Thomas Cole (1830), Niagara Falls
Il programma sublime
di Giorgio Masiero
Nella “Critica del giudizio” (1790), Immanuel Kant esamina i problemi dell’ordine e del fine in Natura, distinguendo nel giudizio estetico il bello dal sublime. Noi percepiamo il bello quando uno spettacolo della Natura ci si presenta in armonia con la nostra sete di libertà: allora ci compiacciamo in un sentimento che esprime l’incontro felice del sensibile col razionale. Esistono però alcuni fenomeni (la violenza d’un uragano, l’immensità del deserto o dell’oceano o del cielo, la profondità d’un abisso, l’energia d’una grande cascata, ecc.) davanti ai quali sentiamo l’impossibilità dell’intelletto ad adeguarsi alle cose. Siamo allora in presenza del sublime, dal latino sub limine, oltre la soglia (del portabile umano). Mentre nella contemplazione serena del bello il piacere è connesso alla qualità dell’oggetto ammirato, nella vertigine estatica del sublime il sentimento ci proviene dalla sua quantità illimitata. Davanti al sublime, la nostra ragione si sente impotente a cogliere il significato profondo della Natura e si apre all’infinito e all’assoluto. Questa apertura è un’emozione estetica, non un predicato razionale, ma ci dà l’intuizione di trovarci possibilmente di fronte all’indecidibile. Nel sublime anche, dopo la percezione della nostra piccolezza con sensi di smarrimento e frustrazione, in un sussulto di razionalità ci riconosciamo comunque superiori al resto della Natura, stante il nostro essere umani, cioè le uniche creature dotate di autocoscienza e capaci così di trascendere la Natura ed ogni sua potenza.
Da giorni medito sul genoma con “giudizi riflettenti” (direbbe ancora Kant), ovvero non puramente razionali, ma tendenti a stabilire un accordo tra il razionale ed il sensibile. Ti confesso, lettore, che più mi addentro in questo fenomeno della Natura vivente, che interseca la biologia con la chimica e la cibernetica, più provo nelle viscere la consapevolezza di stare in presenza del sublime, per la complessità terrificante dell’oggetto che sembra annullarmi come essere razionale.
La necessità razionale dell’esistenza del programma genetico
Cominciamo con chiederci: esiste davvero un programma informatico contenuto da qualche parte negli organismi (vegetali, animali e umani), simile ad un programma lineare digitale della cibernetica, dove esso controlla l’azione di macchine? Pongo la domanda perché da qualche tempo, forse per lo sforzo persistentemente vano a trovare un modello dell’abiogenesi, si alzano voci dubitative o almeno riduttive nel composito campo darwinista. Ebbene, se non si crede che il pero nasce dal seme della pera per caso, e così il gattino dall’ovulo fecondato della gatta e il bambino dalla donna, essendo solo una fortunata serie di eventi ciechi a selezionare di seguito per settimane i 10 ^24÷10^25 atomi che compongono la struttura ordinata dell’individuo biologico; se non si può razionalmente credere ciò, si deve ritenere necessario razionalmente, prima ancora che da ricercare scientificamente, che nel seme o nell’ovulo fecondato d’una specie esistono già le istruzioni e il macchinario iniziale per il montaggio d’un individuo della stessa specie, a partire da un’estrazione selettiva programmata dall’ambiente della materia e dell’energia necessarie.
Questa intuizione appartiene alla filosofia classica. Tommaso d’Aquino usa il termine “seminalis ratio”, che è l’antica idea stoica del “logos spermatikos”, e ricorda che fu Agostino ad introdurre per primo il concetto nel pensiero cristiano: “È evidente che i principi attivi e passivi della generazione delle cose viventi sono i semi da cui si generano le cose viventi. Perciò Agostino opportunamente ha dato il nome di ‘cause seminali’ (seminales rationes) a tutti i principi attivi e passivi che presiedono alla generazione naturale e allo sviluppo [degli organismi viventi]” (Summa Theologiae, I, q. 115).
Non che il dottore angelico conoscesse il DNA, ovviamente: non c’erano allora gli strumenti tecnici d’indagine. Ma egli sapeva dell’esistenza d’una successione prestabilita e ordinata di forze che partendo da Dio, creatore degli enti e permanente garante della loro non ricaduta nel nulla, si esprime nella generazione di ogni vivente. Alla catena causale partecipa la Natura, tramite forze successive di cui Dio Si serve per lo sviluppo progredente nel tempo del Suo progetto mondano. Tommaso non dice quali siano le cause naturali, ma dice che ci sono e le ordina: “Le cause possono essere considerate a diversi livelli. Al primo livello […] sono principalmente e originariamente nella parola di Dio, come ‘idee prototipali’. Al secondo, esse sono in Natura, dove sono state tutte insieme create all’inizio, come ‘cause universali’. Al terzo, esse agiscono come ‘cause particolari’ in quelle cose che nel tempo sono prodotte dalle cause universali, per esempio in questa pianta e in quell’animale. Al quarto livello, sono nei semi prodotti da animali e piante. E come le cause primordiali universali produssero i primi effetti, così i semi producono gli effetti particolari attuali” (ibid.). Se il primo livello appartiene alla teologia, alla scienza naturale appartengono i livelli successivi di causazione. Per la fisica, le “cause universali” sono il campo elettromagnetico, la gravità, le forze nucleari debole e forte: dal Big Bang, sono a monte dell’embriogenesi chimica delle diverse specie di ogni tempo. Ai livelli “terzo” e “quarto”, dove regolano lo sviluppo e prima ancora generano le unità viventi, Tommaso intendeva letteralmente 8 secoli fa quello che noi oggi chiamiamo “programma genetico”.
L’esistenza d’un programma genetico è dunque una necessità di ragione compresa fin dagli albori del pensiero occidentale.
Che cosa significa programma genetico
Stava alla scienza sperimentale individuare la base fisico-chimica del programma, e ciò è avvenuto 60 anni fa per merito di Francis Crick e James Watson con la scoperta della funzione del DNA, come ho ricordato in un altro articolo. In fondo, l’esistenza d’un programma genetico è un segno distintivo della vita rispetto alla materia inanimata. Ad una conferenza internazionale svoltasi a Modena nel 2000 sui fondamentali della vita, per prima cosa fu richiesto ai partecipanti (tutti docenti universitari) di proporre la loro personale definizione di “vita”. Anche se nessuna definizione risultò uguale ad un’altra, si poterono suddividere le risposte in due classi. Una classe risultò composta delle definizioni più disparate, come: il possesso di una certa stabilità genetica, ma allo stesso tempo di una sufficiente mutabilità, così da permettere evoluzione e adattabilità; oppure una reattività efficace agli stimoli ambientali, così da supportare la sopravvivenza e la riproduzione; ancora, la capacità di catturare, trasformare ed immagazzinare l’energia per il proprio utilizzo; ecc., ecc. L’altra classe comprendeva invece definizioni aventi un elemento comune: la presenza d’un programma informativo. L’evidenza che nel mondo inanimato non sia mai stata osservata una sequenza di reazioni chimiche e trasformazioni fisiche, guidata da un programma d’istruzioni crittate in un codice, era già stata fatta da Ernst Mayr (uno dei padri della Sintesi Moderna) nel 1988, portandolo a definire come criterio di separazione tra organismi viventi e materia inanimata l’esistenza o l’assenza d’un codice genetico. La proposta di Mayr sanciva il riconoscimento in tutta la biologia del cosiddetto Dogma della biologia molecolare, “DNA → RNA → proteine”, che non era stato un’invenzione di creazionisti, ma l’assioma fondante della genetica moderna, così come concepita da Crick, Monod, Dobzhansky, ecc.
