazioni. E questo lo si vede nelle continue dispute dialettiche che non hanno mai fine.
Questo porta a un’incertezza costante su tutto (e oggi questa è una caratteristica pregevole, esaltando il dubbio e il relativismo).
Sia chiaro: non disprezzo la bellezza della dialettica, della discussione, del progresso della conoscenza. Ma sarebbe utile arrivare anche a delle conclusioni condivise in senso assoluto, da cui poi andare avanti. E più passa il tempo, più dovrebbero aumentare: invece accade esattamente l’opposto.
Illusorietà della conoscenza? Chi più sa meno sa?
Come mai abbiamo questa difficoltà a penetrare le verità? Ma soprattutto la capacità di dimostrarle (in modo definitivo) anche se parzialmente. E’ dunque impossibile la dimostrazione? E di conseguenza la conoscenza (parziale) della realtà?
Ricchezza dell’essere o Babele? Probabilmente entrambe.
Il vero, come il giusto ed il bello, è un trascendentale dell’Essere, presente imperfettamente nelle creature: “Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto” (I Cor. 12).
La perfezione della verità non ci è data, ma questo non implica il relativismo, perché chiunque ricerchi onestamente la verità può avvicinarvisi. La scelta fondamentale è tra il Logos ed il caso, tra il Senso e il non senso, tra la Verità e l’utile: “Ora dunque queste tre cose durano: fede, speranza, amore; ma la più grande di esse è l’amore” (I Cor. 13).
Sì certo, sulla Verità sono d’accordo, si riesce a sfuggire il relativismo. Quelle frasi di S. Paolo si riferiscono a Dio e alla conoscenza (imperfetta) che abbiamo di Lui ora.
Alla fin fine, la Verità su di Lui, più che trovarla o capirla, dobbiamo accettarla, ed ecco il senso di aver ricevuto una Rivelazione e quindi una Fede. Fede che non va contro la ragione, ma la supera, anche per mancanza di conoscenza appunto.
Quello che però mi lascia perplesso è piuttosto l’incapacità dell’uomo di ‘dimostrare’ relativamente alle verità. Quelle materiali per intenderci.
Insomma, da tutto questo studio millenario di miliardi di uomini, mi aspetterei un aumento di certezze, magari poche e limitate, e invece si constata una sempre maggiore confusione e incertezza.
Sì, è innegabile il progresso di conoscenza scientifica, ma proprio oggi ci si accorge che ciò che si era capito a un primo livello superficiale (e che ci è stato infinitamente utile sapere per progredire nella tecnica), ha molti altri livelli più profondi che potrebbero ribaltare parecchie ‘conoscenze’ passate.
Come diceva lei, fino ad oggi c’era un tipo di spiegazione del mondo con la fisica classica, adesso sembra cambiare parecchio con la MQ, fra secoli chi può dire quanto rideranno delle nostre ‘dimostrazioni’?
Ma appunto, abbiamo la capacità di ‘dimostrare’? Nel senso assoluto del termine: questa cosa l’abbiamo capita e non ne parliamo più.
E non è cosa da poco, in quanto la dimostrazione è tutto ciò che abbiamo. Non ci sono altri modi per poter convincere e tramandare ad altri ciò che abbiamo capito.
La cosa ancora più disarmante è il non riuscire a eliminare i dubbi anche nelle cose più banali della vita, non solo relativamente alle complicate leggi fisiche del mondo…
“La cosa ancora più disarmante è il non riuscire a eliminare i dubbi anche nelle cose più banali della vita, non solo relativamente alle complicate leggi fisiche del mondo…”
Non intendo non riuscire a prendere posizione e quindi farsi delle idee precise, ma proprio l’impossibilità di dimostrarlo agli altri in modo incontrovertibile.
Mi permetta, frank10, di non condividere il Suo pessimismo. Pluralismo su alcune questioni e conoscenza imperfetta (ma sempre perfettibile) non significano ignoranza perfetta, tanto più che su questioni fondamentali (come quelle dell’etica) un comun denominatore è rinvenibile tra gli uomini di buona volontà.
