Nel numero di Maggio- Giugno di American Psychologist, compare un articolo dal titolo “The Psychological Impacts of Global Climate Change” nel quale due ricercatori, Thomas J. Doherty e Susan Clayton, indagano l’impatto psicologico dei cambiamenti climatici globali.
A ben vedere però i danni psicologici non derivano in realtà da eventi ambientali disastrosi, fatto che sarebbe assolutamente limitato come entità, ma dalla percezione della situazione che viene mediata dai mezzi d’informazione.
È molto chiarificatrice in questo senso la frase posta dai due ricercatori all’inizio del loro articolo:
“La storia completa dei cambiamenti climatici è la storia del dispiegarsi di un’idea e di come questa idea stia cambiando il nostro modo di pensare, sentire e agire.”
(Hulme, 2009, p. xxviii)
Le conseguenze psicologiche dei “cambiamenti climatici globali” sono da attribuirsi ad eventi reali solo in una parte del tutto marginale, quello che agisce è “il dispiegarsi di un’idea”.
Già a partire dalle prime righe viene dunque da domandarsi perché non venga condotto uno studio per valutare il rapporto tra i danni causati effettivamente dagli eventi climatici (da verificare poi che siano effettivamente legati a cause antropiche come nel caso del “Global warming”) e quelli causati dall’allarmismo che viene costantemente diffuso al riguardo.
Dalla lettura dell’articolo emerge anche una seconda interessante considerazione, un effetto che sembra essere finora sfuggito. Nella percezione di un evento catastrofico è molto diverso l’effetto indotto dagli eventi ritenuti propriamente “naturali” e quelli che invece possono essere fatti risalire all’azione dell’uomo, i primi tendono a suscitare solidarietà e collaborazione, i secondi tendono invece a generare e acuire contrasti sociali che scaturiscono dall’idea che esista una responsabilità di qualcuno e quindi un colpevole:
“I disastri tradizionalmente si distinguono per la loro origine naturale (i cosiddetti “atti
di Dio “) rispetto a quelli causati dall’uomo e i loro modelli di impatto.
I disastri naturali tendono ad avere una relativamente chiara progressione lineare di avvertimento-impatto-recupero, in contrasto con il modello non lineare e incerto degli impatti associati a disastri tecnologici. Questi eventi tendono a evocare reazioni diverse.
Risposte altruistiche o solidali verso la comunità sono associate con i disastri naturali, mentre l’incertezza e le divisioni (spesso esacerbate da spaccature sociali preesistenti) sono associate ai disastri di origine tecnologica.”
(Baum & Fleming, 1993; Gill,2007).
Le campagne di informazione sul “Global warming”, come quella che portò al premio Nobel (e premio Oscar) Al Gore per il documentario Una scomoda verità, sono quindi in realtà all’origine di disagi psicologici dovuti non ad effettivi problemi reali, ma “al dispiegarsi di un’idea”, come affermò la sentenza di un tribunale inglese nel 2007:
“la visione apocalittica” presentata dal film è “politicamente di parte” e non un’analisi imparziale della questione del cambiamento climatico. Un’opera “politica, non scientifica”, che contiene una serie di errori fattuali minori ma pur sempre di rilievo. Il giudice ne ha citati nove, inclusa la previsione che lo scioglimento dei ghiacci farà alzare il livello dei mari di sette metri nel prossimo futuro, mentre “un simile scenario da Armageddon potrebbe realizzarsi solo nel corso di un millennio”; la tesi secondo cui gli orsi polari stanno affogando nel tentativo di cercare un nuovo habitat a causa del surriscaldamento del Polo e le affermazioni che l’esaurimento della corrente del Golfo, la perdita delle nevi del Kilimangiaro, il prosciugamento del lago Ciad, sono da imputare direttamente all’emissione di gas nocivi.”
La Repubblica, 12 ottobre 2007
Messaggi come quelli contenuti nel documentario dunque non solo non svolgono la funzione di fornire un’informazione oggettiva ed equilibrata, ma generano danni psicologici moltiplicati dal nascere e dall’affermarsi di sentimenti conflittuali anziché di solidarietà.
Sull’origine antropica del Global warming ci sono molti dubbi, sui danni delle campagne di “sensibilizzazione” cominciamo ad avere delle certezze.