Trovare un modello di come un tale programma possa essersi generato per cause naturali (ovvero, risolvere l’abiogenesi) è un compito immane, forse gödelianamente indecidibile dalla ragione umana: c’è infatti una discontinuità tra la chimica di un pianeta privo di vita qual era la Terra 4 miliardi di anni fa, dopo l’LHB (l’intenso bombardamento tardivo, meteoritico), e la biochimica di appena 200 milioni di anni dopo, con la comparsa combinata
1) di un metabolismo cellulare fondato sulla chimica del carbonio;
2) d’un programma per realizzarlo istanziato in un polimero, l’enzima RNA polimerasi per la produzione di mRNA, destinato ad esser traslato in proteine;
3) di un sotto-linguaggio algoritmico, istanziato in un altro polimero, il DNA, contenente le sequenze di basi chimiche che forniscono le istruzioni iniziali all’RNA;
4) di un sistema cibernetico (le reti degli organelli della struttura cellulare), capace di eseguire le traslazioni di programma e la proteinogenesi finale.
Anche se la nostra comprensione del genoma è lungi dall’essere completa, a cominciare dall’individuazione di tutte le sub-routine (con i geni e le loro reti), lo stato dell’arte ci permette di sapere che il programma genetico è costituito di algoritmi digitali lineari, uguali a quelli che si studiano in scienza dell’informazione.
L’informazione del DNA
Il DNA umano (tutto, compreso ciò che la nostra ignoranza attuale chiama “spazzatura”) è un polimero costituito di k = 4 nucleotidi, ripetuti N = 3,2 miliardi di volte. Il numero di disposizioni con ripetizioni di N elementi su k dati è k^N, che in questo caso diviene k^N = 4^3.200.000.000 = 2^6.400.000.000. Dunque l’informazione sintattica d’un intero genoma è pari a 6,4 miliardi di bit, equivalenti a 800 MB. Davanti ai calcoli, ho cominciato a sentire un formicolio nello stomaco: era il giudizio riflettente estetico che mi stava penetrando ed avrebbe finito per soverchiarmi…
Certo, il primo moto è stato di stupore che tanta informazione risultasse concentrata in una molecola. I dispositivi convenzionali di memoria di massa hanno oggi capacità di qualche TB (1 TB ~ 10^6 MB) distribuita in ~100 cm3. Gli 800 MB del DNA sono concentrati in ~10^(-11) cm3. Il rapporto delle densità d’informazione è quindi 10^10 a favore dell’hardware al carbonio del DNA, rispetto a quello al vetro o alla ceramica dei nostri gingilli high-tech, con un gap strutturalmente incolmabile. Nessuna meraviglia che, all’insaputa degli ideologi della biologia che non hanno mai messo piede in un laboratorio e la cui fantasia narra i miti del cattivo lavoro e degli scherzi del caso, il DNA (batterico) sia studiato per essere impiegato come una scheda di memoria riscrivibile; e sia copiato nelle nanotecnologie per le sue proprietà di riconoscimento molecolare che lo rendono capace di auto-assemblarsi in strutture bidimensionali o poliedriche di complessità inarrivabile. Tali assemblati sono utilizzati con funzioni essenzialmente strutturali, per l’informazione organizzata in modo ottimale che contengono, e non come vettori d’informazione biologica. Per la sua compattezza, il DNA serve da modello anche in crittografia, nella costituzione e nell’utilizzo efficiente di cifrari sicuri.
Certo, è stato stupefacente per me scoprire la rarefazione della semantica salvata in sporadiche, preziose configurazioni del polimero. Infatti, delle k^N stringhe diverse, solo un’estrema minoranza è DNA d’un uomo, d’un animale o d’una pianta: ognuna di queste poche, sparse “frasi utili” rispecchia una differente disposizione con ripetizioni dei nucleotidi e questa sequenza detta quali proteine comporranno l’essere vivente, se l’organismo nel suo sviluppo metabolico produrrà squame o foglie, quattro gambe o due gambe, o un gambo… La stragrande maggioranza delle disposizioni sono frasi senza senso, programmi “hackerati” che non funzionano: pure chimere! Al livello primario delle relazioni atomiche, la scelta “utile” tra una specie e l’altra e tra un individuo e l’altro nella stessa specie (cioè la selezione del genotipo) avviene nella formazione dei (forti) legami 3’5’ fosfodiesterici lungo la sequenza degli acidi nucleici. Qui, chimicamente, i monomeri polimerizzano in ordine; e qui, ciberneticamente, sta la selezione del programma in quanto determinazione di una sequenza ordinata di istruzioni tra tutte le sequenze possibili. A priori solo improbabilissimamente un legame fosfodiesterico collaborerà alla semantica funzionale dell’intera sequenza integrandosi prima con le altre istruzioni agli altri nodi della sua sub-routine genica per la produzione d’una proteina e poi con le altre sub-routine del polimero per la sintesi successiva di biofunzioni concorrenti allo sviluppo d’un organismo vivente. Piuttosto, quasi sempre, una sequenza casuale darà luogo ad un crash del programma, ad un “aborto” biologico.
Nell’universo delle k^N sequenze sintattiche, le rarissime sequenze semantiche sono anche topologicamente isolate tra loro. Qualcuno potrebbe pensare di cambiare un aminoacido alla volta sperando in questo modo di passare da una sequenza utile ad un’altra. Ma accadrebbe invece, quasi inevitabilmente, che l’enzima smetterebbe di svolgere le sue precedenti funzioni, prima d’imparare ad adempiere ai suoi nuovi “doveri”, e cesserebbe di esistere…, insieme a tutto l’organismo! Il principio selettore delle poche sequenze vitali dalla turba infinita di quelle senza senso è l’enigma nel mistero dell’abiogenesi. Qui selezione naturale e caso sono impotenti. Sul legame fosfodiesterico infatti, un effetto della selezione naturale è impossibile, perché la selezione agisce solo dopo l’esecuzione del programma, sui fenotipi già sintetizzati, privilegiando tautologicamente quelli che meglio si adattano all’habitat. Anche l’effetto del caso è nullo sul legame fosfodiesterico, se consideriamo che i 200 milioni di anni in cui è precipitata l’abiogenesi equivalgono a 10^59 tempi di Planck, un periodo nel quale non possono essere avvenute in un pianeta di 10^50 atomi più di 10^109 reazioni chimiche: che sono zero rispetto alle 4^580.000 ~ 10^349.000 sequenze diverse da esplorare del batterio più semplice (come il Mycoplasma genitalium, che ha appena 580.000 coppie di basi e mezzo migliaio di geni). Nell’ipotesi panspermica, di vita proveniente da un meteorite LHB, il massimante delle reazioni chimiche sale a 10^143, ancora infinitesimo rispetto a 10^349.000.