Il problema con la procedura della “dimostrazione”, che a Lei tanto piace, l’ha messo in evidenza Aristotele negli Analitici Secondi: la dimostrazione (diànoia) è il procedimento logico con cui da alcune assunzioni si derivano delle conseguenze. Però la verità delle conseguenze dipende dalla verità delle assunzioni, e queste assunzioni gli uomini le scelgono sulla base dell’intuizione (il nous di Aristotele)! E come possiamo essere certi della verità delle nostre intuizioni?
In aritmetica e geometria euclidea le assunzioni (i postulati) “sono così evidenti che non accettarle implicherebbe la rinuncia a ragionare” (Tommaso), per cui tutti considerano i teoremi dell’aritmetica e della geometria campioni di verità. Bene.
In scienza naturale, la “veridicità” (ovvero la verità parziale, approssimativa, ma sempre migliorabile) delle assunzioni è controllata sperimentalmente dalle loro predizioni. La legge di Newton si è rivelata incredibilmente veridica per 250 anni a spiegare le 3 leggi di Keplero, la balistica terrestre o le maree. Sbagliava (di poco, di meno dell’1 %) la precessione del perielio di Mercurio dove prevedeva 1,543 gradi/sec a fronte del misurato 1,555. Poi è venuta la relatività generale di Einstein che prevede il valore esatto 1,555, anche se sappiamo che è sbagliata su alcuni altri fenomeni. La MQ prevede un momento magnetico dell’elettrone pari a 0,00115965216, mentre il valore sperimentale è 0,00115965218: non Le pare meravigliosa la veridicità della MQ? Anche questa va aggiustata su alcuni punti, e domani lo si farà: secondo il motto di Tommaso “Paulatim et quasi pedetentim in cognitionem veritatis”. Bene, direi.
In metafisica, come Le dicevo, alla fine la scelta intuitiva è tra il Senso ed il non senso, tra il caso e il logos. Questa è la scelta dell’assunzione fondamentale da cui ogni uomo deve sviluppare il processo dimostrativo per la sua Weltanschauung. Qui si gioca la libertà umana.
In etica, lo spiegavo oggi a mio figlio che lavora negli UAE e si trovava di fronte ad una scelta morale difficile nei confronti di una persona, l’assunzione fondamentale non è difficile da capire. Non fare agli altri ecc. La giusta decisione che devi prendere è facile, gli ho detto: scambiandoti con lui, che cosa vorresti che l’altro decidesse nei tuoi confronti?
“La giusta decisione che devi prendere è facile, gli ho detto: scambiandoti con lui, che cosa vorresti che l’altro decidesse nei tuoi confronti?”
“Non fare agli altri “
Perdonatemi una nota,anche se all’apparenza,per alcuni, possano sembrare la stessa cosa,,l’amare il prossimo come sé stessi(in cui ogni parola è importante),è ben differente dal confucianistico “non fare agli altri ciò che vorresti non venisse fatto a te”o il rabbinico “non fare al prossimo tuo ciò che è odioso a te, questa è tutta la legge” assi più prossimi all’errore e non così buoni come si possa pensare..
In uno c’è il classico ‘se io fossi mi piacerebbe’(quindi il fulcro sono io)nell’altro il fulcro si sposta sull’altro indipendentemente da me
Volevo sottolineare questa cosa.
Il secondo comandamento di Gesù è rivoluzionario, Leonetto, e non possiamo sperare di fondare su di esso un’etica “naturale”, tra tutti gli uomini di buona volontà (non solo tra i cristiani), com’era quella cui io mi riferivo nel dialogo con frank10.
Nella ricerca di “verità” etiche, valide per tutti, io penso che la condivisione della versione confuciana sarebbe già un passo avanti contro il relativismo etico.
“Amare il prossimo come sè stessi” è comunque ancora un comandamento ebraico dell’Antico Testamento.
Aggiungerei il perfezionamento dello stesso dato da Gesù: “Amatevi come Io vi ho amato” cioè fino a dare la vita che è molto di più.
Un’altro aspetto da tenere presente è che quel comandamento non è scindibile (e in questo sta la difficoltà-impossibilità di renderlo adatto a tutti) dal precedente: “Amerai il tuo Dio con tutte le tue forze…”
Se si prende solo il primo si cade nel rigorismo verso il prossimo in stile ebraico, se si prende solo il secondo è irrealizzabile per mancanza di quell’amore che da sè non si riesce a tirar fuori per un prossimo che il più delle volte non è certo amabile.
Un’ultima riflessione: come giustamente notato da Leonetto, il confucianesimo e anche il buddismo presentano l’aspetto del ‘non fare’, quasi una conseguenza di quella ricerca di impassibilità dal mondo per cui è meglio non farsi coinvolgere, non agire.
Il cristianesimo, all’opposto dice: ama il prossimo, fa’ agli altri, è un invito ad aiutare chi ci è vicino. Anzi più ancora, Gesù ribalta la domanda capziosa del fariseo “Chi è il mio prossimo” in: sii tu il prossimo degli altri.
Come dice Giorgio anche solo questo nuovo concetto evangelico è rivoluzionario. E’ il mondo che è indietro in quanto a progresso umano…
Mah, non è che a me piaccia tanto la dimostrazione. Anzi ho sempre sostenuto che il dover dimostrare qualcosa è proprio l’accettazione della nostra incapacità di vedere/capire la realtà, come infatti i geni la vedono/intuiscono a differenza degli altri e hanno difficoltà a fargliela capire.
E’ solamente che non vedo altri modi di tramandare la conoscenza in modo convincente.
Proprio l’ignoranza e la continua mutevolezza delle assunzioni (dovuta anche all’aumento della conoscenza stessa) rendono impossibile la dimostrazione in senso assoluto. E’ tutta un’opera di revisionismo.
Tutto giusto quello che dice, però è abbastanza disarmante pensare che un tempo un tavolo era considerato solo un blocco di legno bello solido, mentre poi si è passati a sapere che in realtà è quasi tutto vuoto ed è formato da atomi che si attraggono, un domani magari si dirà che sono solo onde o chissà cos’altro.
Oppure la frase “credo solo a quello che vedo” quando si pensava che ci fosse solo materia. E oggi, se sono vere le assunzioni sulla materia/energia oscura, si ribalterebbe nel suo opposto, dato che la maggior parte dell’Universo sarebbe composta da ciò che non riusciamo nè a vedere né a misurare. Per non parlare della stessa materia, vuota al 99%.
Bè ne passa di differenza, non è solo l’aumentata precisione di qualche cifra decimale.
Una volta c’era solo ciò che si toccava, poi siamo scesi alle molecole, agli atomi, agli elettroni e sempre credevamo di essere arrivati e invece sempre più giù, quark, bosoni etc etc
Sembra di essere dentro a delle sabbie mobili: più ci muoviamo più sprofondiamo.
Solo che coll’aumentare dei livelli di complessità, aumenta esponenzialmente la difficoltà di capire e indagare. Basti pensare all’enorme e costosissimo LHC per cercare di avere indizi su un solo famoso bosone…
E il tempo necessario per istruirsi parzialmente sul già conosciuto occupa già 1/2 (e più) della vita…
Per non parlare dell’estrema fragilità del sistema di trasmissione della memoria dei dati acquisiti: basterebbero pochi decenni per dover ripartire da zero!! (Un incubo)
E non solo, mentre una volta gli esperimenti e le teorie erano piuttosto ‘concreti’, ora siamo andati sul ‘virtuale’, sulle simulazioni, mi pare che ora si stia passando sempre più a un intreccio con la metafisica: la MQ (per quanto poco la conosca) ha molti aspetti che non mi sembra siano esclusivamente scientifici/dimostrabili, anche solo il fatto dell’interazione con la coscienza.