En passant, l’isolamento delle stringhe vitali è anche una confutazione chimica della Sintesi Moderna: la fiducia neodarwiniana che, una volta calato dal cielo un progenitore ancestrale, le mutazioni casuali e la selezione naturale possano spiegare la speciazione asincrona coincide infatti con la congettura – recentemente smentita anche da un’analisi matematica del genoma di due specie diverse del genere Mus – dell’esistenza di un cammino “continuo” che, per cambi di singoli bit, trasformi il DNA di una specie in quello di ogni altra, passando sempre per applicazioni funzionanti, ovvero per specie viventi e fertili.
Ancora, ho ammirato l’estrema efficienza del sistema operativo dell’RNA, capace d’interpretare l’informazione utile alla costruzione d’un uomo da soli 800 MB di sintassi. Che cosa sono oggi 800 MB in un pc basato su Mac OS, o MS Windows, o Unix, o qualsiasi altro sistema operativo? L’album d’un centinaio di foto o la raccolta d’una decina di canzoni. 800 MB sono una stringa già corta per l’informatica da casa, sono il peso dell’applicativo Office (interpretato da Windows) che utilizzo come word processor per scrivere questo articolo. Nell’industria, 800 MB non controllerebbero un tornio a fabbricare un chiodo! Invece, la cibernetica nucleica che, dal momento del concepimento, guida i ribosomi nel citoplasma a fare un uomo si accontenta della quantità di sintassi d’un album di canzonette.
E ancora, ho preso atto con stupore che sintassi, linguaggi, sistema operativo e cibernetica sono uguali per tutte le specie viventi dei regni vegetale ed animale. Le major dell’I&CT, il cui campo è dominato per logiche di mercato dall’anarchia di decine di linguaggi e sistemi operativi non comunicanti, tutti allegramente in lotta contro l’interoperabilità reciproca, sono servite…
Sarebbero felici di apprendere tali meraviglie gli antichi filosofi, che alla seminalis ratio erano arrivati con la ragion pura molti secoli fa. Anche agli scienziati contemporanei il genoma appare meraviglioso:
“Se una particolare sequenza di aminoacidi fu selezionata a caso, quanto raro potrebbe essere un tale evento? […] La gran parte delle sequenze non potrà mai essere sintetizzata del tutto, in nessun tempo” (F. Crick, “Life Itself: Its Origin and Nature”, 1981).
Quando però mi volgo a contemplare altre due caratteristiche del genoma, la meraviglia non nomina più adeguatamente ciò ch’io provo, perché esso mi diventa inafferrabile, sublime. Queste caratteristiche sono la sua ridondanza ottimale e la sua circolarità simbolica.
La ridondanza ottimale del programma genetico
Tutti conosciamo un dizionario bilingue. Metà del libro ha una prima colonna occupata dalle parole d’una lingua ordinate alfabeticamente, e una seconda colonna occupata dalle loro corrispondenti nell’altra lingua; l’altra metà del libro inverte i posti delle due lingue. Traduzione diretta e inversa. La corrispondenza tra le due colonne non è biunivoca, perché tutte le lingue parlate sono ridondanti di sinonimi e omonimi.
In informatica una tabella di crittazione/decrittazione è un dizionario tra due programmi concatenati e consiste in una corrispondenza tra i loro simboli alfanumerici. Nel codice genetico la corrispondenza tra i 4^3 = 64 codoni dell’RNA ed i 20 aminoacidi (che concorrono alla sintesi proteica) non è biunivoca: codoni diversi codificano lo stesso aminoacido. Per es., 6 triplette diverse codificano la leucina. Questa ridondanza si chiama tecnicamente una “degenerazione” del codice.
Nei programmi artificiali ogni ridondanza origina code che occupano memoria crescente con l’uso, rallentando l’esecuzione degli algoritmi, fino a rendere inutilizzabile il programma e richiedere formattazioni e reinstallazioni. Perciò ogni programmatore cerca di ridurre al minimo le ridondanze. Quando la loro riduzione diventa un aspetto critico, per es. nelle telecomunicazioni dove la larghezza di banda non è mai abbastanza, si utilizzano tecniche approssimative di compressione dei dati, che quasi sempre comportano parziali perdite d’informazione.
A prescindere dalle ridondanze, tutti i sistemi cibernetici avanzano inesorabilmente verso il nonsenso, la disfunzione e il fallimento. La fatale causa del deterioramento graduale del loro funzionamento sta nel secondo Principio della termodinamica, che dà la freccia del tempo a tutti i moti di Natura: in complesso, dall’ordine al disordine. Così, ogni forma di energia degrada in calore inutilizzabile.
Nei sistemi industriali a controllo numerico, il tempo e l’uso logorano, oltre ai robot, i supporti fisici dove sono salvate le informazioni. Quando i simboli istanziati, i commutatori ai nodi di controllo e i circuiti elettronici si deteriorano, le istruzioni formali istanziate perdono affidabilità semantica. In una striscia di trilioni di 0 e 1, basta lo scambio d’un simbolo ad arrestare la robotica. La termodinamica evidentemente non ha effetto sui formalismi astratti progettuali, ma soltanto sui materiali della loro istanziazione; tuttavia è proprio questa entropia a causare il declino delle funzioni cibernetiche degli impianti reali, che solo dall’intervento intenzionale di un agente formale (cioè: un operatore umano) possono essere ripristinate.
A differenza dell’industria però, il codice genetico degli organismi viventi istanziato nei due polimeri non ha agenti intenzionali costantemente all’opera per riparare ogni mutazione casuale, di per sé negativamente efficace solo a deteriorare i metabolismi. Ecco allora, inaspettata, la ridondanza nella corrispondenza non biunivoca tra triplette e aminoacidi a sopperire, rafforzando il codice con un’ottimizzazione algoritmica! All’analisi informatica, la tabella delle corrispondenze è risultata un sistema di codificazione a ridondanza apparentemente pianificata a rallentare l’inquinamento genetico che l’ambiente altrimenti produrrebbe, minimizzando gli errori di traslazione nell’mRNA tra i codoni e l’inserimento degli aminoacidi durante la sintesi proteica. (Si noti: l’inquinamento è rallentato dalla ridondanza, non è azzerato: l’entropia condanna comunque la vita individuale alla morte, con buona pace delle utopie transumanistiche, nonché le specie ad una lenta involuzione; così come, comunque, consente nelle ere l’insorgenza saltuaria di quelle modifiche elementari, adattative all’ambiente ex post per selezione naturale, che sono le evoluzioni intraspecifiche).
Sorge allora la domanda: se l’alleanza del caso e del tempo può solo congiurare negativamente al livello (primo) del genotipo; se la selezione naturale può solo agire sul fenotipo, che però in quanto prodotto finito (ultimo) della programmazione risulta inefficace a migliorare gli algoritmi degli acidi nucleici; quale necessità ha pianificato e ottimizzato la ridondanza, rendendola una garante basica dell’omeostasi ed una barriera logica contro due agenti (il caso ed il tempo) incessantemente al lavoro nel genoma per l’involuzione delle specie e la loro scomparsa?
La scalata alla vetta della (relativa) stabilità non esibisce l’evidenza di uno zig zag di sentieri evolutivi usciti da una procedura per tentativi ed errori sviluppatasi casualmente in un tempo lungo generoso, ma piuttosto quella di una corsa intelligente contro un tempo ostile resa possibile da una mappa matematica iscritta in una necessità (ancora) celata. Se la biologia non è una scienza naturale “autonoma”; se, dopo Galileo, la necessità nelle scienze naturali è data dalle leggi della fisica, la tabella ridondante di traslazione RNA → aminoacidi suscita in me la vertigine di un abisso infinito. Non vedo tra i 4 campi della fisica nessun meccanismo candidabile a far da sorgente.
Gli ideologi della biologia, che non hanno mai visto un business plan e la cui immaginazione narra di geni egoisti ed autoreferenziali, saranno forse sorpresi di apprendere che la ridondanza ottimizzata del codice genetico è utilizzata in industria e in finanza per risolvere problemi non computabili, che nulla hanno a che fare con la biologia. Abbiamo visto prima che la compressione è normalmente riduttiva d’informazione. Esiste però una compressione datalossless, che non riduce l’informazione veicolata. Anche questo tipo di zippaggio purtroppo, è ottenuto in industria con tecniche approssimative, solo parzialmente soddisfacenti, perché la scelta di un codice che azzeri le ridondanze è forse un problema di complessità non computabile. Ebbene, oggi la compressione datalossless che troviamo realizzata a livello ottimale nel DNA viene utilizzata per simulare la soluzione di problemi che ci risulterebbero altrimenti insolvibili. Così, si è scoperto che l’organizzazione assemblativa delle componenti del DNA è matematicamente ottimizzata non solo in termini di spazio, ma anche di compressione logica! L’osservazione del DNA è risultata più vantaggiosa del calcolo tradizionale approssimativo via computer, sia dal punto di vista dell’energia consumata che dello spazio utilizzato.
La circolarità simbolica del programma genetico
In informatica, la progettazione dell’algoritmo (che consiste nella successione dei passi logici elementari, risolutivi di una classe di problemi) è distinta dalla stesura delle istruzioni in un qualche linguaggio, la programmazione; e questa è distinta dalla scelta del metalinguaggio che interpreta quelle istruzioni, e dal meta-metalinguaggio eventuale che interpreta le istruzioni traslate…; infine, queste operazioni sono distinte dalle tabelle di crittazione e decrittazione associate a coppie di linguaggi concatenati e dal sistema operativo usato, fino alla cibernetica finale che nel nostro caso è la sintesi proteica. Nella divulgazione si confonde ingenuamente il genoma con il sistema dei geni, ma le cose sono più complesse. Come sa bene chi fa programmazione anche solo a livello di scuola media, la progettazione astratta (rappresentata nel diagramma di flusso) non sceglie i linguaggi informatici, per es. Pascal o Perl, dove formalizzarsi; e questi non scelgono i linguaggi interpreti, intermedi e di controllo dell’hardware, via via fino al linguaggio-macchina che compila finalmente la catena in istruzioni eseguibili fisicamente. Dato un diagramma di flusso, non c’è nulla di più gratuito, nel senso di appartenente al mondo umano della libertà e della volontà, d’ideare una catena di linguaggi informativi e di sistemi operativi (con le loro regole di traslazione reciproca) che esegua il diagramma. Questa gratuità si tocca con mano nella pletora anarchica di programmi e sistemi che competono nel mercato di applicazioni e device.
Prima ancora dell’ottimizzazione della ridondanza, le traslazioni DNA → RNA → aminoacidi pongono il problema della loro stessa esistenza simbolica. Alcuni milioni di robot per cellula (i ribosomi) leggono le molecole di mRNA (che sono la traduzione nel linguaggio dell’RNA delle sub-routine geniche del DNA) e le trascrivono in aminoacidi secondo le regole d’una (seconda) traduzione, quelle della tabella ridondante; gli aminoacidi, al ritmo di due al secondo, vengono agganciati nella costituenda proteina. Tutto perfetto, ma… i ribosomi necessari alla proteinogenesi sono macchine controllate, già bell’e pronte e ordinatamente disposte ad una catena di montaggio, ciascuna macchina essendo ingegnerizzata con una cinquantina di proteine, già bell’e pronte e ordinatamente disposte nel sotto-sistema dei singoli robot!
Alla conquista dell’abiogenesi sono stati concepiti svariati modelli, basati sull’autocatalisi di molecole organiche a sofisticazione crescente, fino alla formazione spontanea di composti capaci di riproduzione ed ereditarietà. Ma nessuno di questi modelli affronta, a mio giudizio, il nocciolo del problema, che è formale prima che chimico: poiché non esiste un nesso fisico unidirezionale (nel senso di rapporto tra causa efficiente al tempo t ed effetto misurabile al tempo t’ > t) tra la sequenza nucleotidica (programmata) e la sequenza aminoacida (funzionale), come si possono scientificamente spiegare il simbolismo e la circolarità della catena chiusa (DNA → RNA → proteine → DNA) di corrispondenze e trascrizioni? Le cause materiali ed efficienti, cui si auto-disciplina il metodo scientifico, non hanno la capacità dei programmatori umani di concettualizzare un sistema chiuso, che impiega diversi livelli collegati di rappresentazione simbolica, perché il simbolo appartiene solo all’umano. Le triplette codoniche acquisiscono un significato funzionale nella cibernetica dell’organismo vivente solo quando gli aminoacidi che esse prescrivono sono collegati in un certo ordine, che usa due linguaggi diversi.
Ma come può auto-organizzarsi un sistema olistico operativo e traslativo? I 4 campi della fisica non hanno nulla da dire sul fenomeno della traslazione linguistica. Il rompicapo logico dell’uovo e della gallina resta lì, in piedi, suscitando le vertigini dell’inconoscibile.