Non è necessariamente un male l’interdisciplinarietà dei campi, però a questo punto si potrebbe proprio cadere nel campo dell’opinabile e non del dimostrato.
Cambiando settore, un solo esempio tra i tanti: c’è chi sostiene l’impossibilità di dimostrare che Napoleone sia veramente esistito e ancora quando c’era memoria fresca di lui, figuriamoci fra 2 millenni (come hanno fatto con la mitizzazione dei testi biblici su Gesù). Insomma c’è anche il fattore tempo: se non siamo in grado neppure di essere certi di dimostrare chi è esistito sulla terra, nonostante sia personaggio famosissimo…
Un’ultima osservazione sul pessimismo: non è che sia pessimista, forse è proprio l’uomo (decaduto) che non è fatto per questo tipo di attività così ‘precisa’. E forse è un disegno provvidenziale il non riuscire a comprendere appieno la realtà: visto cosa siamo in grado di fare, forse non siamo capaci di sostenere il peso della conoscenza completa, per il nostro bene e dell’Universo stesso.
La filosofia è la “disciplina della vita vista con gli occhi di un santo moribondo” (Barzaghi OP).
Grazie Giorgio per questa sua riflessione.
Grazie a Lei, minstrel: potrebbe, per me e tutti i lettori, commentare la definizione della filosofia di Barzaghi? Grazie.
Farò di meglio, faccio spiegare direttamente a lui e in mp3! 🙂
http://www.accademiadelredentore.it/blog-it/%22Cos%27e%27-la-filosofia%22-Filosofi-si-nasce-o-si-diventa.-Primo-incontro,-5-novembre-2009-230.html
Prima di quattro lezioni/conferenza (con dibattito finale) dedicati proprio a “cos’è la filosofia” fatte nel 2009 a Milano.
Le consiglio tutte perché a mio avviso sono di una sintesi efficacissima e soprattutto sono dettate da un amore e una passione per il pensiero, quale unica azione INFINITA presente nell’uomo, davvero straordinaria.
Qui la home delle quattro lezioni.
http://www.accademiadelredentore.it/blog-it/%22Cos%27e%27-la-filosofia%22-Filosofi-si-nasce-o-si-diventa.-4-incontri-229.html
Se ho tempo riascolto la prima e tolgo gli elementi principali per spiegare questa sua definizione, ma è talmente profonda la lezione che sarebbe come sminuirne la portata.
Ancora grazie e buon cammino!
La ringrazio moltissimo, minstrel, dei Suoi link. Dei quali farò buon uso, beandomici.
Qualche volta, leggendo l’ignoranza filosofica e metafisica di tanti docenti di materie scientifiche (che Einstein chiamerebbe “tecnici” ma non “scienziati”), mi chiedo come sia possibile questo decadimento culturale nella nostra scuola e nelle nostre università. Una risposta l’ho trovata spesso nei loro curricula di studio: prima dell’università (e quindi del tuffo nella “scienza”) non hanno fatto il liceo (dove si dà una cultura classica e integrale), ma hanno frequentato una scuola tecnica o addirittura professionale…
Che una radice del decadimento sia nell’apertura incondizionata delle facoltà ad ogni tipo di scuola media, intervenuta con la riforma scolastica degli anni 70?
“Rem acu tetigisti”. Ho l’impressione che qui si sia toccata una delle verità politicamente scorrette che vanno negate a ogni costo. (P.S., io ho fatto il Classico ma la filosofia non l’ho mai mica tanto digerita …)
Il politically correct, il pensiero unico, il conformismo, ecc. e’ la morte della ragione. E quindi della filosofia. Grazie, Klaus.
Non c’è di che, grazie per questo sito straordinario!
(P.S., solo per essere pignoli: la Legge Codignola è del 1969)
Grazie a lei Klaus, il valore del sito è legato al livello di chi interviene.
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