La computer science applicata ha molto da imparare dalla chimica degli acidi nucleici. Tratti del DNA sono dispositivi computazionali, in quanto processano input chimici che generano output come risultanti da una sequenza di operatori logici. La chimica lascia trasparire una concettualizzazione informatica, che il successo della vita dimostra essere infinitamente più avanzata della nostra grezza, basata sulla fisica dei semiconduttori. Tutti gli operatori logici (OR, AND, ecc.) e le loro composizioni, che in elettronica simuliamo con circuiti appositi, sono risultati replicabili all’interno di reazioni e fenomeni chimici. E, a un certo livello d’integrazione, la chimica perviene al processo computazionale della programmazione vera e propria. Questi polimeri logici allora, si prestano a riconfigurazioni convenienti, con applicazioni brillanti in medicina, dove la loro dimensione molecolare è un vantaggio competitivo rispetto alle controparti convenzionali a semiconduttore. Così, la logica molecolare è utilizzata nella rilevazione chimica (in particolare intracellulare) di piccoli composti e nella diagnostica “intelligente”.
Conclusioni
Senza tirare in ballo l’alterità psichica dell’Io e il mind-body problem, che sono i problemi (scientifici?) in cima all’albero della vita, già a partire dall’origine di un batterio alcuni scienziati parlano d’indecidibilità, considerandone irriducibile la complessità dell’organizzazione. Niels Bohr giudicava “la vita consistente con la fisica e la chimica, ma da esse indecidibile” e che “l’esistenza della vita deve essere considerata come un fatto elementare (un assioma) che non può essere spiegato, ma che può solo essere preso come un punto di partenza in biologia” (“Light and Life”, Nature, 1933). Dello stesso parere Jacques Monod (in “Caso e necessità”, 1970) ed Ernst Mayr (in “Is Biology an Autonomous Science?”, 1988). Francis Crick, disperato, preferì buttarsi sulla panspermia.
Anche Stuart Kauffman, che alla ricerca dei meccanismi della vita ha dedicato il suo genio, riconosce nell’ora del ritiro che i suoi modelli fondati su complessità e confini del caos sono solo in minima parte esplicativi, e forse esclusivamente metaforici:
“L’evoluzione della biosfera supera tutte le leggi fondate sulle simmetrie [le leggi della fisica, NdR]e costruisce uno ‘spazio delle fasi’ o delle possibilità che non possiamo pre-determinare” (“The Re-Enchantment of Humanity”, 2011).
Se la fisica può studiare la materia inanimata in spazi di fase predeterminati (come, dopo la classica, fa anche la meccanica quantistica), questo non si può fare secondo Kauffman per la vita. Perché la biosfera costruisce oltre le leggi della fisica “oltre lo stesso Darwin, ed oltre anche ogni principio di ragion sufficiente, in ogni tempo la nicchia adiacente in cui evolverà. Come l’economia, la cultura e la storia umane. Noi siamo oltre Newton, Einstein, Darwin e anche Schrödinger, poiché il divenire della biosfera è fatto solo parzialmente di mutazioni quantistiche a-causali, e tuttavia non è casuale. […] Il mondo è nuovo e […] noi viviamo in un magico incanto” (ibid., grassetto mio).
Una conclusione tanto poetica quanto amara da parte di chi aveva puntato tutto sul rigore matematico per superare le narrazioni ad hoc darwiniane. Di queste aveva detto un tempo:
L’evoluzione è piena di queste just-so story, o plausibili scenari senza alcuna evidenza empirica, storielle che amiamo raccontarci, ma su cui non dovremmo riporre alcun affidamento razionale” (S. Kauffman, At Home in the Universe, 1995)
Ed ora si ritrova ad aver raccontato altre storie, solo in un diverso stilema…
Io non condivido la perentorietà del giudizio d’indecidibilità sull’abiogenesi. Davanti alla gratuita organizzazione della vita e all’evidenza sperimentale (infalsificata) che la vita nasce solo da vita pre-esistente, provo come Kauffman un “magico incanto”. Però, con Kant (e Galileo prima di lui) distinguo il “giudizio determinante”, proprio della fredda attività razionale, dal “giudizio riflettente” che postula un’unità della Natura con i mondi umani del sentimento e della libertà e così si rifugia tra le calde braccia della teleologia. Una cosa è affermare che esistono problemi indecidibili: questa è una verità dimostrata dal primo teorema di Gödel; altro è affermare che uno specifico problema P è indecidibile: per il momento, noi conosciamo per indecidibili con certezza ben poche questioni (l’ipotesi del continuo di Cantor, il problema della tassellatura di Wang, ecc.). Per l’abiogenesi io non vedo né tocco una verità, perché nulla è stato (ancora) dimostrato con la ragion pura e nulla di determinante può essere partorito dal giudizio estetico.
Si continui dunque lo studio dei fenomeni biologici nel rispetto del metodo scientifico, senza immaginare di superare gli stalli persistenti (in primis: la precipitazione dell’abiogenesi e la speciazione asincrona) con il contrabbando del punto di vista teleologico, o fantasticando di “autonomia della biologia” (E. Mayr) dalle altre scienze (nostalgia del vitalismo?), quando all’opposto le soluzioni possono dipendere solo da una maggiore interdisciplinarità.
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27 commenti
Caro Giorgio, va bene che questa sezione si chiami “Tavola alta”, ma qui è decisamente molto alta!
Se solo questi tuoi articoli cominciassero a girare un po’ di più si potrebbe avere una base su cui lavorare davvero ad una teoria sull’evoluzione.
E non posso che sottolineare la conclusione:
Grazie, Enzo. Ma sei troppo buono nelle lodi: io non ho fatto nulla di originale, se non fare un po’ d’interdisciplinarita’, mettendo insieme alla biologia (che non puo’ essere una scienza isolata, se no diventa magica come nel darwinismo e nel creazionismo) un po’ di logica, di matematica, di chimica e fisica, d’informatica e cibernetica, e anche d’industria e finanza.
Contemplazione, bellissima e profonda parola che ci viene dal latino ‘cum templum’ lo spazio sacro che limitava il campo in cui il sacerdote doveva osservare i segni che provenivano dal Cielo. Un uccello in più che passava però al di fuori dello spazio sacro non ‘entrava nel conto’ è proprio ciò che fa la scienza: le regole, i vincoli fisico-chimici delimitano lo spazio delle osservazioni, sone le ‘condizioni al contorno’ che permettono di respirare il senso del mondo, è quello che tu ci hai offerto, l’opposto delle storielline ad hoc che dei vincoli fisici si dimenticano bellamente e spudoratamente.
Grazie di queste belle e ispirate parole.
Grazie, Alessandro. Questo etimo della contemplazione non lo conoscevo, e mi ha lasciato semplicemente senza parole… E se la scienza e’ un’arte di contemplazione della Natura, per comprenderla, prevederla e anche usarla – cosi’ come per le antiche arti mantiche o per la letteratura, la pittura, ecc. -, come puo’ chi si riempie la bocca di scienza, ignorare i confini, il recinto, i vincoli, che quest’arte si e’ liberamente data con Galileo?
Quello che regola la vita è un programma davvero sublime! Davanti all’idea, poi, che l’abiogenesi deve essere avvenuta in circa duecento milioni di anni (escludendo la panspermia) la mente vacilla sul serio. Certo che, anche dando una chance alla panspermia, mi pare che solo due implicazioni siano possibili: o l’Universo pullula letteralmente di vita (e di pre-vita), o ci deve essere dietro – in senso scientifico, naturalmente – qualcosa di più profondo del semplice incontro casuale di molecole organiche del brodo primordiale.
Mettiamola, Michele, in termini puramente matematici.
La speciazione asincrona delle specie (come evidenza fossile) è una traiettoria nell’universo delle configurazioni 4^N (dove N ~ Giga), ovvero una funzione che fa corrispondere ad una variabile reale t una disposizione di N elementi ripetuti su 4 dati.
Come Darwin (e Bohr), assumiamo l’ancestor assiomaticamente: il primo punto della traiettoria (al tempo t1) è dato con la sua configurazione genetica iniziale.
“Come” è avvenuta l’evoluzione al secondo punto t2? E poi da questo (o dal primo) ad un terzo punto t3? Ecc.?
E’ chiaro che la selezione naturale “seleziona” tra specie già esistenti, premiando quelle capaci di meglio adattarsi in un dato ambiente. La selezione naturale rimescola le proporzioni tra le specie in una popolazione, ma non crea nuove specie. Essa non agisce su una disposizione nucleotidica semantica tK per trasformarla (attraverso una combinazione contestuale di molte permutazioni) in un’altra tK+1. La selezione naturale ha invece, come ben aveva fatto capire Malthus a Darwin, una funzione efficace nella scomparsa delle specie. La scomparsa di specie, nella quotidiana lotta per la distribuzione delle risorse, è un effetto della selezione naturale (“selvaggia”), come è denunciato quotidianamente dalle organizzazioni ambientali.
Resta, nel darwinismo, il “caso” come unico possibile fattore della dinamicità della traiettoria evolutiva, cioè della nascita di sempre nuove specie da altre precedenti. Il caso creatore della varietà. Questo caso però è solo una parola che forse nasconde solo la nostra ignoranza (e il nostro orgoglio ad ammetterla): non è il caso della fisica statistica, né della meccanica quantistica, né della teoria delle probabilità, …, né di quello usato dalle assicurazioni per calcolare i premi, né in finanza per predisporre un business plan. Zero. Non ci dà né predittività né potenza. Ci dà solo interpretazione. Una delle possibili interpretazioni.
Allora, Michele, che cosa succede se sostituiamo alla parola “caso” la parola “meccanismo fisico-chimico ancora nascosto”, e ci teniamo la selezione naturale come meccanismo di scomparsa delle specie?
Otteniamo una teoria scientificamente equivalente al darwinismo!
“Scientificamente” equivalente perché ha la stessa capacità esplicativa (0%, per l’origine delle specie; 100%, per la loro estinzione); la stessa predittività (zero); la stessa applicabilità (zero).
Però, “filosoficamente” questa teoria ha rispetto al darwinismo il merito di essere onesta, perché non proclama di sapere ciò che non sa.
Credo – dal mio punto di vista estremamente limitato – che tu abbia messo in evidenza nel modo più chiaro possibile il nodo centrale della critica al darwinismo.
Non penso affatto, Michele, che il “tuo punto di vista sia estremamente limitato”. In ogni caso, sull’argomento, è molto più ampio del mio.
Mi piacerebbe pensare che cosa ne pensa Enzo. Riepilogo per lui: chiamiamo D la teoria dell’evoluzione di Darwin, in tutte le sue varianti (Sintesi Moderna, Estesa, ecc.); e chiamiamo D’ una teoria dell’evoluzione ottenuta da D sostituendo la parola “caso” (o “contingenza”, o “chance”, ecc.) con la locuzione “meccanismo fisico-chimico ancora ignoto”.
Dal punto di vista scientifico D e D’ sono (al momento) equivalenti nei seguenti aspetti:
a) come numero di assunzioni (rasoio di Ockam);
b) come corroborazione empirica;
c) come predizioni;
d) come falsificabilità;
e) come applicazioni.
D’ però, ha su D almeno 4 vantaggi “scientifici”:
A) D’ non è in contrasto con le leggi della probabilità (che rendono invece D implausibile, sia rispetto ai tempi terrestri che a quelli dell’Universo);
B) D’ comprende anche l’abiogenesi (che invece in D è postulata e, ancora implausibilmente, separata dall’evoluzione);
C) giustifica la continuazione della ricerca interdisciplinare per l’individuazione del meccanismo fisico-chimico;
E) prescinde dal concetto di “caso”, che non ha in scienza significato, perché non è operativamente (nel significato neopositivistico) definito.
Giorgio,
con questa tua proposta secondo me sei riuscito a schematizzare in modo estremamente chiaro ed efficace tutta una serie di argomenti che sono stati espressi da tutti noi nei nostri interventi.
Sei riuscito a focalizzare il discorso su come l’abbandono del “caso” e quindi della SM costituisca un vantaggio immediato: questa è una “svolta” importante!
Questa idea a mio parere può diventare un valido argomento proprio a favore dell’abbandono della SM.
Se infatti finora alla nostra dichiarazione della non validità della SM si era quasi sempre ribattuto che, in caso di abbandono della teoria neodarwiniana, ci saremmo trovati in mancanza di una teoria alternativa. Con questo ragionamento si dispone invece di una “pre-teoria”, qualcosa che ha lo stesso potere esplicativo e predittivo della SM e, contrariamente a questa, dei gravi difetti in meno.
Correggimi se sbaglio, forse questa pre-teoria si potrebbe anche chiamare “teorema” in quanto si tratta di una proposizione che si basa su almeno una condizione iniziale arbitrariamente stabilita (il meccanismo fisico-chimico ancora ignoto).
Però una volta che tale condizione fosse verificata, e quindi dimostrata come non arbitrariamente presupposta, il teorema diverrebbe la nuova teoria.
Ma poiché anche la SM moderna ha alla sua base un assunto non dimostrato (e non dimostrabile), cioè quello che sia il caso all’origine delle specie, si ha come premessa una condizione arbitrariamente stabilita, e quindi anche la stessa SM sarebbe da considerare come un teorema.
A questo punto avremmo due teoremi che si fronteggiano con uguale potere esplicativo e predittivo, ma uno dei due, quello alternativo alla SM, avrebbe meno punti a suo sfavore risultando preferibile.
Comunque sarebbe da sostituire subito il termine “teoria” neodarwiniana dell’evoluzione, con il termine più appropriato “teorema”.
Se mi posso permettere,non ho ancora avuto modo di leggere l’articolo,cosa che credo di avere occasione di fare ora se non accade qualcosa,vorrei dire un paio di cose.
Per prima cosa,è una banalità se voliamo,ma bisogna ricordarsi che fino all’evlissi del neodarwinismo in buona sostanza muoveva la teoria il motore della trasmissione dei caratteri acquisiti.Certo,il darwinismo era superiore al lamarckismo perchè era libero dal panpsichismo,ma rivoltava solo la frittata.
Che lo si voglia ammettere o no,la forza della teoria era proprio il postulare quel meccanismo.
Quando poi giunse la sintesi moderna e lo troviamo ancora oggi,quando i nodi vengono al pettine,quando subentrano difficoltà ci si rifugia ancora in un lamarckismo ancora cambiato ma si vede sempre un giro della frittata.
E’ senza alcuna ombra di dubbio quello che da allora rende accetto di buon grado il paradigma evoluzionista proposto da Darwin,dalla Sintesi etc..
Per esempio relativamente alle origini del bipedismo,l’ipotesi del trasporto dei carichi,l’ipotesi del “gioco del cù-cù”,l’ipotesi del mostrare il pene,l’ipotesi del guado,l’ipotesi dell’esposizione al calore etc..cosa sono se non intrise di lamarckismo?
Senza contare che c’è il fatto non trascurabile che non sia possibile discernere il tratto adattativo da vari “free rider”
Si partì da selezione artificiale e da trasmissione dei caratteir acquisiti,quelli pur mascherati davano credibilità e danno credibilità alla teoria,a torto,ma lo fanno.
“Otteniamo una teoria scientificamente equivalente al darwinismo!“Scientificamente” equivalente perché ha la stessa capacità esplicativa (0%, per l’origine delle specie; 100%, per la loro estinzione); la stessa predittività (zero); la stessa applicabilità (zero).Però, “filosoficamente” questa teoria ha rispetto al darwinismo il merito di essere onesta, perché non proclama di sapere ciò che non sa.”
Quindi,specialmente relativamente ai punti che ha elencato non è una teoria scientifica.Però a differenza del neodarwinismo si può dire che sia un’ipotesi scientifica,un possibile modello,un possibile teorema..ma al momento ipotesi,però ammessa a livello scientifico.
Che poi in buona sostanza non è nè più nè meno che far presente che c’è un elefante nella stanza..
Però va aggiunta una cosa secondo me.
Ossia che da un certo momento un eventuale processo di trasformazione graduale e continua da organismi meno complessi e più complessi e dalla non vita alla vita si sia arrestata. Dal momento che si trovano solo adattamenti vari,involuzione,estinzione ed entropia genetica.
@ Enzo, Leonetto, Michele et al.
Giusta l’osservazione finale di Leonetto. Diciamo allora così: la teoria D’ è ottenuta dal darwinismo D attraverso la sostituzione della parola “caso” con la locuzione “meccanismo fisico-chimico operante nelle condizioni terrestri pre- e proto-biotiche”.
Cari amici, D’ non è certo una teoria scientifica, per i motivi che avete bene illustrato. E, nella sua modestia, non è nemmeno una pre-teoria, e nemmeno un teorema. Che cos’è allora? E’ il nostro “manifesto”, antidarwinista e anticreazionista.
In un articolo di prossima pubblicazione Forastiere, Giuliani ed io dimostriamo che il ruolo illimitato ed impredicibile assegnato al “caso” rende D infalsificabile, con ciò deprivandolo dell’essere una teoria scientifica. Con il manifesto D’ noi indichiamo sinteticamente il programma della biologia dell’evoluzione post-darwinista, razionale ed universale, che ambisce a spiegare l’abiogenesi e la speciazione.
Lavoro in campo informatico e questo articolo mi ha letteralmente scioccata. Complimenti a CS.
Vorrei chiedere quali studi dimostrino l’ottimizzazione della ridondanza del dna, citata dall’autore.
Sono felice, Nadia, se posso avere stimolato la Sua curiosità!
Per la dimostrazione matematica della concettualizzazione ideale ottenuta nella tabella di decrittazione codoni/aminoacidi può leggere: Bradley, D. Informatics. The genome chose its alphabet with care. Science 2002, 297,
1789-1791.
Grazie Nadia, ma devo precisare che i complimenti vanno tutti al prof. Masiero.
Io direi che i complimenti vanno ad entrambi: raramente ho visitato un sito cosi’ interessante e con articoli di questo livello. Direi che in Internet ho due siti preferiti: Critica Scientifica e DISF.
Grazie per il vostro ammirevole lavoro!
Che bel riconoscimento!
Grazie a lei Lucio
La penso come Lucio. Il livello degli articoli e l’evidente volontà educativa (qui chiarezza e franchezza sono sposate alle buone maniere – provocatori a parte) ne fanno una fonte di informazione scientifica eccellente.
Dio vi benedica.
Stupendo l’articolo, caro Giorgio.
Il DNA ha veramente dell’incredibile in termini di complessità.
DIcevamo poi, nelle nostre chiacchierate, che si potrebbe ricordare anche il fatto che il DNA è l’unica molecola capace di autoreplicarsi in vista della mitosi e poi è in grado di dimezzarsi in vista della meiosi…
Ciao Umberto,
complimenti per la bella iniziativa che hai realizzato nella tua scuola:
Biopolitica: lettera aperta al Prof. Francesco D’Agostino
Ma stai attento alle petizioni! 😉
Caro Umberto, i due fenomeni da te citati meritavano davvero di essere da me inseriti tra le caratteristiche sublimi del Dna.
Il primo, infatti, corrisponde ad un automatico backup ogniqualvolta si esegue il programma: dove la trovi in un’azienda un tale sistema sicuro?!
E il secondo poi è ancora più meraviglioso e senza pari nella nostra information science: sarebbe come se avessimo un sistema per produrre, da due programmi, quanti nuovi programmi volessimo con caratteristiche dell’uno e dell’altro, ma sempre originale!
A proposito del ruolo delle mutazioni genetiche casuali nell’evoluzione (quelle che, ricordiamo, secondo il neo-darwinismo devono essere alla base degli eventi macroevolutivi), mi sembra interessante citare questo lavoro apparso recentemente su Nature, in occasione dell’anniversario della scoperta della struttura a doppia elica:
http://www.nature.com/nature/journal/v496/n7446/full/496419a.html .
Come si legge nell’Abstract, “bisogna ammettere che [ancora] non comprendiamo pienamente come lavori l’evoluzione a livello molecolare”. Sembrerebbe un’affermazione di ignoranza scientifica, correttissima, di per sé piuttosto “soft”. Quello che però si dice nell’articolo è, a mio parere, molto più illuminante.
Philip Ball, l’autore, che è dichiaratamente neo-darwinista, ritiene (sposando le tesi del noto genetista Michael Lynch) che la deriva genetica casuale sparpagli introni a caso nelle sequenze codificanti di DNA; pertanto, che la selezione naturale – piuttosto che favorire la “fitness” – possa generare un accumulo ridondante di “difese” molecolari, del tipo dei sistemi atti a identificare i problemi di “piegatura” nelle proteine. Ball conclude, con il tipico gusto tutto anglosassone dell’understatement: “In breve, l’attuale rappresentazione di come e dove l’evoluzione operi, e come essa dia forma ai genomi, è un po’ confusa.”
Interessante, vero?
@ Forastiere, Pennetta
Hai trovato un bell’articolo, Michele, non c’è che dire. In questo articolo su Nature, uno dei divulgatori darwinisti più celebri al mondo, dice:
1) Che non si sa come l’evoluzione operi a livello molecolare e che la spiegazione darwinistica è “un po’ confusa”. Poiché, dopo la scoperta del codice genetico, “il livello molecolare” è l’unico dove avvengono le trasformazioni tra specie, ciò significa che non sappiamo niente di come sono comparse le diverse specie. Ma non è quello che sosteniamo noi qui, ogni santo giorno, e per cui ci sentiamo accusare… di creazionismo?!
2) Che la selezione naturale, invece che fare la “selezione” delle specie meno adatte facendole scomparire, fa a livello molecolare la “non-selezione” accumulando difese ridondanti. Qui, “un po’ confuso” mi pare, perché se un meccanismo è selezione vuol dire che seleziona, e se invece è un meccanismo che accumula senza selezionare allora non è selezione! Ti pare? In ogni caso, la selezione naturale agisce “dopo” che le specie sono nate, è una lotta per la sopravvivenza che agisce tra specie esistenti, e quindi non è all’origine del nuovo, ma soltanto il più efficace agente di distruzione del vecchio.
Suggerirei a Enzo di riprendere l’articolo di Ball, per uno dei suoi magistrali articoli quotidiani. Che cosa c’è di meglio che mostrare l’insufficienza esplicativa del paradigma darwinista in un articolo apparso su Nature di un darwinista?
Ball mi ricorda quelle persone che dicono di essere cattoliche, ma che aggiungono di non credere all’inferno che sono cose per bambini, e neanche alla risurrezione, nemmeno a quella di Gesù Cristo (impossibile!), ecc., ecc.
Prof. Masiero, intanto colgo l’occasione per ringraziarla. Ogni suo articolo che ho il piacere di leggere, sia qui sia su altri blog, è sempre una ventata d’aria fresca. Non mi stancherò mai di leggerla, spero lei possa non stancarsi mai di scrivere.
Ed ecco la questione che vorrei porle (che comunque estendo anche al prof. Pennetta e a quanti avranno voglia di rispondere): l’argomento del fine tuning è uno di quelli che mi appassionano maggiormente ed è pure quello che – a mio avviso- davvero ci costringe a riflessioni “impegnative”.
Eppure ci sono astrofisici, e in questo caso particolare mi riferisco a Neil deGrasse Tyson, i quali affermano che “l’Universo ‘congiura’ ogni istante contro di noi”, nel senso che ci sono mille modi in cui il nostro pianeta rischia costantemente di venire annientato (e con buona probabilità, a quanto pare). Insomma, il puro Caso… anche in questo caso.
Questo argomento viene proposto, ça va sans dire, come confutazione di qualsiasi argomento a favore di un Progetto, qualunque esso sia. Sarei lieto se avesse la voglia di spendere qualche parole a tal proposito: cosa risponderebbe a deGrasse?
Grazie!
@ Jacques de Molay
Che l’Universo sia stato finemente sintonizzato per permettere la vita e l’uomo e’ un FATTO. Valido per tutti, compreso Tyson. Tant’e’ che dalla scoperta del fine tuning la cosmologia scientifica (che correttamente, per metodo, deve evitare il Disegno) non ha trovato altra strada del multiverso, per restare in ambito di cause seconde materiali. E questo, da 40 anni, essa sta facendo al caro prezzo di rinunciare al criterio di Ockam e, ancor piu’ grave, a quello di falsificabilita’ di Popper. Insomma al prezzo di … diventare una cattiva metafisica. Cattiva perche’, come mostrero’ in un prossimo articolo, in ambito metafisico c’e’ un’unica soluzione al fine tuning, ed e’ quella di una Mente personale trascendente.
Naturalmente, per definizione, fine tuning significa che camminiamo in equilibrio su una corda sottile! Pero’ il “fatto” che siamo arrivati fin qui e’… un fatto!
Quella di Tyson e’ invece un’INTERPRETAZIONE filosofica… che assomiglia per la sua virginale antiscientifica sterilita’ alla famosa questione: che sarebbe mia nonna se avesse le ruote? Lei, de Molay, invocherebbe la fortuna per spiegare come il funambolo al circo ha camminato sulla corda senza cadere?
L’uomo c’e’ in questo pianeta. Un fatto.
L’uomo c’e’ perche’ 20 parametri dell’Universo sono finemente aggiustati per consentirlo. Secondo fatto.
L’uomo e’ giunto alla potenza tecnologica per distruggere se’ ed ogni presenza di vita nella Terra ed osservata nell’Universo. Terzo fatto.
Il piu’ grande pericolo per l’uomo e’ l’uomo stesso. Sta a se’, al buon uso della sua liberta’, di salvarsi. Quarto fatto.
Quanto ai pericoli “da fuori”, l’uomo ha acquisito la potenza tecnologica per farvi fronte a tutti, grandi meteoriti compresi. Quinto fatto.
Nel lungo termine, diciamo i 5 miliardi di anni in cui esplodera’ il sistema solare, sta all’uomo (se sara’ stato eticamente capace di sopravvivere) di colonizzare altri pianeti. E questo, per me, e’ l’ultimo fatto che conta.
E ho voluto risponderLe restando rigidamente in ambito scientifico.
In ambito metafisico sarebbe tutta un’altra storia, piu’ facile ancora…
Il paragone con la nonna a rotelle è eloquente, anche più di quello col funambolo! 😀 Scherzi a parte, la ringrazio per gli ottimi spunti Prof.
Al prossimo articolo!
Grazie a Lei, per l’incoraggiamento. Se è interessato al fine tuning, ho scritto di recente un articolo di carattere divulgativo: http://www.uccronline.it/2013/04/11/dalle-coincidenze-delluniverso-la-confutazione-del-naturalismo/
Ovviamente l’avevo già letto e mi sono pure divertito parecchio a leggere le risposte date alle critiche dei detrattori!